lunedì 31 ottobre 2016

L'Altro in Lévinas e Canetti

Emmanuel_Levinas


Emmanuel Lévinas
Il volto dell' altro

L'altro uomo non mi è indifferente, l'altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola "riguardare". In francese si dice che "mi riguarda" qualcosa di cui mi occupo, ma "regarder" significa anche "guardare in faccia" qualcosa, per prenderla in considerazione. Io chiamo appunto questa "apparizione" dell'altro, il volto umano. Il volto umano è la testimonianza non del trionfo istituzionale del bene, ma della possibilità del bene, della possibilità per l'uomo di essere buono verso l'altro uomo o piuttosto della possibilità di leggere sul volto dell'altro uomo la vocazione, il richiamo alla bontà. Per me questa è la parola di Dio. Io trovo Dio nell'etica, non ho alcuna altra idea di Dio valida. È qui che trovo il senso di qualcosa che interrompe bruscamente il corso delle cose: il fatto che l'uno si occupa dell'altro è il solo momento in cui c'è un'alterità totale, un'alterità che non rientra nell'ordine che io controllo, che non diventa mia. Anche il mio schiavo, in quanto uomo, mi sfugge e perciò è assolutamente altro. Trovo che nel momento in cui sento questa alterità come ordine muto, come comandamento, non dico che sia di Dio, ma certo non c'è parola più forte.

http://machiave.blogspot.it/2013/01/il-volto-dellaltro-2-levinas.html

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Elias Canetti
Il piacere di sopravvivere

L’afferrare e il mangiare sono le azioni originarie del potere, ma l’istante della potenza vero e proprio è l’istante del sopravvivere. A tale istante corrisponde una forza incomparabile, la sensazione di essere un eletto, l’unico sopravvissuto tra molti che hanno invece avuto un destino comune. La forza deriva dalla consapevolezza di essere ancora vivi, e poiché il sopravvissuto è l’unico ad esserlo tra molti, egli si sente in qualche modo migliore. Alla sopravvivenza sono legati tutti i desideri d’immortalità, mentre nella sua forma più semplice essa consiste nell’uccidere. Colui a cui capita di sopravvivere più volte è considerato un eroe. Il piacere di sopravvivere è tale che può persino divenire pericoloso e insaziabile, una passione morbosa, quella che spesso muove gli eroi e i condottieri.
...
La morte è il pericolo supremo e in quanto tale il potente per eccellenza è colui che dispone del diritto di vita e di morte sugli altri individui.

http://machiave.blogspot.it/2014/07/canetti-massa-e-potere-parte-seconda.html

domenica 30 ottobre 2016

Pasolini secondo Moravia



 Alberto Moravia
Ma che cosa aveva in mente?
“L’Espresso”,
9 novembre 2015

Chi era, che cercava Pasolini? In principio c’è stata, perché non ammetterlo?, l’omosessualità, intesa però nella stessa maniera dell’eterosessualità: come rapporto con il reale, come filo di Arianna nel labirinto della vita. Pensiamo un momento solo alla fondamentale importanza che ha sempre avuto nella cultura occidentale l’amore; come dall’amore siano venute le grandi costruzioni dello spirito, i grandi sistemi conoscitivi; e vedremo che l’omosessualità ha avuto nella vita di Pasolini lo stesso ruolo che ha avuto l’eterosessualità in quella di tante vite non meno intense e creative della sua.
Accanto all’amore, in principio, c’era anche la povertà. Pasolini era emigrato a Roma dal Nord, si guadagnava la vita insegnando nelle scuole medie della periferia. È in quel tempo che si situa la sua grande scoperta: quella del sottoproletariato, come società rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese edonista e superba.
Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà, dunque, il suo, un comunismo di rivolta, e neppure illuministico; e ancor meno scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista, “romantico”, cioè animato da una pietà patria arcaica, un comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell’utopia. È superfluo dire che un comunismo simile era fondamentalmente sentimentale (do qui alla parola “sentimentale” un senso esistenziale, creaturale e irrazionale). Perché sentimentale? Per scelta, in fondo, culturale e critica; in quanto ogni posizione sentimentale consente contraddizioni che l’uso della ragione esclude. Ora Pasolini aveva scoperto molto presto che la ragione non serve ma va servita. E che soltanto le contraddizioni permettono l’affermazione della personalità. Ragionare è anonimo; contraddirsi, personale.
Le cose stavano a questo punto quando Pasolini scrisse Le ceneri di Gramsci, La religione del nostro tempo, Ragazzi di vita, Una vita violenta e esordì nel cinema con Accattone. In quel periodo, che si può comprendere tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Pasolini riuscì a fare per la prima volta nella storia della letteratura italiana qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra.
La poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall’inizio dell’Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando per Carducci su su fino a D’Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso repressivo, trionfalistico ed eloquente. Pasolini riuscì a compiere un’operazione nuova e oltremodo difficile: il connubio della moderna poesia decadente con l’utopia socialista. Forse una simile operazione era riuscita in passato soltanto a Rimbaud, poeta della rivoluzione e tuttavia, in eguale misura, poeta del decadentismo. Ma Rimbaud era stato assistito da tutta una tradizione giacobina e illuministica. La poesia civile di Pasolini nasce invece miracolosamente in una letteratura da tempo ancorata su posizioni conservatrici, in una società provinciale e retriva.

Questa poesia civile, raffinata, manieristica ed estetizzante che fa ricordare Rimbaud e si ispirava a Machado e ai simbolisti russi, era tuttavia legata all’utopia di una rivoluzione sociale e spirituale che sarebbe venuta dal basso, dal sottoproletariato, quasi come una ripetizione di quella rivoluzione che si era verificata duemila anni or sono con le folle degli schiavi e dei reietti che avevano abbracciato il cristianesimo. Pasolini supponeva che le disperate e umili borgate avrebbero coesistito a lungo, vergini e intatte, con i cosiddetti quartieri alti, fino a quando non fosse giunto il momento maturo per la distruzione di questi e la palingenesi generale: pensiero, in fondo, non tanto lontano dalla profezia di Marx secondo il quale alla fine non ci sarebbero stati che un pugno di espropriatori e una moltitudine di espropriati che li avrebbero travolti. Sarebbe ingiusto dire che Pasolini aveva bisogno, per la sua letteratura, che la cosa pubblica restasse in questa condizione; più corretto è affermare che la sua visione del mondo poggiava sull’esistenza di un sottoproletariato urbano rimasto fedele, appunto, per umiltà profonda e inconsapevole al retaggio di un’antica cultura contadina.
Ma a questo punto è sopravvenuto quello che, in maniera curiosamente derisoria, gli italiani chiamano il “boom” , cioè si è verificata ad un tratto l’esplosione del consumismo. E cos’è successo col “boom” in Italia, e per contraccolpo nella ideologia di Pasolini? È successo che gli umili, i sottoproletari di Accattone e di Una vita violenta, quegli umili che nel Vangelo secondo Matteo Pasolini aveva accostato ai cristiani delle origini, invece di creare i presupposti di una rivoluzione apportatrice di totale palingenesi, cessavano di essere umili, nel duplice senso di psicologicamente modesti e di socialmente inferiori, per diventare un’altra cosa. Essi continuavano naturalmente ad essere miserabili, ma sostituivano la scala di valori contadina con quella consumistica. Cioè, diventavano, a livello ideologico, dei borghesi.
Questa scoperta della borghesizzazione dei sottoproletari è stata per Pasolini un vero e proprio trauma politico, culturale e ideologico. Se i sottoproletari delle borgate, i ragazzi che attraverso il loro amore disinteressato gli avevano dato la chiave per comprendere il mondo moderno, diventavano ideologicamente dei borghesi prim’ancora di esserlo davvero materialmente, allora tutto crollava, a cominciare dal suo comunismo populista e cristiano. I sottoproletari del Quarticciolo erano, oppure aspiravano, il che faceva lo stesso, ad essere dei borghesi; allora erano o aspiravano a diventare borghesi anche i sovietici che pure avevano fatto la rivoluzione nel 1917, anche i cinesi che avevano lottato per più di un secolo contro l’imperialismo, anche i popoli del Terzo mondo che una volta si erano configurati come la grande riserva rivoluzionaria del mondo.

