lunedì 28 febbraio 2022

Luciano Canfora, epigramma

 


MATTEO MARCHESINI

 
FILOLOGI
 
Luciano Canfora
ritrovò un’anfora
di stile attico:
“Quello è Togliatti”
chiosò a lezione
via via le icone
“che spiega a Pericle
gli alti doveri
della doppiezza…
… e si noti qui la finezza:
sfondo nero, figure rosse.
Lì sotto, Vishinskij e Minosse
col motto ‘Idù hé Hròdos, idù’…
Ma già, voi non sapete più
il greco. Hélas, che diffalta!
Insomma: ‘Hic Rhodus, hic Yalta’ ”.

sabato 26 febbraio 2022

La Rus' di Kiev


 L'Ucraina creazione di Lenin

 “È importante risalire agli antefatti della questione per capire la criticità di oggi. L'Ucraina è stata creata dalla Russia. Fu Lenin a chiamarla in questo modo, è stato il suo creatore e il suo architetto. Lenin aveva un interesse particolare anche per il Donbass".  Vladimir Putin, Discorso del 21 febbraio 2022

Fabrizio Dragosei, Kiev, due nomi e tanti secoli più di Mosca, Corriere della Sera, 26 febbraio 2022

A Putin che nega il rango di Stato all’Ucraina, gli abitanti dell’ex Paese fratello hanno risposto con ironia in un primo momento, quando sembrava che quelle del signore del Cremlino fossero solo le uscite di un bullo non troppo pericoloso. «Quando a Kyiv iniziava la civiltà slava, al posto di Mosca c’erano solo foreste impenetrabili». E la San Pietroburgo che gli architetti italiani avrebbero realizzato per Pietro il Grande solo all’inizio del Settecento (novecento anni dopo la nascita di Kyiv) era semplicemente una vasta distesa di paludi e acquitrini.

La capitale ucraina sotto i bombardamenti è un’immagine che a Zelensky, ma non solo a lui, ha ricordato il settembre del 1941, quando i nazisti alle porte la sottoposero a un intensissimo fuoco di artiglieria. Per il coraggio dei combattenti che la difesero strenuamente, Kyiv fu denominata «città eroica» da Stalin e a Mosca, sotto le mura del Cremlino, un blocco di marmo con sopra una stella d’oro ne ricorda le gesta.

È da Kyiv che nasce lo Stato russo, quando un insediamento slavo sul fiume, risalente ai primi secoli dell’era cristiana, si trasformò in principato. Era la Rus’ di Kyiv che arrivò ad estendersi fino a una parte dell’attuale Russia. Dopo il frazionamento di quello Stato, nacque il principato di Mosca, ma solo a metà del 1100.

Finita sotto i lituani e poi i polacchi tra il 1362 e il 1654, la città venne acquistata dagli zar Romanov che allargarono il loro dominio a una parte dell’Ucraina di oggi. Durante la rivoluzione industriale del XIX secolo, Kyiv divenne un importante centro per il commercio e il trasporto di beni per l’impero russo, vista la sua posizione sul Dnepr.

La vita dell’intera Ucraina e della sua capitale fu estremamente difficile dopo la rivoluzione di ottobre. Già durante la guerra civile, Kyiv fu prima catturata dai bolscevichi per finire poi nelle mani dei bianchi e quindi dei tedeschi con i quali la Russia era ancora in guerra. Solo alla fine del 1919 l’Armata rossa la conquistò definitivamente.

Da sempre granaio dell’impero e poi dell’Urss, l’Ucraina dovette subire una delle più drammatiche carestie della storia dell’umanità. Una carestia in massima parte determinata dalla volontà di Stalin che intendeva sradicare dalla faccia della terra la classe dei contadini benestanti, i kulaki. I bolscevichi confiscarono i raccolti provocando tra il 1932 e il 1933 la morte di almeno tre milioni di uomini, donne e bambini.

 

 

mercoledì 23 febbraio 2022

Dove sono finiti i pacifisti

 


 

DONATELLA DELLA PORTA
I destini d'Europa e la pace dei vivi, La Stampa, 23 febbraio

