Gianpasquale
Santomassimo
Tra
biografia e filologia: la ricezione italiana di Gramsci
Passato
e presente, n. 89, 2013.
Oggetto del discorso è il testo di Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma 2011.
E giustamente l’analisi parte dal 1914 e si sofferma su quella che potremmo definire la “falsa partenza” di Gramsci politico e uomo di cultura, vale a dire il famoso intervento di adesione personalissima alla mussoliniana “neutralità attiva ed operante”. Un articolo che peserà a lungo come un’ombra su Gramsci, per la nomea di “interventista” che ne deriverà, al punto che non potrà prendere la parola al Congresso socialista di Livorno (delegando il compito a Terracini) a nome della componente torinese dell’ Ordine nuovo per il pericolo di contestazioni associate al suo nome (in effetti c’era molta intolleranza nella sinistra italiana di quel tempo, e se qualcuno raccontasse a Saviano anche cos’era la destra italiana dell’epoca, ne potrebbe ricavare molti articoli). Non è a ben vedere una posizione “interventista” quella di Gramsci, che si fermerà sulla soglia che invece verrà poche settimane dopo varcata da Mussolini, ma è certamente una posizione “mussoliniana”, cosa che non può stupire ove si tenga presente che Mussolini nell’ottobre del ’14 era il leader della sinistra socialista ed era ancora visto come il rinnovatore della sinistra italiana: assieme a Salvemini, il personaggio politico forse più stimato dai giovani torinesi. Mussolini e Salvemini erano stati anche gli “eroi” della protesta contro la guerra di Libia, e il vederli volgere entrambi verso l’intervento era ovviamente fonte di grande suggestione. Ma se quella di Gramsci non è adesione all’interventismo, non è neppure prefigurazione leniniana della guerra rivoluzionaria, come a lungo si è voluto sostenere. Gramsci aveva certamente colto nello scoppio della guerra un’occasione per preparare «quel massimo strappo che segna il traboccare della civiltà da una forma imperfetta in un’altra più perfetta», ma c’era nel suo ragionamento uno 4 strano impasto di determinismo e volontarismo, che poi non si ritroverà più in questi termini negli scritti successivi. Il determinismo residuo era quello proprio di Mussolini: la borghesia deve fare la guerra, perché è nella sua natura, sarebbe impossibile e vano tentare di bloccare questo processo. Anche su altre questioni, cui accenneremo brevemente, il giovanissimo Gramsci mostrava, pur nel rifiuto totale del positivismo, di avere ancora in sé molti elementi della cultura da cui si distaccava. Ma è solo una sciocchezza scrivere - come fa Marcello Veneziani sul “Giornale” del 24 ottobre 2011 - che il giovane Gramsci era “vicino al fascismo”, poiché nemmeno Mussolini nel ’14 aveva la minima cognizione del fascismo futuro. Ed è anche il caso di ricordare che nel 1914, data da cui prende avvio il percorso politico di Gramsci assieme a quello del “secolo breve”, Mussolini e Matteotti, Gramsci e Turati, Treves e Bordiga erano iscritti allo stesso partito. Il crollo definitivo del paradigma positivista a livello europeo si avrà solo nel 1914; ma in Italia al tempo in cui Gramsci comincia a prender posto nel mondo grande e terribile che attraverserà per breve tratto (poco più di vent’anni, di cui solo dodici di politica attiva) il cambio di cultura è già in gran parte avvenuto, nel progressivo sfarinamento del precedente complesso di idee. Gli ingredienti di questa cultura sono indubbiamente eterogenei e possono condurre ad esiti molto diversi. La formazione di Mussolini (che ha otto anni più di Gramsci) era già maturata in questo tornante; ma nel magma di quella crisi matura anche la formazione di quelle che poi saranno le avanguardie antifasciste. Il terreno comune è quello della cultura antigiolittiana e delle sue riviste, nelle cui pagine si mescolavano, secondo un’immagine famosa di Eugenio Garin, le vittime e i carnefici del tempo a venire. Retrospettivamente, si resta sempre colpiti dal pregiudizio e dalla cecità di quella cultura di fronte al più grande fenomeno di trasformazione progressiva che la società italiana avesse fino allora vissuto*.
(*) Da cui si distaccherà Palmiro Togliatti nel suo Discorso su Giolitti, Rinascita, 1950 (conferenza tenuta a Torino il 30 aprile 1950).

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