lunedì 27 novembre 2023

La gran bonaccia delle Antille

 


Italo Calvino, La gran bonaccia delle Antille, Città aperta, n. 4-5, 25 luglio 1957
 
Dovevate sentire mio zio Donald, che aveva navigato con l’ammiraglio Drake, quando attaccava a narrare una delle sue avventure.
– Zio Donald, zio Donald! – gli gridavamo nelle orecchie, quando vedevamo il guizzo di uno sguardo affacciarsi tra le sue palpebre perennemente socchiuse, – raccontateci come andò quella volta della gran bonaccia dellAntille!
– Eh? Ah, bonaccia, sì, sì, la gran bonaccia… – cominciava lui, con voce fioca. – Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca, sul mare liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per acchiappare qualche raro filo di vento. Ed ecco che ci troviamo a tiro di cannone da un galeone spagnolo. Il galeona sta va fermo, noi ci fermiamo pure, e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prendiamo a fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro. Ma loro, a dire il vero, non avevano nessuna intenzione di andare avanti: erano lì apposta per non lasciar passare noi. Noialtri invece, flotta di Drake, avevamo fatto tanta strada non per altro che per non dar tregua alla flotta spagnola e togliere da quelle mani di papisti il tesoro della Grande Armada e consegnarlo in quelle di Sua Graziosa Maestà Britannica la Regina Elisabetta. Però ora, di fronte ai cannoni di quel galeone, con le nostre poche colubrine non potevamo reggere e così ci guardavamo bene dal far partire un colpo. Eh, sì, ragazzi, tali erano i rapporti di forza, voi capite. Quei dannati del galeone avevanoprovviste d’acqua, frutta delle Antille, rifornimenti facili dai loro porti, potevano stare lì quanto volevano: anche loro però si trattenevano dallo sparare, perché per gli ammiragli di Sua Maestà Cattolica quella guerricciuola con gli Inglesi così come stava andando era proprio quel che ci voleva, e se le cose si mettevano diversamente, per una battaglia navale vinta o persa, tutto l’equilibrio andava all’aria, certo ci sarebbero stati dei cambiamenti, e loro di cambiamenti non ne volevano. Così passavano i giorni, la bonaccia continuava, noi continuavamo a star di qua e loro di là, immobili a largo delle Antille…
– E come andò a finire? Diteci, zio Donald! – facemmo noi, vedendo che il vecchio lupo di mare già piegava il mento sul petto e riprendeva a sonnecchiare.
“Ah? Sì, sì, la gran bonaccia! Settimane durò. Li vedevamo coi cannocchiali, quei rammolliti di papisti, quei marinai da burla, sotto gli ombrellini con le frange, il fazzoletto tra il cranio e la parrucca per detergere il sudore, che mangiavano gelati di ananasso. E noi che eravamo i più valenti marinai di tutti gli oceani, noi che avevamo per destino di conquistare alla Cristianità tutte le terre che vivevano nell’errore, noi ce ne dovevamo star lì con le mani in mano, pescando alla lenza dalle murate, masticando tabacco. Da mesi eravamo in rotta sull’Atlantico, le nostre scorte erano ridotte all’estremo e avariate, ogni giorno lo scorbuto si portava via qualcuno, che piombava in mare in un sacco mentre il nostromo borbottava in fretta due versetti della Bibbia. Di là, sul galeone, i nemici spiavano col cannocchiale ogni sacco che sprofondava in mare, e facevano segni con le dita come affaccendati a contare le nostre perdite. Noi inveivamo contro di loro: ce ne voleva prima di darci tutti morti, noialtri che eravamo passati attraverso tanti uragani, altro che quella bonaccia delle Antille…
– Ma una via d’ uscita come la trovaste, zio Donald?”
– Cosa dite? Via d’ uscita? Mah, ce lo domandavamo di continuo per tutti quei mesi che durò la bonaccia… Molti dei nostri, specie tra i più vecchie i più tatuati, dicevano che noi eravamo sempre stati una nave da corsa, buona per azioni rapide, e ricordavano i tempi in cui le nostre colubrine sguarnivano delle alberature le più potenti navi spagnole, aprivano falle nelle murate, giostravano con brusche virate… Ma sì, nella marineria di corsa, certo eravamo stati bravi, ma allora c’era il vento, si andava svelto… Adesso, in quella gran bonaccia, questi discorsi di sparatorie e d’abbordaggi erano solo un modo di trastullarci aspettando chissacché; una levata di libeccio, un fortunale, addirittura un tifone… Perciò gli ordini erano che non dovessimo neanche pensarci, e il capitano ci aveva spiegato che la vera battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti, ristudiando i piani delle grandi battaglie navali di Sua Maestà Britannica e il regolamento del maneggio delle vele e il manuale del perfetto timoniere, e le istruzioni per l’uso delle colubrine, perché le regole della flotta dell’ammiragio Drake restavano in tutto e per tutto le regole della flotta dell’ammiragio Drake: se si cominciava a cambiarenon si sapeva dove…
– E poi, zio Donald? Ehi zio Donald! Come riusciste a muovervi?