Ci si chiede dove siano finiti i pacifisti, perché mai tacciano, quando ormai a decidere sembra siano già granate, bombe e proiettili. Forse però bisognerebbe chiedersi dove sarebbero quelli favorevoli alla guerra, che l'assecondano e la propiziano. Nei più grandi Paesi europei sarà forse una minoranza. Il punto è che l'opinione pubblica è letteralmente attonita, frastornata, ancora incapace di reagire. Stiamo risalendo la china della pandemia, che oltretutto non è ancora finita, e anziché poter guardare con qualche speranza al futuro ci risvegliamo dopo due anni di incubo con una guerra nel cuore dell'Europa. Per di più una guerra combattuta con le nuove armi dell'intelligence e dell'informazione, ma per il resto tradizionale, anzi tradizionalissima. Donne, anziani e bambini in fuga dalle loro case, carri armati che avanzano, riserve di sacche di sangue pronte all'uso, dato che le vittime vengono calcolate già in migliaia. Ci sentiamo proiettati nel passato più tetro, quello anzitutto della guerra dei Balcani. Come se non fossero bastati quei massacri, il genocidio di Srebrenica. E questo dovrebbe avvenire di nuovo in Europa? Già provata dalla pandemia?
In questi giorni abbiamo sentito quasi solo il parere degli "esperti", che ormai occupano lo spazio pubblico. E in questo caso sono in particolare gli strateghi di geopolitica che spiegano con dovizia di particolari quali sono le cause e le mosse, in un fronte e nell'altro. Ma ora più che mai abbiamo invece bisogno di politica e di una visione che sappia indicare una via d'uscita dal pantano bellico. Se siamo sbigottiti di fronte a una tale escalation, da non riuscire ancora a reagire, è perché in molti hanno confidato nelle capacità diplomatiche, soprattutto europee, di trovare un accordo. Non ci basta chi si limita a tuonare contro Putin - che certo è un autocrate - demonizzando la Russia. E per farlo più agevolmente tira in ballo vecchi scenari sovietici. Come se dall'altra parte non esistessero gravi responsabilità. Finora la voce politica che si è levata è quella di Romano Prodi. Il rischio in Italia, dove in genere si parla quasi solo dei fatti di casa, e poco dell'estero, è che la gente semplicemente non capisca. Chi spiegherà a quanti dovranno pagare il rincaro delle bollette, o magari subire conseguenze ancora più devastanti dalla crisi energetica, che l'Ucraina deve entrare a tutti i costi nella Nato? E le sanzioni alla Russia non si tradurranno in punizioni per noi?
Proprio all'inizio di questo nuovo secolo il filosofo Jürgen Habermas parlava di "Occidente diviso" attribuendo a questa espressione un valore positivo - e in nessun modo negativo, come si suole fare oggi. All'indomani della guerra in Iraq, di cui paghiamo ancora gli effetti, Habermas sottolineava la frattura tra una politica americana che seguiva i propri interessi per un verso violando la legalità internazionale, addirittura i principi giuridici fondamentali, per l'altro ignorando del tutto i tradizionali alleati europei. A proposito di quest'ultimo punto basti pensare all'ignominiosa fuga dall'Afghanistan, avvenuta come se la Nato non esistesse. A quell'unilateralismo americano Habermas contrapponeva il progetto cosmopolitico che, malgrado le guerre devastanti e, anzi, proprio sulla base delle esperienze belliche, ha sempre animato l'Europa. Noi proveniamo da qui, siamo eredi di Kant e del suo grande monito sulla pace perpetua. Perché se si lascia che la guerra anche solo si insinui tra i popoli europei, allora ci sarà la pace eterna dei cimiteri, non la pace dei vivi in grado di trovare un accordo. Ma siamo eredi anche di quel pensiero critico che ci ha insegnato che lo Stato nazionale con i suoi confini rigidi, che respinge e discrimina i migranti, è un grande problema per l'Europa. Lo vediamo oggi in Ucraina. Perché dove popoli e lingue si mescolano, la nazione diventa una forzatura e una fonte di conflitti. Ciò è emerso anche in altri scenari. Prima di parlare di "sovranità" e di "integrità territoriale", come si fa in queste ore, bisognerebbe parlare di popoli ed esseri umani. Per questo serve il federalismo. Per questo l'Unione europea avrebbe dovuto essere da tempo una forma politica sovranazionale in grado proprio perciò di prevenire situazioni di crisi come quella attuale. Chi oggi è pacifista è anche europeista e pensa che l'Europa, questo Occidente antico e altro, debba essere protagonista e intervenire immediatamente per evitare ancora eccidi. —
 
ROMANO PRODI
Il Foglio, 23 febbraio 2022
 
 “Il discorso fatto lunedì da Putin era un discorso arrogante, triste, pericoloso. È un discorso che ci fa rimpiangere la stagione della Guerra fredda, durante la quale l’angoscia della tragedia infinita non permetteva alle piccole e tangibili tragedie di manifestarsi con la forza d’urto che stiamo vedendo in queste ore. Putin ha ripescato il leninismo, la Grande Russia, e ha usato la retorica della nostalgia per spingere se stesso verso il limite più estremo a cui può arrivare senza dover sparare un solo colpo. Ha fatto un atto di guerra, ma non ha fatto ancora la guerra, e sta giocando una partita da pokerista: avanza dove non c’è resistenza e mette l’occidente, e l'Europa, di fronte alle sue contraddizioni”. Contraddizioni di che tipo? “La prima contraddizione è ovviamente economica. L'Europa fa bene, anzi benissimo, a studiare tutte le sanzioni possibili. E bene ha fatto ieri Scholz, il cancelliere tedesco, ad annunciare lo stop ai lavori di Nord Stream 2. Ma Putin sa perfettamente che l'Europa difficilmente utilizzerà sanzioni così dure in grado di uccidere l’economia europea. E Putin, purtroppo, sa bene che l'Europa si presenta di fronte a questo appuntamento formalmente unita, certo, ma con una oggettiva diversità di interessi. Testimoniata anche da due fattori evidenti. Mi dica lei: l'Europa ha una politica energetica comune? Purtroppo no. E poi: l'Europa ha una politica di difesa comune? Purtroppo no. Siamo divisi militarmente, siamo divisi politicamente, abbiamo di fronte a noi solo un’unità economica e di conseguenza quando succedono grandi incidenti non si riesce a fare molto. Il coltello dalla parte del manico oggi ce l’ha Putin. Le reazioni dell'Europa, non per cattiveria, non per mancanza di volontà, ma non potranno mai essere sufficienti, se parametrate a quello che sta facendo la Russia. E sfortunatamente, se di fronte ai grandi problemi del mondo non si è uniti, allineati cioè anche nella difesa degli interessi strategici, le democrazie liberali rischiano di fare un passo indietro e rischiano di osservare in modo passivo i passi in avanti delle democrazie illiberali”. Stanno vincendo i cattivi? “Io non so chi sta vincendo. So quello che sta succedendo”.

lunedì 21 febbraio 2022

Ennio



Film di Giuseppe Tornatore (Italia, Belgio, Cina, Giappone 2021)

SIMONE LORENZATI

Tante volte ho detto che avrei smesso di fare musica per il cinema. Nel 61, quando ho iniziato, dicevo nel 70. Nel 70 dicevo che avrei smesso nell'80, nell'80 che avrei smesso nel 90, nel 90 nel 2000. Adesso non dico più niente. (Ennio Morricone)

Una sorta di trait d'union percorre Ennio, il documentario di Giuseppe Tornatore sulla vita di Ennio Morricone, con cui il regista ha collaborato per quasi trent’anni, instaurando un rapporto amicale di fiducia reciproca.  E' esattamente qui che si fondono narrativa, ma anche storia, geografia – e ovviamente - musica, a guidare lo spettatore all’interno dell’enorme album dei ricordi messo insieme da Tornatore.