Non è esagerato dire che il comunismo irrazionale di Pasolini non si è più risollevato dopo questa scoperta. Pasolini è rimasto, questo sì, fedele all’utopia, ma intendendola come qualche cosa che non aveva più alcun riscontro nella realtà e che di conseguenza era una specie di sogno da vagheggiare e da contemplare ma non più da realizzare e tanto meno da difendere e imporre come progetto alternativo e inevitabile.
Da quel momento Pasolini non avrebbe più parlato a nome dei sottoproletari contro i borghesi, ma a nome di se stesso contro l’imborghesimento generale. Lui solo contro tutti. Di qui l’inclinazione a privilegiare la vita pubblica, purtroppo borghese, rispetto alla vita interiore, legata all’esperienza dell’umiltà. Nonché una certa ricerca dello scandalo non già a livello del costume ma a quello della ragione. Pasolini non voleva scandalizzare la borghesia, troppo consumistica ormai per non consumare anche lo scandalo. Lo scandalo era diretto contro gli intellettuali, che, loro sì, non potevano fare a meno di credere ancora nella ragione. Di qui pure un continuo intervento nella discussione pubblica, basato su una sottile e brillante ammissione, difesa e affermazione delle proprie contraddizioni.
Ancora una volta Pasolini si teneva alla propria esistenzialità, alla propria creaturalità. Solo che un tempo l’aveva fatto per sostenere l’utopia del sottoproletariato salvatore del mondo; e oggi lo faceva per criticare la società consumista e l’edonismo di massa. Aveva scoperto che il consumismo era penetrato ormai ben dentro l’amata civiltà contadina. Ciononostante, questa scoperta non l’aveva allontanato dai luoghi e dai personaggi che un tempo, grazie ad una straordinaria esplosione poetica, l’avevano così potentemente aiutato a crearsi la propria visione del mondo. Affermava in pubblico che la gioventù era immersa in un ambiente criminaloide di massa; ma in privato, a quanto pare, si illudeva pur sempre che ci potessero essere delle eccezioni a questa regola.
La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nei suoi romanzi e nei suoi film, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.

Fonte: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-un-ricordo-di-moravia-del-novembre-1975/

sabato 29 ottobre 2016

La presunta morte di Cipputi



Articolo suggestivo, non saprei dire quanto veridico. Certe affermazioni paiono vere e non lo sono, infatti. Si è proprio estinto il proletariato industriale? Socialmente occupa meno spazio, non si colloca più al centro della scena, ma scomparso non è neppure da noi, figuriamoci poi in Cina o in Bangladesh. E anche con meno operai di fabbrica in giro, il lavoro resta tuttora un tema importante. Quello che è soprattutto mutato è il clima. Caduto il messianismo, rimane una visione disincantata che porta interrogarsi sul futuro della condizione umana nell'orbe terracqueo. Non sembra un tema tanto marginale, anche se in tempi postmoderni molti possono senza danno guardare altrove.  (Giovanni Carpinelli)



Diego Gabutti, La letteratura di fabbrica è invecchiata di colpo, Italia oggi, 29 giugno 2013

In una delle due prefazioni a Fabbrica di carta. I libri che raccontano l'Italia industriale, Laterza 2013, pp. 346, 20,00 euro, un libro a cura di Giuseppe Lupo e Giorgio Bigatti, il primo storico della letteratura alla Cattolica, il secondo storico dell'economia alla Bocconi, Giuseppe Lupo cita, ragionando «per paradossi», i «versi d'Inferno XXI, 11-15, che descrivono “l'arzanà de' veneziani”, il grande cantiere dove gli operai spalmano pece sulle carene delle navi, ravvolgono funi, modellano remi e chiglie con le pialle» come la più remota testimonianza della «letteratura industriale o letteratura di fabbrica».
Chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più vïaggi fece; / chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi e altri volge sarte; / chi terzeruolo e artimon rintoppa.
Con letteratura industriale s'intendono la narrativa e (più raramente) la poesia che si sono occupate della produzione, dell'organizzazione del lavoro di fabbrica e della condizione operaia. È una letteratura per lo più di denuncia: lo sfruttamento, gl'incidenti sul lavoro, la repressione poliziesca, il lavoro minorile. All'origine ci sono Charles Dickens ed Émile Zola, persino un po' Jules Verne con le sue Indie nere (una sottospecie di Germinale, il capolavoro di Zola su un grande sciopero dei minatori organizzato dai socialisti della Prima Internazionale). Prima ancora, originario, c'è il grandissimo reportage di Friedrich Engels, futuro socio al cinquanta per cento di Karl Marx nell'impresa del socialismo scientifico, sulla Situazione della classe operaia in Inghilterra. Che non è un romanzo ma non è neppure un'inchiesta sociologica. Con largo anticipo su Tom Wolfe e Truman Capote, che con La baby aerodinamica kolor caramella e A sangue freddo fondarono il genere, La situazione della classe operaia in Inghilterra è new journalism: per metà letteratura, per metà racconto storico in presa diretta, grande eloquenza, retorica a badilate.
Da noi, dopo i Tre operai di Carlo Bernari che nel 1934 racconta una storia epica e commossa di lotte sindacali e proletarie che si svolge all'inizio del secolo, c'è stata una grande fioritura della letteratura d'ispirazione marxista, mai troppo devota agli ideali un po' monumentalistici del realismo socialista sovietico ma non di meno fortemente ideologizzata, tra l'accigliato e il predicatorio. Alcune storie operaie, tra quelle che Bigatti e Lupo ricordano nel loro libro con qualche pagina ben scelta, si sollevano sopra la routine evangelizzatrice: Una nuvola d'ira di Giovanni Arpino, La vita agra di Luciano Bianciardi, alcuni titoli (non tutti) di Vasco Pratolini, La nuvola di smog d'Italo Calvino, le storie di Vigevano di Lucio Mastronardi su su fino ai romanzi operai d'Antonio Pennacchi, forse un po' sopravvalutati. Oltre alla letteratura di fabbrica d'ispirazione marxleninista — il cui punto più alto (a mio giudizio, e posso sbagliare) è stato Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, che nel 1971 (scontate i birignao tecnici, tipo l'assenza di punteggiatura e altre uggiose licenze sperimentaliste) riuscì a coniugare Emilio Salgari con l'autunno caldo in un romanzo insieme realistico e scanzonato — ci fu anche la letteratura industriale d'ispirazione «olivettiana», da Adriano Olivetti, magnate delle macchine da scrivere e guru ante litteram dell'antipolitica e della democrazia diretta. Mentre gli scrittori devoti alla vulgata marxista vogliono abbattere il capitalismo, e il proletariato industriale è la leva con la quale si propongono d'annientarlo, come già Engels nel suo libro sul proletariato inglese, gli autori d'obbedienza olivettiana, più moderati ma non più teneri con «lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo», vogliono invece soltanto «superare» il capitalismo (cosa voglia dire, non si sa).
Di questa letteratura particolare, salvo qualche titolo qua e là, che si può ancora leggere con profitto ma anche con fatica, non rimane granchè. C'è da dubitare che Italo Calvino sarà ricordato, in futuro, per Una nuvola di smog invece che per I nostri antenati. Legata com'era a una Weltanschauung, all'epoca dominante ma oggi tramontata con l'estinzione del proletariato industriale, la letteratura di fabbrica è invecchiata di colpo e non spiega più niente, quando la sua ambizione — la stessa dell'arte sacra — era spiegare tutto.


giovedì 27 ottobre 2016

Ingrid Bergman





Ci sono sempre su Internet delle belle cose che passano quasi inosservate. Cercavo oggi qualche estratto dalla biografia di Ingrid Bergman. Non sono riuscito a trovarlo. Mi sono imbattuto invece in una voce di enciclopedia che aveva per oggetto l’attrice svedese. Mi è sembrata un piccolo gioiello. Conteneva il percorso biografico dell’attrice. si pronunciava va via via sul valore delle sue apparizioni cinematografiche e teatrali: ne veniva fuori un ritratto della persona, di ciò che era stata e un quadro ben congegnato di ciò che la Bergman medesima aveva significato nella storia del cinema. Spesso anche tra gli studiosi si pensa che la verità stia nei documenti che giacciono negli archivi, nei diari inediti, nella corrispondenza, in foto mai rese pubbliche. Eppure che cosa è stata Ingrid Bergman per gli spettatori dei tanti film da lei interpretati non è propriamente un segreto. Ore e ore di cinema lo lasciano intuire senza tante difficoltà. Ci potranno poi essere e ci sono gli approfondimenti critici. Ciò non toglie che la verità elementare dei fatti è perfettamente accessibile. Si tratta di guardare con attenzione, annotare con scrupolo e riferire. E’ quanto ha fatto Monica Trecca nel testo che segue.