– Uhm… Uhm… Cosa vi dicevo? Ah sì, guai se non si teneva la più rigida disciplina e obbedienza alle regole nautiche. Su altre navi della flotta di Drake c’erano stati cambiamenti ufficiali e anche ammutinamenti, sommosse: si voleva ormai un altro modo di andar per i mari, c’erano semplici uomini della ciurma, marinai di quarto e pure mozziche ormai s’erano fatti esperti e avevano da dir la loro sulla navigazione… Questo i più degli ufficiali e quartiermastri ritenevano il pericolo più grave, perciò guai se sentivano in aria discorsi di chi voleva ristudiare da capo il regolamento navale di Sua Maestà Elisabetta. Niente, dovevamo continuare a ripulire le spingarde, lavare il ponte, assicurarci del funzionamento delle vele, che pendevano flosce nell’aria senza vento, e nelle ore libere delle lunghe giornate lo svago ritenuto più sano erano i soliti tatuaggi sul petto e sulle braccia, che inneggiavano alla nostra flotta dominatrice dei mari. E nei discorsi si finiva per chiudere un occhio su quelli che non riponevano altra speranza che in un aiuto del cielo, come un uragano che magari ci avrebbe mandato a picco tutti, amici e nemici, piuttosto che quelli che volevano trovare un modo per muovere la nave nella condizione presente… Capitò che un gabbiere, certo Slim John, non so se il sole in testa gli avesse fatto male o che cos’altro, cominciò a trastullarsi con unacaffettiera. Se il vapore solleva il coperchio della caffettiera, – diceva questo Slim John, – allora anche la nostra nave, se fosse fatta come una caffettiera potrebbe andare senza vele… Era un discorso un po’ sconnesso, bisogna dire, ma forse, studiandoci ancora sopra, se ne poteva cavare qualche costrutto. Macché: gli buttarono in mare la caffettiera e poco mancò che ci buttassero anche lui. Queste storie di caffettiere, presero a dire, erano poco meno che idee da papisti… è in Spagna che si costuma il caffè ele caffettiere, non danoi… Mah, io non ne capivo nulla, ma purché si muovessero, con quello scorbuto che continuava a falciar gente…
– E allora, zio Donald, – esclamammo noi, gli occhi lucidi d’impazienza, prendendolo per i polsi e scuotendolo, – sappiamo che vi salvaste, che sgominaste il galeone spagnolo, ma spiegateci come avvenne, zio Donald!
-Ah sì, anche là nel galeone, mica che fossero tutti della stessa idea, manco per sogno! Lo si vedeva, osservandoli col cannocchiale,anche lì c’erano quelli che volevano muoversi, gli uni contro di noi a cannonate, altri che avevano capito che non c’era altra via che affiancarsi a noi, perché il prevalere della flotta d’Elisabetta avrebbe fatto rifiorire i traffici da tempo languenti… Ma anche lì, gli ufficiali dell’ammiragliato spagnolo non volevano che si muovesse nulla, per carità! Su quel punto i capi della nostra nave e quelli della nave nemica, pur odiandosi a morte, andavano proprio d’accordo.
Cosicché, la bonaccia non accennando a finire, si prese a lanciare dei messaggi, con le bandierine da una nave all’ altra come si volesse aprire un dialogo. Ma non si andava più in là d’un Buon giorno! Buona sera! Neh, che fa bel tempo! e così via.
– Zio Donald! Zio Donald! Non riaddormentatevi, per carità! Diteci, come riuscì a muoversi la nave di Drake!
– Ehi, ehi, non sono mica sordo! Capitemi, fu una bonaccia che nessuno s’aspettava durasse tanto, addirittura per degli anni, là al largo delle Antille, e con un’afa, un cielo pesante, basso, che pareva fosse lì lì per scoppiare in un uragano. Noi stillavamo sudore, tutti nudi, arrampicati su per le sartie, cercando un po’ d’ombra sotto le vele avvoltolate. Tutto era così immobile, che anche quelli di noi che erano più impazienti di cambiamenti e di novità, stavano immobili anche loro, uno in cima all’albero di parrocchetto, un altro sulla randa di maestra, un altro ancora cavalcioni del pennone, appollaiati lassù a sfogliare atlanti o carte nautiche…
– E allora, zio Donald! – ci buttammo in ginocchio ai suoi piedi, lo supplicavamo a mani giunte, lo scuotevamo per le spalle, urlando.
– Diteci come andò a finire, in nome del cielo! Non possiamo più aspettare! Continuate il vostro racconto, zio Donald!
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La risposta commissionata da Togliatti aveva per titolo La grande caccia delle Antille e fu pubblicata su Rinascita (settembre 1957). L’autore Maurizio Ferrara si nascondeva dietro lo pseudonimo di Little Bald [piccolo calvo].  Un Vecchio con gli occhiali, salito sul cassero di una nave, riusciva a impedire che il Capo-stivatore bombardasse le case di alcuni ricchi mentre una folla festeggiava l’ equipaggio per aver sconfitto un odioso pirata: «Fratelli, levatevi dalla testa idee sinistre. Noi siamo quelli della “Speranza”, ramponieri e cacciatori, non pirati. La gente buona spera in noi. Davanti a noi non vi sono case da assediare, ma pascoli acquatici ove soffia ancora libera la Balena Bianca… Riponete archibugi e spingarde, impugnate il rampone, la Grande caccia è aperta». Il Vecchio intento a trasformare i marinai in pescatori della Balena avversaria difficile da prendere era Togliatti, il Capo-stivatore Pietro Secchia, il pirata sconfitto Mussolini.