Seguendo un ordine narrativo che procede cronologicamente il regista crea una sorta di partitura musicale giocata sul contrappunto, proprio come amava fare Morricone.

C’è l’intervista-fiume che fa da traccia principale, a cui si intersecano le altre voci, che contribuiscono a costruire, rinsaldare, definire la personalità umana e professionale del compositore. Un insieme composito di interviste, di brani musicali, di ricordi privati e di immagini pubbliche, di film e di spartiti, di parole e di filmati. Un grande tributo di artisti, registi, sceneggiatori, musicisti, attori il cui percorso umano e professionale si è intrecciato, per un certo periodo, a quello del Maestro: Bernardo Bertolucci, Dario Argento, Hans Zimmer, Quentin Tarantino, Clint Eastwood, Oliver Stone, Nicola Piovani, Marco Bellocchio, Paolo e Vittorio Taviani, Roland Joffé, Bruce Springsteen, Joan Baez, Quincy Jones e Pat Metheny tra gli altri. Ed è così che emerge un Morricone che ha avuto la capacità di attraversare le epoche, i generi, le geografie e metterli in dialogo tra di loro, sempre mantenendo un legame con  presente contemporaneo e ad un tempo riuscendo ad essere fedele a se stesso.

In questo contesto ha giocato un ruolo fondamentale la moglie Maria, che ha accolto e custodito con riservatezza le fragilità di un uomo e un musicista, permettendogli di esprimere il suo genio senza doversi caricare delle proprie incertezze. Una figura fondamentale eppure così dimessa, in ombra, metafora di un’intimità lasciata sullo sfondo, talmente privata da non potersi prestare nemmeno all’occhio più rispettoso. E la forza del documentario sta tutta nell’intimità del racconto in prima persona, nella commozione che fluisce dal ricordo, con una naturalezza sorprendente, nella memoria implacabile delle divagazioni musicali.

Per Morricone comporre musica voleva dire difendersi dalla solitudine, affidando agli strumenti le proprie passioni interiori. Ecco allora che si chiarificano le ombre, che emergono i non detti: la delusione per quegli Oscar non vinti, Oscar inteso non come una semplice statuetta, bensì come legittimazione all’esistenza di un uomo che ha consegnato se stesso ad ogni nota scritta. Per due ore e mezza i capolavori di Morricone risuonano senza tregua ed è chiaro il tentativo di costruire il documentario sul modello di un grande concerto polifonico, senza rinunciare alla chiarezza espressiva che la massiccia quantità di materiale – archivi e aneddoti, ma anche semplici curiosità - avrebbe potuto facilmente oscurare.

Tornatore racconta il Maestro a poco più di un anno dalla scomparsa di lui, senza tralasciare davvero nulla. Partendo dall’adolescenza, quando Ennio è costretto ad abbandonare il sogno di diventare medico per compiacere il padre trombettista (per la verità Morricone utilizza sempre la parola trombista), al quale sarebbe piaciuto che anche il figlio si guadagnasse da vivere suonando. Gli studi di tromba al Conservatorio la mattina e le serate nei locali, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. Poi dieci anni di “composizione”, sotto la guida del maestro Goffredo Petrassi. La carriera di arrangiatore per la RCA, negli anni ‘60, durante la quale scrive la musica di molte delle più note canzoni italiane del tempo (portate al successo da Gianni Morandi, Gino Paoli, Edoardo Vianello e Mina). L’esordio al cinema, con i primi western musicati sotto pseudonimo perché la cosa era mal vista da colleghi e insegnanti. L’incontro fondamentale con Sergio Leone. Infine, la straordinaria carriera nel cinema, l’Oscar mancato per Mission nel 1987, quello alla carriera del 2007 e quello vinto per The Hateful Eight nel 2016.

Giuseppe Tornatore, qui anche in veste di sceneggiatore, affronta, insomma, la sfida di riassumere in un film settant’anni di carriera e cinquecento colonne sonore di un grande compositore. Morricone parla di sé e del suo valore con profonda timidezza, con assoluta umiltà e facendo trasparire la sua enorme bontà d’animo. Seduto faccia a faccia con il compositore, a casa di quest’ultimo, il regista gli chiede di raccontare la sua vita.

Si susseguono via via con la tecnica già richiamata del contrappunto gli interventi di collaboratori, colleghi e ammiratori: le loro parole contribuiscono al ritratto di un artista poliedrico, di un compositore rivoluzionario dalla creatività instancabile. Le personalità più importanti del panorama cinematografico e musicale lo ricordano come la grande eccezione alle regole, l’unico in grado di cambiare il mondo della musica classica e popolare insieme, come era nel suo stile.

Tornatore non cede al protagonismo e mette Ennio al centro della scena rimanendo spettatore anche nel corso dell’intervista (per esempio non si sentono mai le sue domande). Il tono non è né enfatico né esasperato quanto, invece, calmo e concentrato sulla genuinità dell'interlocutore. Tornatore non cerca la commozione a tutti i costi - e per questo la ottiene - limitandosi a rendere omaggio all’artista e lasciando che sia lui a raccontarsi.