Monica Trecca

BERGMAN, Ingrid

Enciclopedia del cinema, 2003
Attrice cinematografica e teatrale svedese, nata a Stoccolma il 29 agosto 1915 e morta a Londra nel 1982 nello stesso giorno della sua nascita. A partire dagli anni Quaranta si era imposta negli Stati Uniti come star profondamente amata, acclamata in tutto il mondo come una delle più raffinate interpreti della storia del cinema, in parti che sono patrimonio dell’immaginario e che le valsero sette nominations e tre premi Oscar oltre a numerosi altri prestigiosi riconoscimenti anche per i suoi ruoli teatrali. Dotata di una luminosa bellezza e di una grande sensibilità, fu sempre pronta a rimettersi in discussione, incapace di rimanere prigioniera di ruoli circoscritti e prefissati nella vita privata come in quella professionale.
La sua infanzia era stata funestata da lutti dolorosi: a soli due anni aveva perso la madre (la tedesca Frieda Adler), a dodici il padre (un fotografo che le aveva insegnato il gusto di posare), quindi la zia che l’aveva allevata. Cresciuta nella famiglia dello zio paterno, nel 1933 entrò a far parte della scuola del Dramatiska Teater di Stoccolma. Ottenne quindi una breve parte in un film di Gustaf Molander e in poco tempo si affermò come giovane promessa del cinema svedese. Dopo essersi sposata nel 1937 con un medico, Petter Aron Lindström, e aver girato un film in Germania, nel 1939 giunse negli Stati Uniti chiamata dal produttore David O. Selznick, colpito dalla sua interpretazione in Intermezzo (1936), ancora di Molander. Ottenuto un personale successo con il remake del film svedese, diretto in quello stesso anno da Gregory Ratoff, e dopo due film non memorabili, la B. decise di imprimere una prima svolta alla sua carriera per sfuggire alla prigione hollywoodiana costituita dai ruoli rassicuranti della dolce eroina romantica dal sorriso radioso. Scelta per interpretare la fidanzata remissiva nel nuovo film di Victor Fleming Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1941; Il dottor Jekyll e Mr Hyde), al fianco di Spencer Tracy, s’impose per ottenere il ruolo di Ivy, la spregiudicata cameriera dapprima salvata da Jekyll e poi tormentata da Hyde in una claustrofobica prigione di paura. Furono quelli anni segnati da clamorosi successi (proprio in corrispondenza con il ritiro dalle scene dell’altra grande attrice svedese Greta Garbo) che ne fecero la diva più ammirata dal pubblico, quasi venerata come modello di perfezione, madre e moglie esemplare. A consacrare la sua affermazione fu Casablanca, diretto nel 1942 da Michael Curtiz e destinato nel tempo a divenire il film culto per eccellenza, che la vide accanto a Humprey Bogart e nel quale le incertezze sul set circa l’andamento della storia e il finale sembrano sublimarsi nell’interpretazione della B., tormentata fino all’ultimo tra la scelta d’amore e quella del dovere. Egualmente intenso fu il pathos recitativo che seppe esprimere in Gaslight (1944; Angoscia) di George Cukor, interpretando una donna condotta sull’orlo della pazzia dal marito (Charles Boyer), ruolo per il quale ottenne il suo primo Oscar nel 1945. Ma anche i film meno riusciti come For whom the bell tolls (Per chi suona la campana) diretto nel 1943 da Sam Wood, patinata versione del romanzo di E. Hemingway, che aveva indicato proprio in Ingrid l’interprete ideale della sua Maria, e il successivo Saratoga trunk (1945; Saratoga), pastiche romantico sempre diretto da Wood e ancora accanto a Gary Cooper, le procurarono comunque un enorme successo di pubblico e l’apprezzamento dei critici. Fu però Alfred Hitchcock, conquistato dalla sensualità apparentemente mascherata di freddezza della B., a comprenderne più profondamente la complessità di donna e di artista. Così dapprima riuscì a modellare sulla sua severità affascinante il personaggio della razionale psicoanalista che si abbandona all’amore in Spellbound (1945; Io ti salverò). Quindi le offrì di animare di profonda umanità il ruolo, costruito per lei, di Alicia Huberman protagonista di Notorious (1946; Notorious ‒ L’amante perduta). In quella parte l’attrice seppe esprimere tutta la sua personale inquietudine, riuscendo a far affiorare, grazie anche all’intesa con il partner Cary Grant, la ricchezza di emozioni che attraversano la storia d’amore al centro di una cupa vicenda di spionaggio venata di ambiguità: bisogno di fiducia, dolorosa diffidenza, desiderio di riscatto. Successivamente, malgrado la gioia di portare a teatro il suo personaggio preferito, Giovanna d’Arco, interpretando il dramma di Maxwell Anderson, sia Arch of Triumph (1948; Arco di Trionfo) di Lewis Milestone, sia la stessa riduzione cinematografica del testo di Anderson per la regia di Fleming (Joan of Arc, 1948, Giovanna d’Arco: ridondante epopea medioevale in cui a venire santificata era la diva), e persino Under Capricorn (1949; Sotto il Capricorno o Il peccato di Lady Considine), girato in Inghilterra con la regia dell’amico Hitchcock, che volle valorizzare l’intensità della sua interpretazione con lunghi e insistiti piani-sequenza, la lasciarono insoddisfatta. Professionista rigorosa, profondamente innamorata del suo lavoro, sentiva la necessità di misurarsi con esperienze artistiche più stimolanti. Colpita dalla visione di Roma città aperta e Paisà di Roberto Rossellini, la cui poetica avvertiva così lontana dagli stereotipi hollywoodiani, l’attrice scrisse al regista italiano desiderosa di lavorare con lui. I film che a seguito di ciò interpretò in Italia appartengono a un mondo immaginativo e artistico completamente diverso da tutto ciò che la B. aveva realizzato sin lì, e il drammatico impatto tra la straniera protagonista di Stromboli ‒ Terra di Dio (1950) e l’aspra terra di Sicilia ne è quasi un metaforico manifesto. L’attrice conferì quindi intenso spessore alla Irene di Europa ’51 (1952), singolare attualizzazione al femminile della figura di San Francesco, tratteggiata sul limite tra pazzia e santità; mentre in Viaggio in Italia (1954) anticipò con rarefatta sensibilità futuri ritratti di donne prigioniere dell’angoscia dell’esistere, suscitando l’entusiasmo dei critici dei “Cahiers du cinéma”. Sempre per la regia di Rossellini, la B. era inoltre apparsa nel solare episodio Ingrid Bergman di Siamo donne (1953), ricco di humour, che la vede nei panni di sé stessa alla caccia di una gallina, e in La paura (1954), girato a Monaco di Baviera, disegnò invece una figura femminile estremamente moderna che però all’epoca non venne compresa. Fu ancora una splendida Giovanna d’Arco nell’oratorio Giovanna d’Arco al rogo di P. Claudel e A. Honegger, portato in tournée in numerose città d’Italia e d’Europa e da cui Rossellini trasse un film (1954) con il medesimo titolo, capolavoro di cinema sul teatro. Ma il sodalizio artistico e sentimentale tra l’attrice e il regista (che si erano sposati per procura in Messico nel 1950) aveva suscitato un enorme scandalo soprattutto negli Stati Uniti ove era stato vissuto come il tradimento di un’immagine, provocando un vero ostracismo morale e violente stroncature del lavoro dell’attrice e del regista. Esauritosi ormai anche il rapporto tra i due (il matrimonio verrà annullato nel 1958 e l’attrice si risposerà con l’impresario teatrale svedese Lars Schmidt), la B. tornò a recitare con altri registi, e prima Jean Renoir con Eléna et les hommes (Eliana e gli uomini) e quindi Anatole Litvak con Anastasia, entrambi del 1956, la restituirono al pubblico e alla critica in ruoli assai vicini a quelli che l’avevano resa famosa a Hollywood. In particolare, il personaggio della presunta ultimogenita di Nicola II le valse il secondo Oscar (1957) che segnò la riconciliazione tra gli Stati Uniti e la diva ritrovata. Seguì la commedia sofisticata Indiscreet (1958; Indiscreto) di Stanley Donen in cui la B. interpreta un’attrice di successo, sorta di suo sorridente doppio. I film successivi non le offrirono in quegli anni ruoli di grande spessore, mentre ottenne soddisfazioni in opere teatrali di successo: da Edda Gabler di H. Ibsen, recitata in francese, a More stately mansions di E. O’Neill, a The constant wife di W.S. Maugham. Per il cinema fu invece la missionaria laica di The inn of the sixth happiness (1958; La locanda della sesta felicità) di Mark Robson; la malinconica protagonista di Goodbye again (1961; Le piace Brahms?) ancora di Litvak; l’interprete dell’ultimo episodio di The yellow Rolls-Royce (1964; Una Rolls-Royce gialla) di Anthony Asquith e di uno degli episodi di Stimulantia (1967) diretto dal regista che l’aveva lanciata, Molander. E ancora l’efficiente e apparentemente glaciale infermiera della commedia Cactus flower (1969; Fiore di cactus) di Gene Saks, che segnò il suo ritorno a Hollywood. Con la breve eppure perfetta interpretazione della missionaria svedese in Murder on the Orient-Express (1974; Assassinio sull’Orient-Express) di Sidney Lumet, ripresa in un unico piano-sequenza, si aggiudicò il terzo Oscar nel 1975. L’anno successivo accettò di prendere parte ad A matter of time (Nina), ultimo film diretto da Vincente Minnelli, dolente e malinconica riflessione sulla fama e sulla paura della solitudine e del declino. Nel 1978 la B. offrì una delle sue più toccanti prove interpretando, per la regia di Ingmar Bergman, una grande pianista che al successo ha sacrificato il rapporto con i figli in Höstsonaten (Sinfonia d’autunno), ruolo nel quale seppe dare tanto di sé, del dubbio doloroso che l’aveva sempre tormentata di aver trascurato soprattutto la figlia Pia, avuta dal primo marito (altri tre erano nati dal legame con Rossellini). Anche l’ultimo suo ritratto di donna, protagonista di uno sceneggiato per la televisione, la bruna Golda Meir, dai tratti marcati, fisicamente tanto lontana da lei, così alta e chiara, fu un’ennesima prova di bravura nella quale l’attrice, ormai molto malata, seppe trasfondere la comprensione per questo personaggio forte, dalle scelte dure e difficili. La morte sopraggiunse infatti solo pochi mesi più tardi, al termine di una lunga e coraggiosa lotta contro la malattia.In precedenza, nel 1980, aveva pubblicato l’autobiografia, Ingrid Bergman, my story, alla cui stesura aveva collaborato lo scrittore A. Burgess.
Bibliografia
J.H. Steele, Ingrid Bergman, an intimate portrait, New York 1959.
C.F. Brown, Ingrid Bergman, New York 1973 (trad. it. Milano 1981).
E. Schaake, Ingrid Bergman: ihr Leben, München 1980.
L.J. Quirk, The complete films of Ingrid Bergman, New York 1989.
D. Spoto, Notorious: the life of Ingrid Bergman, New York 1997 (trad. it. Torino 2000).