L’intervista e gli interventi seguono l’ordine cronologico degli eventi, mentre il pubblico è trasportato dalle canzoni e colonne sonore più famose, raccontate con dovizia di particolari dall’autore stesso. In più di un’occasione, Morricone si piega anche all'uso del linguaggio tecnico, ma il risultato non è pedante perché la complessità della musica è spiegata dai gesti e dalle imitazioni, gestuali e vocali, del Maestro. Colpisce, in particolare, quel suo metodo personale di pensare prima, e scrivere poi, le partiture, occupandosi ogni volta di tutti gli strumenti uno dopo l'altro. 

Tutto il vissuto e le esperienze si ripercuotono nella sua musica, dove coesistono registri apparentemente antitetici: dalla “musica alta” a quella popolare, dalla musica corale a quella “sperimentale”, e poi campane, barattoli, fischi, ululati, flauti di Pan e la sempre presente tromba: perché, come dice Morricone stesso, “io sono fatto di tutto quello che ho studiato”.

Ciò che più interessa è il punto di vista del protagonista, il conflitto che ha dovuto affrontare per definirsi, la scelta di non abbandonare mai il cinema, il rapporto con il maestro Petrassi, il sollievo ottenuto solo in tarda età, il grande amore che lo ha legato a sua moglie Maria, prima ascoltatrice e giudice del suo lavoro, e ovviamente l’amore, viscerale, genuino e profondissimo verso la musica.

Per il sottoscritto questo film è un’opera meravigliosa, che sprigiona positività e speranza. Che commuove, spesso senza nemmeno volerlo, e che dona leggerezza. Che parla del passato, del presente e del futuro. Ma che, in primis, rimarca l’eternità di un maestro geniale ed unico come Ennio Morricone.

mercoledì 16 febbraio 2022

Dolce e chiara è la notte


 


Giacomo Leopardi

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

La sera del dì di festa (1820)

recanati

Omero, Iliade, VII, 555-559, trad. Giacomo Leopardi

Sì come quando graziosi in cielo

Rifulgon gli astri intorno della luna,

E l’aere è senza vento, e si discopre

Ogni cime de’ monti ed ogni selva

Tutto quanto l’immenso etra si schiude

E vedesi ogni stella

800px-Magnus_Jenny_Lind
Eduard Magnus, Jenny Lind, 1862

Non si dovrebbe isolare l’inizio di una poesia dal resto, non si dovrebbe illustrare Leopardi ricorrendo a un paesaggio notturno e a una immagine femminile di molti anni successiva all’epoca in cui i versi furono scritti. E poi la donna non dorme nel quadro, come fa invece nelle parole del componimento. Bene. Questi abusi hanno una loro ragion d’essere. Leopardi sa restituire in poche pennellate la calma sovrana e imperturbabile del mondo. È ferito dalla visione della bellezza che, come sappiamo da Stendhal, è promessa di felicità. Si sente escluso, e ne soffre, ma non per questo reagisce negando alla scena lo splendore. Mentre soffre, continua ad avvertire il richiamo di quel mondo che osserva con sguardo penetrante e attonito. Questo è un momento della sua avventura spirituale. Si tratta di percepirlo in tutta la sua forza. Tutto il resto verrà dopo, certo. Intanto l’idillio appena rotto dal sentimento dell’ infelicità c’è stato. Ed è stato trasferito sulla pagina con immediatezza. Questo autorizza, volendo, la disinvoltura del taglio e delle illustrazioni.

 

martedì 15 febbraio 2022

Umberto Eco su Dio

 


 

Umberto Eco, Filosofi in libertà, Taylor, Torino 1959

SAN TOMMASO

Se saper vuoi per esempio
e sia detto contro l’empio
se il buon Dio ci sia, per caso,
l’ineffabil san Tommaso
ti dispon con mosse pie
nientemen che cinque vie.
Dice: se per ogni dove
Vo a scoprir che tutto muove,
pei motori risalendo
ecco il Primo vo scoprendo,
ed il Primo,com’è noto,
sarà lui il Motore Immoto.

IMMANUEL KANT

Di quelle cose che tocco e vedo,
or domandatevi se vi sia scienza
del Dio nel quale peraltro credo.
Scienza , o signori, vana e fasulla,
perché i principi del mondo fisico,
causa ed effetto non valgon nulla
nel mondo astratto del metafisico!

GLI ANALISTI DEL LINGUAGGIO

Se Heidegger Martin dichiara
con la sua teoria un po' amara"
"Questo nulla assai nulleggia",
l'analista lo dileggia
e gli dice: Scusi, caro,
lei mi sembra un bel somaro;
sarò sciocco, ne arrossisco,
ma il suo nulla non capisco,
e mi prenda un accidente
se gli trovo il referente!
La sua frase è in sé efficace,
se la leggo assai mi piace,
avrà pur bella presenza,
ma non ha una referenza
ed allora non la assumo.
Cose vaghe non presumo.
Se io dico: "Da' la mela,
questo sì che non mi cela
una ambigua prospettiva:
è una frase prescrittiva.
La filosofia fasulla
sempre pon tra i piedi il nulla.
Se non vuoi farti del fiele,
parla sol di pere e mele;
se analizzi le tue frasi
meglio assai ti andranno i casi.
L'asserzione nebulosa
non compete alla mia prosa
e la lascio in fede mia
alla libera poesia
che incantare sa i fresconi
con le pseudoaffermazioni!"

Ma analizza questo e quello,
gli analisti, ahimé, bel bello,
con la tema di asserire,
quel che non si può esperire,
sono giunti, su per giù,
che non parlan quasi più.




   

domenica 13 febbraio 2022

Cosa vuole Putin

 
 

 
 Anna Zafesova, Lo Zar stizzito in cerca di ragione, La Stampa, 13 febbraio 2022
 
Uno dei motivi per cui il negoziato è così difficile e finora infruttuoso è che Putin vuole avere ragione. Rispetto all'offerta di Biden di un negoziato strategico, Putin ritiene prioritario venire riconosciuto come vincitore in un duello verbale.
Da quando, nel 2001, George W. Bush disse di aver guardato negli occhi di Vladimir Putin e aver «visto la sua anima», la ricerca di un feeling speciale con il padrone del Cremlino è diventata una disciplina olimpica dell'alta diplomazia. Nonostante Bush in seguito si sia sentito deluso al punto da paragonare il suo collega russo a un «scolaretto che non ha imparato la lezione», a ogni nuova crisi, qualche leader internazionale prova a sedurre lo zar. Perfino Joe Biden ammette che «solo Putin sa cosa ha deciso» sull'invasione dell'Ucraina, e tutti cercano di «provare a vedere la situazione attraverso i suoi occhi», come ha sintetizzato Emmanuel Macron, l'ultimo politico occidentale ad aver tentato il viaggio della speranza a Mosca.
Il paradosso è che Putin è sempre straordinariamente meticoloso nel spiegare cosa vuole e pensa. Per essere quel maestro di alto spionaggio che molti media occidentali raccontano, è insolitamente sincero, e non risparmia tempo a esporre le sue "red lines" e le sue lamentele. Invece di un genio del male che minaccia la guerra in un poker strategico, Macron si è trovato davanti un uomo stizzito e polemico, che gli ha snocciolato le frustrazioni e accuse della propaganda russa, immutate da anni, davanti alle telecamere come nei colloqui a porte chiuse, come ebbe modo di scoprire Angela Merkel, inviata nel 2014 da Barack Obama a sondare cosa volesse "davvero" Putin.
Uno dei motivi per cui il negoziato è così difficile e finora infruttuoso è che Putin vuole avere ragione. «Vuole farsi sentire», dice alla tv Dozhd Nina Krusciova, la politologa figlia del leader sovietico della crisi di Cuba nel 1962. Rispetto all'offerta di Biden di un negoziato strategico su missili, basi e bombardieri, che potrebbe offrire reali garanzie di sicurezza alla Russia, oltre che all'Europa, Putin ritiene prioritario venire riconosciuto come vincitore in un duello verbale. In un mondo mediatico, vuole imporre la sua narrazione. Infatti non è un caso che la Casa Bianca lo incalzi con un'offensiva di informazione, ancora prima che militare: i ruoli si sono ribaltati, ormai è il Cremlino quello costretto a smentire, rassicurare, giustificarsi, invece di accusare.
La diplomazia consiste nel confrontare gli interessi in conflitto, proporre soluzioni, elaborare garanzie, far pesare il prezzo di un'escalation e offrire incentivi per un compromesso. Un processo razionale. Il problema, come ha sintetizzato qualche giorno fa sulle pagine del «Financial Times» Gideon Rachman, è che l'Occidente crede di dialogare con Putin il Razionale, ma potrebbe trovarsi davanti Vlad the Mad, Vlad il Pazzo. Un presidente obnubilato da 22 anni di potere assoluto, ulteriormente isolato dal mondo reale dal Covid, consigliato da cortigiani che alimentano le sue paranoie: «E se Vlad credesse alla propria propaganda?», è l'interrogativo terribile posto da Rachman.
Una risposta affermativa sarebbe la condanna della diplomazia. Insistere di avere ragione è l'opposto del compromesso. E se a non voler cedere è il leader incontrastato di una dittatura, scoprire cosa ha in mente diventa cruciale. Ma anche una dittatura ha una sua razionalità, e le pressioni occidentali potrebbero lasciare inscalfibile Putin, ma spaventare i suoi ministri e oligarchi, ai quali americani ed europei hanno spiegato chiaramente cosa possono perdere in caso di guerra. In un regime che sembra «un indovinello avvolto in un mistero all'interno di un enigma», come lo descriveva Churchill, potrebbero essere loro a trovare le argomentazioni che la diplomazia razionale dell'Occidente fatica a escogitare. 
 
https://www.avvenire.it/mondo/pagine/crisi-ucraina-cosa-c-e-da-sapere

 

venerdì 11 febbraio 2022

Draghi dopo Draghi: un'operazione politica


Stefano Folli, Porta a Draghi il disegno centrista, la Repubblica, 11 febbraio 2022

È sempre più evidente quale sia la partita politica che si sta giocando dietro le manovre per così dire neo-moderate, volte a creare spazi politici per un raggruppamento di centro, quello che gli avversari definiscono con sarcasmo un “centrino”. L’operazione in sé non avrebbe grande respiro se non fosse collegata a una precisa prospettiva: mantenere Mario Draghi alla presidenza del Consiglio anche dopo le elezioni del 2023. S’intende, non si tratta di coinvolgere il premier nella campagna elettorale, tanto meno chiedergli di guidare una lista con il suo nome: l’esperienza di Monti nel 2013 rappresenta un precedente negativo che nessuno pensa di ripetere.