http://www.film.it/film/foto/dettaglio/art/ingrid-bergman-la-regina-di-cannes-42846/

ingrid-bergman-casablanca-2025_ingrid_bergmann_roberto_rosselini_theredlist
Annex - Bergman, Ingrid (For Whom the Bell Tolls)_01Annex - Bergman, Ingrid (Joan of Arc)_02notorious-cary-grant-ingrid-bergman-018ing460

mercoledì 26 ottobre 2016

Walter Benjamin, precario


Roberto Ciccarelli
Walter Benjamin, la felicità profana degli uomini
«La Politica e altri scritti» di Walter Benjamin, a cura di Dario Gentili

il manifesto, 26 ottobre 2016

Filosofo dei frammenti, e del loro montaggio, Walter Benjamin ha fatto di necessità virtù. La sua esistenza nomade, alla prese con una precarietà che non ha nulla da invidiare alla nostra, si è conclusa in fuga dai nazisti con un tragico suicidio. Un’esistenza costellata di illuminazioni e anticipazioni sulle quali si continua ancora a riflettere. L’ultimo caso è quello della «Politica»: sin da giovane il filosofo aveva concepito un’opera organica di cui si conoscono frammenti notissimi come Sulla critica della violenza, pubblicata nel 1921.
La Politik è al centro di una discussione intensa almeno quanto le discussioni sulla valigetta che Benjamin portava sempre con sé e che si pensa custodisse il suo ultimo lavoro, un libro a cui il filosofo diceva di tenere più che alla sua vita. Oggi non è possibile ricostruirla completamente, ma dai frammenti emergono lampi significativi. È questo il tema de La politica e altri scritti (Mimesis, pp.122, euro 12), un volume per il quale il curatore Dario Gentili ha scelto un filo conduttore che, pur non rispettando la disposizione dei materiali nell’opera completa, permette di organizzarli secondo un ordine tematico e cronologico. Per ricostruire il senso di questa opera incompiuta è decisiva la corrispondenza con l’amico e filosofo Gershom Scholem. In questi scritti Benjamin lega la «verità» all’opera «comune» che gli uomini possono fare insieme. A differenza di una lunga tradizione iniziata con Weber, il politico non è una personalità o individualità, ma si dà nella radicale immanenza dell’opera comune degli uomini. In questo consiste la loro felicità profana.
La politica, nella sua caducità, non aderisce a ciò che esiste, ma adempie a un compito messianico. Accompagnato da visioni materialistiche, il messianesimo comunista di Benjamin procede in senso inverso rispetto alla teologia e alla volontà di rappresentare il Regno di Dio sulla Terra. Tra l’anarchismo giovanile e la stagione marxista della maturità la distanza è notevole, ma esistono alcune costanti.
In questa raccolta di frammenti emergono due idee che Benjamin ha coltivato ancor prima di scoprire il materialismo: la rivoluzione è «innervazione degli organi tecnici della collettività» e «scassinare la teleologia naturale». Concetti che ribaltano molte versioni del materialismo che ha ignorato il fatto che la tecnologia è un fenomeno sociale e incarnato nella forza lavoro. Per non parlare della filosofia della storia che ha legato il comunismo alla teleologia naturale. Per Benjamin nulla è irreversibile, la tecnica è una questione politica, la politica si dà quando l’azione non ha uno scopo finale, ma è l’espressione di una felicità comune.

martedì 25 ottobre 2016

Toulouse-Lautrec e le donne





Lautrec’s poignant depiction of a prostitute in the painting Woman before a Mirror offers a counterpoint to the dazzling exuberance of Miss Loïe Fuller. Nude save for her black stockings, the woman stands straight-backed as she gazes into a looking glass, dispassionately analyzing her body’s attributes and faults. Meanwhile, the viewer is compelled to do the same, as we are presented with both her ample backside and her blurred reflection. Lautrec presents her neither as a moralizing symbol nor a romantic heroine, but rather as a flesh-and-blood woman (the dominant whites and reds in the composition reinforce this reading), as capable of joy or sadness as anyone. Indeed, the directness and honesty of the picture testify to Lautrec’s love of women, whether fabulous or fallen, and demonstrates his generosity and sympathy toward them.
Cora Michael
Department of Drawings and Prints, The Metropolitan Museum of Art

May 2010


Qualcuno ha poi scritto che il bravo Toulouse-Lautrec frequentava i bordelli. Faceva di più, per la verità. Ha vissuto tra il 1892 e il 1894 in due bordelli, prima al numero 8 di rue d’Amboise, poi alla Fleur blanche, casa chiusa situata in rue des Moulins 6. (Giovanni Carpinelli)

La grosse Marie ou Vénus de Montmartre, 1884

 
Au lit: le baiser (1892)













Petit déjeuner (1896) Ancora alla Fleur blanche:  Juliette Baron, porta via il vassoio della colazione dal letto della figlia Pauline (nota nell’ambiente con il suo diminutivo, mademoiselle Popo), che l’ha appena consumata prima di iniziare una nuova giornata di lavoro nel bordello gestito dalla madre.
Salon de la rue des Moulins (1894)

 
























domenica 23 ottobre 2016

Amor che ne la mente mi ragiona


Simone Martini, Musici, Basilica inferiore di Assisi


Poi arriva il duro rimprovero di Catone, che riappare all'improvviso e mette fine al canto esortando gli spiriti a non essere lenti, a non peccare di negligenza indugiando ad ascoltare la bella musica invece di correre al monte per iniziare il percorso di purificazione. Intanto il miracolo si è compiuto, per un momento Dante si è abbandonato all'ascolto del canto associato alla musica e ogni altra cosa ha perso rilievo ai suoi occhi. La sua mente come quella di Virgilio e di altri presenti è tutta presa dal trasporto estatico legato all'ascolto. La musica qui rivaleggia con la luce divina.


Dante, Divina Commedia, Purgatorio, II, 106-117

E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,

di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».

Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli [Casella] allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.

Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.


Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi
memoria o uso...: il ricordo, o la possibilità di usarne, dell'arte che fu tua in vita. Si veda l'incerto andamento della frase ipotetica, dove è celato il timore che quell'amoroso canto qui non si possa più intonare.
amoroso canto: intende il canto proprio della lirica d' amore, nel quale eccelleva Casella; non è tuttavia, crediamo, espressione puramente tecnica, ma, come spiega la relativa seguente, indica quel canto d'amore che – per la sua forma e il suo contenuto – riusciva a placare ogni moto dell'animo.

L'impero del cotone




Massimiliano Panarari
Tra sangue, smog, denaro il mondo è una balla di cotone
Dagli schiavi neri agli operai di Manchester così un tessuto ha innescato la modernità
La Stampa, 20 ottobre 2016

La storia del globo dell’evo contemporaneo letta attraverso una balla grezza di cotone. È risaputa l’attitudine di vari studiosi anglosassoni a fare un’autentica storiografia globale, partendo da un elemento, un fatto o un personaggio, che diventa un prisma alla luce delle cui rifrazioni ricostruire un’intera epoca. E può avvenire anche, con notevole forza euristica e di suggestione, prendendo a oggetto di indagine una commodity, vista la centralità delle materie prime nell’edificazione delle società umane.

Un esempio eccellente è L’impero del cotone di Sven Beckert, celebrato studioso del capitalismo e professore di Storia americana a Harvard; un libro importante e affascinante, che ha fatto incetta di premi ed è piaciuto molto al presidente Barack Obama. Una ricerca monumentale che palesa la centralità del cotone – la cui lavorazione aveva rappresentato la principale industria manifatturiera dal 1000 al 1900 – e la sua funzione di rampa di lancio per il decollo della rivoluzione industriale e l’avvento della modernità in Occidente (a partire dall’Inghilterra, lembo geografico periferico di un continente che non lo generava per via naturale).