La questione è un’altra e l’ha ben descritta il sindaco di Bergamo, Gori, nell’intervista a Repubblica raccolta da Giovanna Vitale.
La maggioranza di semi-unità nazionale non è destinata a durare molto a lungo. È vero, il nuovo mandato di Mattarella contribuisce a ingessare il quadro politico, ma la logica dell’emergenza non può essere eterna (benché ci sia chi lo spera). Il voto del prossimo anno cambierà lo scenario. Come e in quali termini, nessuno finora lo sa.
Ma c’è chi lavora, da un lato, per staccare il Pd dall’alleanza strategica con quel che resta dei “grillini”; e dall’altro per spingere a destra, fuori dall’area di governo, Fratelli d’Italia e la fazione della Lega che segue Salvini. Nello spazio così creato potrebbero convergere i reduci di Forza Italia e vari segmenti che si rappresentano come liberal-democratici, dai renziani fino a +Europa, magari anche il “partito dei governatori” d’impronta leghista: varie sfumature moderate e, chissà, in qualche caso persino riformiste.
Di sicuro non sono gruppi e personaggi abituati ad andare d’accordo tra loro, ma ecco la novità, se possiamo chiamarla così.
Questo raggruppamento assai eterogeneo, forse troppo, dovrebbe diventare il partner privilegiato di un Pd che non abbandona del tutto il M5S al suo destino, ma lo tratta da alleato minore, di fatto un vassallo.
E poiché l’equilibrio sarebbe instabile — figlio di un sistema di cui abbiamo appena sperimentato la precarietà nei giorni del Quirinale — , si chiederebbe a Draghi di continuare la sua opera a Palazzo Chigi alla testa non più di una maggioranza di “larghe intese”, ma di una coalizione politica. Certo, il premier non sarebbe coinvolto nei giochi elettorali dei partiti, ma diventerebbe il punto di riferimento dei gruppi “centristi” con il sostanziale consenso del Pd.
È, come si vede, un piano complicato e ancora confuso, senza dubbio con pochi precedenti.
Presuppone una legge elettorale proporzionale, senza la quale le ambizioni “centriste” rimarrebbero solo sogni. In secondo luogo, il Pd dovrebbe fare buon viso a cattivo gioco: da un lato puntare, come è ovvio, a essere il primo partito nel nuovo Parlamento; e al tempo stesso rinunciare a esprimere il presidente del Consiglio, perché solo con tale sacrificio la coalizione nascerebbe con un minimo di equilibrio e con un profilo adeguato ai momenti tempestosi che ci attendono.
C’è molta strada da fare prima di realizzare un simile progetto, che tuttavia non è privo di logica. Non avrebbe infatti molto senso trattenere Draghi a Palazzo Chigi, in luogo di eleggerlo al Quirinale, per congedarlo pochi mesi dopo. Viceversa, un disegno che gli permetta di restare più a lungo alla guida del paese può essere condiviso o no, ma almeno è un’operazione politica.
 
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giovedì 10 febbraio 2022

Il danno scolastico




Massimo Rostagno, Il danno scolastico. A proposito di un testo recente 

Un libro importante si aggira, come uno spettro, per le librerie italiane. Un libro provocatorio, ma non avventurista; abrasivo, ma costruttivo. Si tratta de Il danno scolastico, di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (Milano, La nave di Teseo, 2021) Gli autori riversano nel testo la loro pluridecennale esperienza all’interno delle istituzioni formative italiane: nell’Università, lui, nei licei e nelle scuole superiori, lei. E vanno a toccare uno dei punti nevralgici del sistema-Italia, talmente decisivo da poter determinare in misura considerevole il futuro stesso del nostro paese nei prossimi decenni, la nostra stessa collocazione nel novero delle nazioni più sviluppato. E proprio perché il tema affrontato è di questa rilevanza, il libro di Ricolfi e Mastrocola meriterebbe qualcosa di più di una semplice recensione, di un qualche distratto articolo dovuto per lo più alla notorietà degli autori. Dovrebbe generare un vero, ampio e articolato dibattito nazionale in cui far convergere non soltanto pareri più o meno qualificati e autorevoli, ma analisi approfondite, coinvolgimento di attori pubblici, impegno di vari livelli istituzionali.

La tesi centrale è aspra ma proprio per questo decisamente stimolante. Si configura come un atto di accusa, senza sconti, contro la visione “progressista” della scuola che si è affermata quanto meno dopo il 1968 e si può riassumere facilmente: la scuola non selettiva, facilitata, ispirata a principi di inclusione sociale per favorire il successo scolastico delle classi meno abbienti ha prodotto esattamente il suo contrario. Il buonismo progressista ha di fatto danneggiato proprio le classi sociali più basse che avrebbe voluto promuovere. Nel nome dell’inclusione ha escluso, nel nome della democrazia si è fatta più antidemocratica.

La provocatoria tesi non è soltanto l’ennesimo episodio di una resa dei conti che Luca Ricolfi porta avanti da anni con la sinistra e la sua cultura (a partire da “Perché siamo antipatici?”, ad esempio). E’ molto di più: è la denuncia del fallimento di una strategia formativa e culturale il cui risultato più visibile è stato l’abbassamento considerevole del livello qualitativo dell’insegnamento e dell’apprendimento. A furia di ridurre le esigenze, di abbassare l’asticella delle richieste, le competenze e le conoscenze degli studenti si sono impoverite fino al punto da produrre uno iato tra il titolo di studio formale ottenuto e la qualità sostanziale della preparazione. In altri termini, i titoli di studio conseguiti non corrispondono più alla effettiva preparazione raggiunta. Una sufficienza si dà ormai a tutti e la bocciatura è un fatto rarissimo ed estremo. Una sorta di “liberi tutti” che ha contrassegnato la scuola degli ultimi decenni.

A titolo esemplificativo si può portare la percentuale dei bocciati all’esame di Stato che conclude il ciclo degli studi superiori ( tuttora chiamato impropriamente esame di maturità): ai tempi della riforma Gentile del 1923 la percentuale di bocciati era intorno al 40%; verso la metà degli anni’60 si era ridotta al 30% e negli anni ’90 si è abbassata al 10%. Negli anni zero del 2000 scende al 3%, per ridursi più recentemente a meno dell’1%. Chi ha avuto – come chi scrive – esperienza diretta e viva degli esami di fine ciclo all’interno delle commissioni degli ultimi anni non può che confermare largamente questa realtà. Bocciare è diventato quasi un reato, che spesso va giustificato ( in caso di ricorsi) proprio davanti ad un tribunale ed a un giudice. L’evoluzione delle percentuali dell’esame di maturità non è che il riflesso di ciò che avviene negli anni scolastici precedenti all’ultimo. Nel nome dell’inclusione scolastica, qualunque studente semianalfabeta può avanzare negli studi superiori e conseguire senza eccessivi patemi l’agognato diploma.

Lo scadimento della qualità, il fatto che si pretende di meno dagli studenti e l’aumento della “comprensione” verso le innumerevoli forme di difficoltà sono un’esperienza ben nota a chiunque abbia operato nella scuola degli ultimi decenni. Talvolta, questa realtà quotidiana, raggiunge le pagine dei giornali attraverso la accorata denuncia dell’incapacità dei nostri studenti a scrivere in un corretto italiano ( ricordate la polemica anche delle settimane scorse su tema sì o tema no all’esame di Stato?) o a comprendere un testo scritto o a gestire mentalmente una semplice percentuale. Fa notizia per 24 ore, poi sprofonda nell’indifferenza generale.

La denuncia dello scadimento della scuola inclusiva o facilitata che consente l’avanzamento anche ai più somari non è dunque una novità. Ciò che invece contraddistingue il libro di Mastrocola e Ricolfi è una certa contestualizzazione culturale e politica. La scuola che promuove, che include e che dunque non seleziona e non discrimina a sufficienza tra chi è bravo e meritevole e chi non lo è ha una sua matrice culturale precisa: è figlia della concezione progressista, che da don Milani attraverso la contestazione sessantottesca fino al “diritto al successo formativo” del ministro Berlinguer, ha di fatto smantellato i meccanismi selettivi a favore di una democratica indulgenza plenaria che assolve e promuove tutti. Ma ciò che è peggio – ed è il nucleo della tesi degli autori – sono le conseguenze: a pagare il prezzo di questa indulgenza, sono proprio quei ceti in nome dei quali la cultura progressista l’ha praticata. In altri termini, la scuola progressista, facilitata danneggia i ceti medio bassi e avvantaggia quelli medio alti. Aumenta l’iniquità sociale invece di ridurla, inceppando quell’ascensore sociale per eccellenza che è proprio la scuola. Se la possibilità di migliorare la propria condizione sociale di partenza è affidata alla scuola, il suo mal funzionamento accentua le diseguaglianze di partenza, perché toglie ai figli dei ceti più svantaggiati l’unico strumento vero di emancipazione: una solida e valida preparazione scolastica.

La tesi centrale del testo appare - nella sua compattezza - assolutamente condivisibile. Il libro contiene un atto d’accusa forte, sostenuto da dati e riscontri oggettivi e numerici difficilmente contestabili che mostrano la correlazione tra scadimento della qualità scolastica e incremento dell’iniquità sociale. Se la tesi appare pienamente condivisibile (e meritevole di un dibattito ampio e approfondito) la parte che convince di meno è relativa alle responsabilità. Chi sono i colpevoli? Contro chi puntare l’indice accusatorio?

O meglio, chi sono gli esecutori materiali che hanno premuto il grilletto della pistola approntata dalla cultura permissivo-progressista? Su questo il libro prova ad essere altrettanto preciso: i risultati evidenziati sono l’esito di un lungo percorso che parte addirittura dalla scuola media unica del ’62 che elimina l’obbligatorietà del latino (su questo ci sarebbe molto da discutere), trova il suo trionfo nella demagogia egualitaria del ’68. In tempi più recenti, - diciamo negli ultimi trent’anni – gli autori individuano negli interventi del ministro Luigi Berlinguer lo smantellamento definitivo di ciò che restava della serietà precedente delle istituzioni scolastiche: dall’introduzione del POF (piano offerta formativa) che aumenta il peso delle esperienze extracurricolari a scapito di quelle curriculari fino alla proclamazione ufficiale del “diritto al successo formativo” per ogni studente. In sostanza la riforma Berlinguer del 2000 avrebbe sostituito la serietà della preparazione e della conoscenza con la fuffa delle competenze abbassando definitivamente un’asticella già piuttosto bassa. Poi il ministro Gelmini avrebbe completato l’opera producendo il disastro odierno. In definitiva, sullo sfondo dell’Europa e della dominante cultura mercatista, ad affossare definitivamente la scuola italiana sarebbero stati gli interventi politici e le modifiche legislative introdotte dai diversi governi.

Fin qui, per sommi capi, le tesi degli autori, che sono sostenute da argomentazioni molto convincenti, e per nulla azzardate. Magari problematiche, ma non infondate.

Qual è allora l’aspetto carente della ricostruzione di Ricolfi-Mastrocola? Perché la ricerca delle responsabilità dell’attuale situazione appare quanto meno parziale nel tentativo di ricondurla tutta alla politica e alle sue decisioni soggettive?

In altri termini, che cosa manca?