Questa fibra lanuginosa commerciata da tempo quasi immemorabile si convertì così, in virtù dell’esplosione della sua nuova lavorazione meccanizzata e industriale, nella commodity per eccellenza del XVIII e del XIX secolo e nella merce globale n. 1 (l’«oro bianco»), determinando intorno a sé un’epocale e durissima riorganizzazione dell’esistenza di vere masse della popolazione europea (perché vari territori, dall’Italia del Nord alla Germania del Sud, divennero satelliti di questa catena e rete planetaria del valore). Attraverso le traiettorie della produzione, trasformazione, commercializzazione e circolazione del cotone, lo studioso harvardiano effettua la storia del capitalismo industriale che si globalizza, ovvero la storia del mondo moderno e della genesi della nostra epoca (prima della conquista dell’egemonia da parte del capitalismo digitale e «immateriale»). E analizza, a tutto campo, le conseguenze tecnologiche, giuridiche, sociali e politiche che il trionfo della manifattura capitalistica ha innescato, tessendo altresì una fitta trama di narrazioni – comprese, come sa fare magistralmente soltanto lo storytelling «non fiction» degli anglosassoni, storie di singoli – che mescola il tragico vissuto biografico degli schiavi neri delle piantagioni del continente americano con quello sfavillante delle grandi famiglie agrarie sudiste degli Usa e delle dinastie 
industriali britanniche (come gli Ashworth e i Potter), che accumularono fortune inusitate. Perché un passaggio decisivo, e un motore formidabile per l’industrializzazione totale della manifattura cotoniera, derivò precisamente dall’esigenza di ridurre le importazioni made in England e di fronteggiare l’inarrestabile concorrenza dell’Inghilterra che, mediante la meccanizzazione, aveva inondato il mercato mondiale di filati a basso costo.


Il consolidamento come ineguagliabile potenza commerciale esportatrice di prodotti cotonieri dell’Impero britannico è un altro prisma esemplare da scomporre, come fa l’autore, per comprendere una molteplicità di snodi della modernizzazione ottocentesca (e i suoi pesantissimi lasciti). Se il capitalismo contemporaneo trova il proprio fondamento nello Stato di diritto e nelle sue relazioni con un sistema di istituzioni pubbliche nazionali e sovranazionali, quello originario decollato con la globalizzazione commerciale della commodity cotoniera è, nell’intepretazione di Beckert, il «capitalismo di guerra». E la sua culla britannica era ben lungi dal rappresentare uno Stato liberale e democratico, ma coincideva con una potenza imperialista estremamente aggressiva, autoritaria e protezionista, perennemente in guerra, contraddistinta da una burocrazia oppressiva e gravata da un enorme debito pubblico per le incessanti spese militari.

La storia dell’impero del cotone e delle sue capitali Manchester e Liverpool (scrigni di immense ricchezze in un paesaggio «dantesco» di fuliggine, smog, eserciti di poveri e dolenti maree umane) è una vicenda impastata di sopraffazione, sudore e sangue. Quello dei milioni di schiavi e operai, uomini, bambini e donne (destinatari di un dispositivo «foucaultiano» di disciplinamento eretto sull’applicazione continua di tremende punizioni corporali), a cui si indirizza la compassione umana di un simpatetico Beckert, che dell’epopea dei filari rischiara e illumina doviziosamente il dark side. Come pure i risvolti della lotta politica ai quattro angoli del pianeta di contadini e coltivatori, strozzati dalle contrattazioni al ribasso e dai vari crolli globali dei prezzi, contro l’asse tra gli industriali e le classi politiche metropolitane imperialistiche: il «populismo cotoniero» dagli Stati Uniti di fine Ottocento e inizio Novecento (dove la Farmers Alliance riuscì a influenzare l’elezione del presidente nel 1896) all’India nella quale animò il movimento nazionalista e anticolonialista, dall’Egitto al Messico (in cui i populisti furono tra i protagonisti della rivoluzione degli anni Dieci).

Fino a che, appunto, nella sua impressionante parabola anche quello cotoniero dovette sottostare alle «leggi» inesorabili e inaggirabili che presiedono alla caduta degli imperi. 

 http://www.delteatro.it/2015/01/31/lehman-trilogy-magistrale-storia-di-un-crollo/

sabato 22 ottobre 2016

Stendhal su Beatrice Cenci


… Alle nove e un quarto di sera, il corpo della giovane, vestito dei suoi abiti e incoronato di fiori a profusione, fu portato a San Pietro in Montorio. Era di un’incantevole bellezza; sembrava che dormisse. Fu sepolta davanti all’altar maggiore e alla Trasfigurazione di Raffaello da Urbino. Era accompagnata da cinquanta grandi ceri accesi e da tutti i frati francescani di Roma. […] Beatrice Cenci, che ispirerà un eterno rimpianto, aveva sedici anni giusti [ventidue, in realtà]; era piccola; era piacevolmente grassottella e aveva delle fossette in mezzo alle guance, di modo che, morta e incoronata di fiori, si sarebbe detto che dormisse, e anzi che ridesse, come le accadeva spesso quando era in vita. Aveva la bocca piccola, i capelli biondi e naturalmente ricci. Andando alla morte questi capelli biondi e inanellati le ricadevano sugli occhi, e ciò le dava una certa grazia e induceva alla compassione.
Cronache italiane
data di pubblicazione 1855 
Immagine di copertina: Julia Margaret Cameron, studio per una serie di foto ispirate alla figura di Beatrice Cenci. La modella si chiamava May Prinsep. La data è il 1866.
 Harriet Hosmer, Beatrice Cenci, scultura (1857)
Chissà che volto aveva Beatrice Cenci.
Il famoso ritratto attribuito a Guido Reni è stato dipinto in epoca successiva alla morte della giovane. A metà Ottocento il mito della bella eroina crudelmente decapitata era più che mai vivo e florido, come dimostrano il testo di Stendhal e le due opere di artiste donne qui riprodotte.

Il suicidio politico di Hollande





Stefano Montefiori
Hollande, quello che un presidente non dovrebbe mai dire
Corriere della Sera, 22 ottobre 2016


L’uomo che non sa scegliere si sta avvicinando al liberatorio momento in cui gli altri decideranno per lui. La situazione politica di François Hollande non è mai stata peggiore: sempre in fondo ai sondaggi, abbandonato dai sostenitori ma adesso anche dai suoi amici e collaboratori più stretti, che per la prima volta gli stanno chiedendo di non ricandidarsi. All’Assemblea gira in queste ore un documento con il quale la maggioranza socialista potrebbe invitarlo a farsi da parte. In quattro anni e mezzo i suoi uomini gli hanno perdonato tutto: gaffe, temporeggiamenti, marce indietro, ma non il libro-confessione affidato a due giornalisti di Le Monde , Gérard Davet e Fabrice Lhomme, che lo hanno incontrato per circa 100 ore di colloqui. «Un presidente non dovrebbe dire questo...», ammise una volta Hollande in un lampo di consapevolezza. Ma poi ha continuato ad affidare al libro il suo vero pensiero — opposto a quello spacciato per anni — su tutto. Sui magistrati bollati come «vigliacchi»; sull’Islam, con il quale «abbiamo un problema»; sui calciatori della Nazionale, che dovrebbero fare «ginnastica del cervello»; su Obama «lento nel prendere le decisioni», fino a Julie Gayet, che terrebbe a regolarizzare la relazione «ma io non voglio». Hollande arriva a raccontare di avere ordinato quattro omicidi mirati di terroristi, mettendo in imbarazzo i servizi segreti. Sembrano le memorie scritte per i posteri da un ex capo di Stato, ma Hollande è ancora all’Eliseo. Lo stesso premier Valls stupefatto parla di «suicidio politico». Il libro di Hollande ricorda lo scandalo del Sofitel di Dominique Strauss-Kahn: il gesto insensato di un uomo che non ha mai voluto fino in fondo essere presidente. Per non correre il rischio (pur minimo) di essere rieletto, Hollande ora ricorre all’autosabotaggio. 



venerdì 21 ottobre 2016

I tempi moderni di Bob Dylan



Giulio Sapelli

“Città irreale
Sotto la fosca nebbia d’ un’alba d’ inverno
Una folla straboccava sul London Bridge, tanta
Ch’io non credevo che morte tanta ne avesse disfatta”.

Ascoltando l’album di Bob Dylan, "Modern Times" (2006), vengono alla mente i versi del più grande - con Pound - poeta del Novecento: il T.S.Eliot de La sepoltura dei morti che apre la straziante canzone de La terra desolata. Senonchè Bob Dylan non canta l’ angoscia della borghesia londinese dove “le donne parlano di Michelangelo” e con esse dell’ occaso dell’ umanità che ha fondato la civiltà occidentale. No. Bob Dylan, in questa sua opera che è un insieme di canzoni che ricordano i Salmi, le melodie dell’ ebraismo e del cristianesimo più intimamente vissuto, canta la vita e la desolazione della classe operaia nord americana con una prospettiva universale che non pensavo di poter ancora ritrovare. E’ vero, come ha detto Lui stesso, questo insieme di composizioni salmodiate sulla scorta di una raffinatissima serie di citazioni del repertorio folk nord americano sconosciuto ai più, travolge tutta la sua precedente opera e la rifonda completamente. E qui c’ è una capacità di rinnovamento artistico veramente rara. Ed è oltremodo significativo che tale rinnovamento avvenga nella Terra del silenzio, ossia avendo -come “Città irreale/Sotto la fosca nebbia d’ un’alba d’ inverno/Una folla straboccava- come oggetto quella classe operaia che è scomparsa dalle scienze sociali e dall’ immaginario collettivo.
Dylan ci dà una grande lezione di realismo e di coraggio morale. Come lo fa? Con un continuo ascendere verso la meditazione religiosa e il mescolare tale meditazione con la quotidianità più prosaica, come era appunto proprio di T. S. Eliot. Certo il paragone sembra improprio, quasi sacrilego per gli anglisti. Mi si perdoni. Ma viviamo in tempi difficili, dove dopo La terra desolata non c’è che il deserto cognitivo del nuovo che avanza. L’ arte precede la scienza. E in questo deserto si alza la voce e la musica di Bob Dylan per ricordare coloro che esistono ma sono invisibili: gli operai. Dylan sfida l’ industria culturale con i suoi testi- più che con la Sua musica- che sono una vera pietra miliare della poesia nord americana. Si inizia con Tuono sulla montagna: ”Mi alzerò domani mattina per percorrere questa difficile strada/ Un bel giorno sarò a fianco del mio re” e questo re è un Re escatologico che riscatta dalla fatica e dal sudore, che riscatta dal mondo gonfio di cupidigia.
Il blues del lavoratore è la acme di questo canto. Dylan ci racconta degli strumenti del lavoro che sono su una mensola sacrificale: “Mentre sento le rotaie d’ acciaio vibrare/ (…) e me ne sto qui, seduto, cercando di impedire che la fame / mi insinui nelle budella/(…) Seminerò e raccoglierò quello che la terra offrirà/ il martello è sulla tavola, il forcone è sulla mensola/”. Ma ecco che solo la fede- non il socialismo, che del resto negli USA non è mai esistito se non nelle università salvo pochi anni tra otto e novecento- solo la fede e l’ amore può riscattare un lavoro che pare perduto per sempre per ciò che può dire alla liberazione dell’ uomo: ”Per l’ amor di Dio , dovresti aver pietà di me”.
Così finisce Il blues del lavoratore. Nessuna concessione alla retorica, nessuna vulgata consolatoria: solo un intreccio tra il sacro-la speranza in un Dio che può salvare purchè si riveli- e una realtà industriale e capitalistica dinanzi alla quale si è disarmati. Perché il potere contro cui l’ operaio si confronta è troppo forte: ”Il potere d’ acquisto del proletariato è andato a fondo/ I luoghi che amavo sono un dolce ricordo/E’ il nuovo sentiero che abbiamo percorso/ Dicono che i salari bassi / sono una realtà / se vogliamo competere con l’ estero”. Più chiaro di così…
Ma c’ è anche l’ invettiva, come c’è la protesta contro la guerra (ricordo che l’ AFL-CIO, il sindacato nord americano, il 22 febbraio 2004 ha condannato la guerra in IRAK ed è la prima volta che un evento di tal fatta, mai ricordato da nessuno, succede negli USA): “Vergognati della tua avidità, vergognati dei tuoi piani malvagi”, quei piani contro cui ogni giorno il lavoro operaio di confronta. Sì, perché mentre l’ accumulazione e i profitti crescono, Bob ci ricorda, in Quando verrà il turno che un lavoro senza senso, senza significato, non è altro che un continuo sentirsi estraniato dalla vita stessa: ”Viviamo e moriamo, il perché non sappiamo/ ma io sarò con te quando verrà il turno”. E’ una metafisica della vita operaia: il turno diviene il turno del lavoro e insieme il turno della vita e del morire e solo la “celeste visione” che appare a chi lavora come una chimera può riscattare da una quotidianità ossessivamente subita. La celeste visione è anche la visione di un amore a cui si offre il meglio del creato: ”Ho colto la rosa e l’ho messa tra i miei vestiti/….In questo terreno dominio mai mi vedrai ostile, di dolore e delusione pieno/ mai mi vedrai ostile/ Ti debbo il mio cuore, ed è una verità sincera/ed io sarò con te quando verrà il turno/”.
E’ una classe operaia disperata ma piena e gonfia di amore, quella di Dylan, che trova il senso non più nel lavoro ma nelle gioie imperfette e brevi di una vita strappata come l’attimo fuggente alla reificazione e all’alienazione. In questo c’è molto di ebraico e e di escatologico, quasi come se la vita della sofferenza fosse un testo “sotto” il quale, nell’ interpretazione del quale, si può ritrovare la salvezza e la speranza: ”Oltre l’ orizzonte azzurri sono i cieli/ e io ho più del tempo di una vita per amarti”: così termina quella bellissima canzone che è “Oltre l’orizzonte“ e che costituisce forse la secreta speranza che, come una lingua di fuoco salvifico, sottile come un’ anima sperduta, circola per tutto questo Suo cantare: ”Io non parlo, ecco il segno della salvezza”…”Nel mistico giardino stanotte sono uscito/…Non parlo, soltanto cammino/ attraverso questo stanco mondo di dolore…La preghiera, dicono, ha il potere di guarire” e se è solo la preghiera a salvare l’operaio che dubita ogni giorno di avere il suo salario questo è perché: ”L’ intero mondo è colmo di speculazione/…Mangio grasso di maiale in una città di maiali/ Brucia il cuore, ancora si strugge/…Ma io sfrutterò l’ ultima ora che mi resta.”
Non parlo è un inno a una rivolta anarchica che è l’ attesa di un Messia che Dylan sa che non può più venire e che si concede a Lui con i simboli e i riti che ritroviamo in tutte le sue canzoni di questo album, che parla sì della classe operaia, ma anche della perdita e del riscatto del sacro, della secolarizzazione e insieme, attraverso l’amore, della lotta per ridare dignità a chi lavora.
In Spirito sull’acqua, che sin dal titolo richiama la Genesi (“In principio Dio creò il cielo e la terra…e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”) l’ intreccio di un dramma personale - un assassinio, un dolore che è rimorso e peccato - s’ intreccia con il pensiero per la donna amata: “Continuo a pensare a te tesoro/ mi risulta difficile dormire/”. E questo amore diventa la comprensione di quanto possa essere e sia ricca di sentimenti, di passione, la vita dei poveri, dei lavoratori, di tutti coloro che sono occupati ma che sono poveri e debbono pensare ogni giorno a sbarcare il lunario ma non per questo rinunciano a essere una testimonianza della Rivelazione, con i loro sentimenti e le loro integre e pure passioni. Ecco: la canzone salmodiante - nella straordinaria modernità della sua musica che fa i conti con il folck e il rock continuamente - trova qui una potenza evocativa straordinaria che, oltre alla poesia, come ogni vera poesia, ha una capacità comprensiva dell’essere molto più profonda di intere biblioteche di sociologia o di economia del lavoro. Fuori da ogni retorica qui si sente il canto straziante - teleologico e quotidiano insieme - della vita operaia, tra innamoramenti, sbronze, fatiche metallurgiche e precarie. Ma da ogni dove può venire la forza del tuono che scuote la terra e porta la speranza. E’ la più bella ode alla condizione operaia come vita vissuta mai scritta da molti anni a questa parte.

mercoledì 19 ottobre 2016

Come fa Trump a reggere


 
Quello che scrive AM è interessante, però l'idea che uno scandalo non ha mai affossato nessuno è ingannevole. Vedi Di Pietro con la Gabanelli. E poi c'è il logoramento che ha funzionato con Berlusconi e sta dando qualche frutto con Trump. Qualcuno sostiene di non capirci nulla (per così dire). A me sembra invece di intravedere qualche zona di luce. (Giovanni Carpinelli)

Anna Momigliano,  
"E voi lo votereste comunque". Da Trump a Berlusconi, le élite scoprono che non c'è scandalo tanto grande da affossare un politico. Forse perché certe idee sono ancora radicate
Rivista Studio, 17 ottobre 2016