Manca il “paesaggio”. La degenerazione dei processi formativi è descritta con grande efficacia ma è come se intorno alla scuola ci fosse il nulla. Vengono in mente le icone medievali che raffigurano meravigliosamente la Vergine, ma la collocano su uno sfondo dorato senza nulla intorno. Senza paesaggio, appunto.

Fuor di metafora, negli ultimi trent’anni siamo stati attraversati da una fenomenale trasformazione trainata prevalentemente (ma non solo) dalla tecnologia. Si può immaginare che mutamenti di questa portata non abbiano attraversato i processi formativi? Che gli attori della scuola – in primis gli studenti, i docenti e persino le famiglie – non siano stati riplasmati da una rivoluzione tecnologica tanto capillare e concentrata in un tempo così breve? E che non ci sia stato un impatto sul rapporto con la conoscenza di milioni di adolescenti, sulla loro capacità di attenzione, sulla struttura stessa del sapere e della sua trasmissione? L’ecosistema in cui è stata immersa la scuola nell’ultimo trentennio è imparagonabile con quello della professoressa Peretti – la “Pera” del libro di Ricolfi e Mastrocola. Questo sfondo, così decisivo, manca nel libro e la scuola è analizzata efficacemente sì, ma come in un compartimento stagno, separata dal suo travolgente contesto economico e sociale.

Questa omissione toglie qualcosa al valore del libro e della sua tesi centrale? Assolutamente no. Semmai, proprio perché la tesi ed il tema sono così importanti sembrerebbe opportuno collocarli meglio all’interno del contesto della ipermodernità contemporanea. Non per svilirne il valore, ma per accrescerlo.


https://www.doppiozero.com/materiali/mastrocola-e-ricolfi-quale-e-il-vero-danno-scolastico

Memoria e antimemoria: le foibe






Tomaso Montanari, Rettore Università per Stranieri di Siena, Introduzione

Mauro Moretti, Università per Stranieri di Siena, a colloquio con Alberto Cavaglion, Università di Firenze, Decontaminare le memorie
Francesco Pallante, Università di Torino, La politica della memoria in una democrazia costituzionale antifascista
Marta Verginella, Università di Lubiana, Memorie di confine e uso politico della storia
Luca Casarotti, Università di Pavia – Anpi Pavia, Il legislatore storico contemporaneista: diritto, storiografia e opinione pubblica sul confine altoadriatico
Filippo Focardi, Università di Padova, Il Quirinale e il Giorno del ricordo: la strada impervia (ma necessaria) di una memoria europea riconciliata
Carlo Greppi, Curatore della serie ‘Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti’ (Editori Laterza), Una battaglia (anche) editoriale. Potenzialità e insidie del debunking storico
Eric Gobetti, Membro del comitato scientifico dell’Istituto storico della Resistenza di Alessandria, Ripensare il Giorno del Ricordo: per una storia democratica del confine.


Aldo Grasso, La memoria e le provocazioni, Corriere della Sera, 10 febbraio 2021

Polemica alla vigilia del giorno che ricorda la tragedia delle foibe. In un convegno il professor Tomaso Montanari torna a criticare la ricorrenza. La memoria va a corrente alternata? Memoria significa anche ricordare l’accoglienza riservata da molti italiani ai profughi che arrivavano da quelle terre martoriate.

Più che una riflessione è un’ossessione, più che un’analisi è un’esibizione, più che storiografia è mitomania. Per Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, le foibe rappresentano sempre una buona occasione per mettersi in mostra davanti a una sinistra «dura e pura». Di cui, evidentemente, si sente l’ultimo erede. Alla vigilia del Giorno del ricordo, «istituito — come recita la legge n. 92 del 30 marzo 2004 — al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra», Montanari ha pensato bene di organizzare a Siena un seminario dal titolo: «Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del ricordo». Nel presentare il convegno (in una sala semideserta), Montanari ha ribadito il carattere accademico dell’incontro («l’università non si schiera politicamente»), che in discussione non è la tragedia delle vicende ma il revanscismo fascista che ha portato all’istituzione della legge del 2004, e tuttavia (nonostante la qualità degli interventi) a nessuno sfugge il carattere di provocazione per ribadire, ancora una volta, come questa ricorrenza sia «una falsificazione storica» voluta dalle destre. Il Giorno del ricordo non è nato in evidente opposizione alla Giornata della memoria (della Shoah). Se alcuni faziosi lo fanno (e lo fanno), se ne assumano la responsabilità. Ma non esiste nessuna equiparazione fra i due eventi: la Shoah indica l’unicità di una tragedia senza paragoni. Le foibe sono un abisso, la voragine dell’inebetimento umano. Non paragonabili al calcolato progetto di genocidio dei nazisti ma pur sempre parte di quell’ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo. La disinvoltura sul numero dei morti «costituisce — ha scritto Raoul Pupo — un ottimo trampolino di balzo per il negazionismo, che ha buon gioco nel denunciare esagerazioni e incongruenze e che nel facile risultato trova la spinta a mettere in discussione non solo la retorica rappresentazione, ma la sostanza dei fatti». La memoria va a corrente alternata? Memoria significa anche ricordare l’accoglienza riservata da molti italiani ai profughi. Come suggerisce Toni Concina, presidente dei Dalmati italiani nel mondo: «Vorremmo che la Nazione ricordasse con serietà e orgoglio i suoi 350.000 figli estirpati dalle loro terre e dimenticati per decenni.

E che si smetta di considerarla legata soltanto all’occupazione fascista! Basta leggere i censimenti austriaci dell’inizio ’900 e paragonarli con quelli croati di fine secolo per toccare con mano la sostituzione etnica effettuata sulla pelle di cittadini laboriosi e onesti, principali vittime delle conseguenze della sciagurata Seconda guerra mondiale».