... Per il pubblico italiano, è una sorta di déjà-vu. Abbiamo già assistito a una dinamica simile ai tempi del ventennio berlusconiano, quando il ciclo, a ripetizione pressoché continua, era questo: Silvio che dice o fa qualcosa che appare “al di fuori del consesso civile”, perlomeno dal punto di vista dell’élite, una certa élite che include la stampa liberal e anche qualche conservatore di vecchio stampo orgoglioso dei suoi valori borghesi (tra i casi più noti l’accusa di avere fatto sesso con una minorenne, Noemi Letizia); l’élite s’indigna, lancia campagne (vedi le dieci domande a Silvio Berlusconi di Repubblica), dice che Silvio così s’è squalificato; poi però si scopre che, orrore!, al grande pubblico più di tanto non interessa.
Forse le ragioni di questo scollamento sono da rintracciare nel politicamente corretto, insomma in quel milieu culturale dove certe cose si possono pensare ma non dire: a un certo punto era stato creato un clima in cui non si poteva più dire che palpeggiare una donna senza il suo consenso non è poi così grave, così in molti si sono convinti che la registrazione di un politico che si vantava di una molestia avrebbe segnato la sua caduta, o perlomeno un colpo da cui sarebbe stato difficile rialzarsi. Il fatto che si fosse creato un clima in cui certe cose non si possono dire, però, non significava che molta gente non continuasse a pensarle, come si è visto.
A scanso d’equivoci e a rischio di sembrare un po’ bacchettona, tengo a precisare che non penso affatto che il politicamente corretto sia sbagliato. L’idea, in fondo, non è affatto male: ci sono opinioni ripugnanti, e oggettivamente velenose, che andrebbero estirpate della società; ma visto che le idee non si possono estirpare facilmente, allora come primo passo si crea un clima in cui le persone si vergognano di esprimerle; con la speranza che, a furia di non dire certe cose, con un po’ di fortuna si smetterà anche di pensarle. Il problema è che non sempre funziona. L’America di questi mesi insegna che alcune idee che pensavamo relegate ai margini della società – la misoginia più becera, un razzismo impenitente, persino l’antisemitismo – sono in realtà più radicate di quanto non si pensasse: semplicemente, erano tenute in privato, pronte a riemergere con poco preavviso sotto l’ombrello del trumpismo e dell’Alt-right. Ci eravamo illusi che delle molestie sbandierate sarebbero state un punto di non ritorno, e avevamo torto. Ci eravamo illusi che un tizio con un maglione rosso avrebbe potuto dimostrare che c’è ancora un mainstream dignitoso, e avevamo torto. Se c’è una cosa che abbiamo capito di queste elezioni, è che non abbiamo capito un cazzo.

martedì 18 ottobre 2016

Fabrizio Barca per l'astensione




Alberto Leiss
Astensione
In una parola. Pochissimi sono i punti di vista che esplicitamente sostengono questa scelta come dotata di una sua razionalità politica. Fabrizio Barca ci prova

il manifesto, 18 ottobre 2016

La parola astensione deriva dal tardo latino abstinere e significa più o meno tenere e tenersi lontano da qualcosa, saltuariamente o sistematicamente. In questo secondo caso una parola di significato simile è astinenza, che evoca scelte di carattere anche morale e religioso di cui qui non si tratta.
Gli ultimi sondaggi sui supposti orientamenti dei cittadini per il referendum costituzionale indicano una maggioranza relativa di circa il 40 per cento che dice di non essere intenzionata a votare. Se si somma a questo numero il 30 per cento (del rimanente scarso 60 per cento che afferma di voler votare) di chi si dice ancora indeciso, si ottiene una metà abbondante di elettori che per ora si tengono distanti sia dal Sì che dal No.
Non sarebbe il caso di dedicare un po’ più di attenzione alle motivazioni di questo atteggiamento tanto diffuso?
Un dibattito pubblico tutto concentrato con toni molto acuti sulla radicale contrapposizione tra i partigiani del Sì e quelli del No saprà conquistare la scarsa passione di tutti questi elettori e elettrici? (A proposito, ho visto in qualche commento l’uso del termine radicalizzarsi riferito alla discussione referendaria con significato negativo simile a quello che si usa per l’estremismo jihadista…).
Pochissimi poi sono i punti di vista che esplicitamente sostengono la scelta dell’astensione come dotata di una sua razionalità politica. Ho letto un lungo intervento di Fabrizio Barca, sul suo blog (www.fabriziobarca.it/fabrizio-barca-referendum-costituzionale/) , che invece si pronuncia a favore di una «astensione attiva» (si va a annullare la scheda, e quindi in qualche modo ci si conta distinguendosi da chi se ne sta a casa o va in gita). La sua minuziosa analisi dei pro e dei contro alla riforma cosiddetta Boschi alla fine produce un giudizio di questo tipo: sia che vinca il No, sia che vinca il Sì, immediatamente dopo ci si dovrà impegnare a fondo per correggere i difetti del sistema attuale, se rimane com’è, oppure quelli della nuova configurazione costituzionale, che a suo giudizio non mancano certo nelle norme su cui siamo chiamati a esprimerci. Una posizione che, insistendo sull’esigenza di attuare in ogni caso le prescrizioni e i principi di fondo della Costituzione, che restano invariati, sembra orientata a salvaguardare un’area politica – forse più ipotetica che reale – di mitezza e concretezza in vista di una situazione che si annuncia critica in Parlamento qualunque sia il risultato del voto.
Barca inoltre si distingue da altre posizioni a sinistra sul tema della legge elettorale. Il suo parere sull’Italicum è drastico: un sistema pessimo, anzi «terribile», ma è sbagliato legare la riforma costituzionale al «combinato disposto», giacché le leggi elettorali possono cambiare per via ordinaria, ma l’assetto del sistema dello stato è qualcosa che va giudicato in sé.
Facile criticare come pilatesco o cerchiobottista questo punto di vista, tuttavia quando ascolto l’arroganza e le minacce degli estremisti del Sì, o la faziosità rancorosa e la confusione programmatica di certi sostenitori del No, sento crescere anche in me un «animus» astensionista.
Difficile poi rimuovere qualche interrogativo sulle conseguenze politiche di questo scontro. Avrà ragione D’Alema a dire che la vittoria del No potrebbe mitigare l’arroganza di Renzi. Ma quanto crescerà invece quella dei Brunetta, dei Grillo e dei Salvini? E se vince il Sì, chi lo ferma più il giovane fiorentino?
Una valanga di «non sto a questo gioco» non potrebbe ridurre tutti a più miti consigli?

lunedì 17 ottobre 2016

Una lettera di Leonard Cohen


 «Beh, Marianne, è venuto il momento in cui siamo davvero così vecchi e i nostri corpi sono a pezzi e penso che ti seguirò molto presto. Ecco, io sono così vicino, dietro di te, che se stendi la tua mano, penso che puoi toccare la mia…». Una struggente lettera d’addio del cantautore Leonard Cohen a Marianne Ihlen che Cohen spesso ha definito la sua “musa”. E’ proprio lei ad aver ispirato So long Marianne, pezzo del ’67, fra i più dolci dell’artista candadese ed è morta di leucemia il 29 luglio in Norvegia, all’età di 81 anni.

Well Marianne, it’s come to this time when we are really so old and our bodies are falling apart and I think I will follow you very soon. Know that I am so close behind you that if you stretch out your hand, I think you can reach mine. And you know that I’ve always loved you for your beauty and your wisdom, but I don’t need to say anything more about that because you know all about that. But now, I just want to wish you a very good journey. Goodbye old friend. Endless love, see you down the road. 



Leonard Cohen e Marianne 
David Remnick

Here and there, Cohen caught glimpses of a beautiful Norwegian woman. Her name was Marianne Ihlen, and she had grown up in the countryside near Oslo. Her grandmother used to tell her, “You are going to meet a man who speaks with a tongue of gold.” She thought she already had: Axel Jensen, a novelist from home, who wrote in the tradition of Jack Kerouac and William Burroughs. She had married Jensen, and they had a son, little Axel. Jensen was not a constant husband, however, and, by the time their child was four months old, Jensen was, as Marianne put it, “over the hills again” with another woman.
One spring day, Ihlen was with her infant son in a grocery store and café. “I was standing in the shop with my basket waiting to pick up bottled water and milk,” she recalled decades later, on a Norwegian radio program. “He is standing in the doorway with the sun behind him.” Cohen asked her to join him and his friends outside. He was wearing khaki pants, sneakers, a shirt with rolled sleeves, and a cap. The way Marianne remembered it, he seemed to radiate “enormous compassion for me and my child.” She was taken with him. “I felt it throughout my body,” she said. “A lightness had come over me.”

http://www.newyorker.com/magazine/2016/10/17/leonard-cohen-makes-it-darker
 

Cosa vuol dire essere maschi




Mauro Magatti
L’anno zero per i maschi
La rinegoziazione in corso nella cultura contemporanea del rapporto uomo-donna

Corriere della Sera, 17 ottobre 2016

Sul palcoscenico delle elezioni presidenziali americane Donald Trump e Hillary Clinton mettono in scena, in un sorta di epica rappresentazione che alterna toni da tragedia e da farsa, la rinegoziazione in corso nella cultura contemporanea del rapporto uomo-donna.
Da un lato Trump, lo spaccone, emblema del maschio che continua a giocare la classica accoppiata potere-sesso. Ma in un mondo in cui sono cambiati i rapporti di forza e l’intero ordine simbolico si va ridefinendo per l’incalzare delle trasformazioni nella sfera riproduttiva, la riproposizione del vecchio cliché di «sciupafemmine» (incarnato negli ultimi anni da Berlusconi, Sarkozy, Strauss-Kahn) suona un po’ patetica. Dietro il grottesco che affiora nelle affermazioni sessiste c’è in realtà il tentativo, comprensibile ma perdente, del maschio contemporaneo di rifugiarsi nell’ «usato sicuro» del conquistatore, pura potenza esercitata arbitrariamente al di là della legge. Un modello che pure tocca corde profonde dell’elettorato maschile, ma non può far altro che forzare sempre di più i toni, fino ad autodistruggersi.
Dall’altra parte Hillary, emblema della donna capace e determinata, madre e moglie senza paura. La sua biografia rivela tratti «eroici». Dotata di uno spiccatissimo senso del potere, Hillary ha tenuto insieme carriera e famiglia, sopportando persino l’umiliazione del tradimento del marito presidente; vera lady di ferro, come Thatcher e Merkel. Eloquente più di mille parole il suo sguardo ironico durante il dibattito televisivo, mentre interloquiva con un uomo che (come suo marito peraltro) appartiene alla schiera dei «predatori sessuali» (Michelle Obama).
Eppure, il suo problema è quello di non diventare solo una macchina da guerra, più dura dell’uomo più duro, segretamente motivata dalla volontà di dimostrare chi porta veramente i pantaloni.
Quanto sta accadendo negli Stati Uniti ci riguarda dunque tutti, uomini e donne di questo tempo chiamati a far avanzare un processo dagli esiti ancora incerti.
Per evitare la fine patetica del Trump di turno, gli uomini di oggi devono rendersi conto che è venuto il tempo di tentare qualcosa di simile a ciò che le donne stanno facendo da un secolo rispetto al proprio ruolo: e cioè chiedersi cosa vuole dire essere maschi oggi. In rapporto all’altro sesso, ai figli, al mondo, a se stessi. Pensare di riprodurre i cliché del passato è comodo, ma stupido. Non si tratta in ogni caso di arrivare a delineare un nuovo modello standard. Cosa impossibile oltre che insopportabile. Piuttosto, di elaborare il lutto di una primazia che il maschio oggi (per fortuna) non ha più.
Occorre ammettere che siamo all’anno zero: se non è più il potere che si traduce in sesso (come ha espresso in modo così volgare Trump ai suoi compari), a quale immagine possiamo rivolgerci? Forse, possiamo cominciare a pensare che il potere è solo un pallido idolo di quel desiderio infinito che si può compiere, sempre limitatamente, e quindi senza arroganza, in ciò che ci prendiamo la responsabilità di far esistere.
Per le donne, si tratta di completare una transizione: la lunga e difficile marcia verso l’emancipazione è andata avanti e ha registrato tanti successi. In un mondo in cui gli uomini possono essere ridotti a meri produttori di seme, la donna acquista strutturalmente una nuova centralità. Ma qui sta il punto: per le donne — e Hillary per prima — non è più questione di puntare a un’assimilazione del modello maschile, di dimostrare chi sono i «veri uomini». Si tratta, più ambiziosamente, di portare un contributo per correggere le storture di un modello di convivenza che affonda le radici nell’archetipo maschilista-patriarcale.
Il tesissimo, a volte goffo, confronto Trump-Hillary parla di questo: ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova simbolizzazione del maschile e del femminile che, nel processo di negoziazione di genere, riconosca il contributo femminile — che al maschio non è affatto estraneo — a tessere i legami tra le generazioni, includere, prendersi cura. Non nell’ordine subordinato della famiglia patriarcale, ma come complemento simbolico a ciò che drammaticamente manca al nostro mondo.

domenica 16 ottobre 2016

Il fascino di Brett Ashley





Ernest Hemingway, Fiesta, 1926

Brett era maledettamente carina. Indossava un golfino di jersey e una gonna di tweed e si era spazzolata indietro i capelli come un ragazzo. Aveva lanciato lei questa moda. Era fatta di curve come lo scafo di uno yacht da corsa, e con quel golfino di lana non ne sbagliavi nemmeno una. (26)
certe ferite o mutilazioni sono motivo d'allegria, pur restando assai serie per la persona che ne è afflitta. (31)
Godersi la vita significava spendere bene i propri soldi e sapere quando ci si era riusciti. Potevi sempre spendere bene i tuoi soldi. Il mondo era un buon posto per fare acquisti. Sembrava una bella filosofia. Fra cinque anni, pensai, sembrerà stupida come tutte le altre belle filosofie che ho avuto. (153)
… “Sai che ci sente proprio bene quando si decide di non diventare una tardona?”
Sì.”
E' quello che noi abbiamo al posto di Dio.”
C'è gente che ha Dio” dissi. “Tanta gente”.
Con me non ha mai funzionato.”
"Oh, Jake" Brett disse. "Noi due saremmo stati bene assieme."
Di fronte a noi su una pedana, un poliziotto in kaki dirigeva il traffico. Alzò la sua mazza. La macchina improvvisamente rallentò, spingendo Brett contro di me. "Già" dissi io, "non è bello pensare così?" (253)

 
Fernanda Pivano, Introduzione a Ernest Hemingway, Romanzi, I Meridiani Mondadori, 1992

La storia, intrisa di ineluttabile tragedia, aveva tutti i segni del suo [di Hemingway] mondo poetico. La protagonista Brett, apparentemente ninfomane e alcolizzata, aveva conosciuto la guerra come infermiera, aveva visto morire l'uomo che amava e, precipitata nel declino fisico e psicologico, stava per sposare un playboy ma era innamorata di Jake, un reduce di guerra che una ferita aveva reso impotente, col quale conduceva un amore platonico cercando insieme di controllare la sua attrazione fisica per il giovanissimo torero Romero. Vincerà la “morale” e Brett rinuncerà a Romero rifugiandosi tra le braccia del fidanzato platonico perdutamente innamorato di lei. L'ultima scena del libro la vede poco dopo aver rinunciato al torero, abbracciata a Jake su un taxi, mentre gli dice: “Saremmo stati così bene insieme. La battuta finale del libro è il famoso understatement di Jake: “Yes. Isn't it pretty to think so?” tradotto da Giuseppe Trevisani: “Già. Non è bello pensarlo?”

http://www.swingdancegenova.net/blog/?r=55

venerdì 14 ottobre 2016

Inferno


Simone Lorenzati

Riecco l'accoppiata Ron Howard - Tom Hanks portare sul grande schermo un'opera letteraria di Dan Brown, ossia Inferno, libro che balzò in vetta alla classifica delle vendite andando decisamente oltre lo spazio abitualmente riservato a libri del genere. La trama ruota intorno al virus della peste, riportato in vita dallo scienziato transumatista Zobrist (Ben Foster) convinto che l'unico modo per evitare di morire per sovrappopolazione sia minare l'umanità con il ritorno del letale virus, ed alla caccia che Langdon (Tom Hanks) dà ai seguaci di Zobrist prima che liberino la provetta fatale. Insomma gli ingredienti ci sono tutti. Dalla storia all'arte, dalla letteratura alla religione con, sullo sfondo, complotti, vendette, amore, improvvisi voltafaccia. La prova di Tom Hanks è, al solito ottima, così come pare assai convincente Felicity Jones nei panni di Sienna Brooks. Ron Howard, che rimane molto fedele alle pagine di Dan Brown, alterna momenti notevoli (il primo piano di un suicidio iniziale, i flash della memoria e della sofferenza dello stesso Hanks, in ospedale e successivamente) ad altri buoni (la fotografia di Firenze e delle sue opere artistiche). Tuttavia non mancano scene in cui la tensione varca il confine della credibilità o, semplicemente, della banalità (i droni che inseguono l'accoppiata Langdon – Brooks, l'Organizzazione Mondiale della Sanità che pare un organo paramilitare). Riemergono, in vario modo, le difficoltà che incontra la trasposizione troppo fedele di un libro in pellicola. Si rimane attaccati ad un copione che il regista, e gli attori, non ritengono di poter manipolare più di tanto. L'impressione è che Howard (che, nonostante sia un regista dal talento cristallino innegabile, a chi scrive ricorda sempre il Richie Cunningham di Happy Days) venga salvato dal talento di Hanks e Jones, ma anche dai “cattivi” che, facendo ampiamente la loro parte, si mostrano in grado di caricarsi il film sulle loro spalle anche nei momenti meno persuasivi.

inoltre http://www.panorama.it/cinema/inferno-ron-howard-recensione/