 

venerdì 24 novembre 2023

Il toro rosso

 

 



Italo Calvino, Il toro rosso, l'Unità edizione piemontese 23 marzo 1947

Pochi buoi, dalle nostre parti. Non ci son prati da pascolare, né campi grandi da essere arati: ci
son solo sterpi da brucare e brevi strisce di una terra che non si rompe se non si zappa. Poi
stonerebbero, i buoi e le mucche, larghi e placidi come sono, in queste valli strette e dirupate; qui ci
vogliono bestie magre, tutte tendini, che camminino su per i sassi: muli e capre.
Il bue degli Scarassa era l’unico della vallata, e non stonava, era più forte e docile di un mulo, un
piccolo bue tozzo, tarchiato, da carico; Morettobello, si chiamava. I due Scarassa, padre e figlio, si
guadagnavano la vita col bue, facendo viaggi per i vari proprietari della vallata, portando i sacchi di
frumento al mulino, o le foglie di palma agli spedizionieri, o i sacchi di concime dal consorzio.
Quel giorno Morettobello dondolava sotto il carico bilanciato alle due parti del basto: legna
d’ulivo spaccata da vendere a un cliente in città. Dall’anello infilzato nelle narici nere e molli la
corda lenta da toccar terra finiva nelle mani ciondolanti di Nanin, figlio di Battistin Scarassa,
allampanato e macilento come il padre. Erano una strana coppia: il bue con le gambe corte, la
pancia bassa e larga, come un rospo, faceva passi prudenti, sotto il carico; lo Scarassa, con la faccia
lunga e ispida di peli rossi, i polsi scoperti dalle maniche troppo corte, buttava avanti i passi che
sembrava avesse due ginocchi in ogni gamba, sotto i pantaloni che quando tirava vento s’agitavano
come vele, come se non ci fosse dentro nessuno.
C’era la primavera, quel mattino; cioè c’era nell’aria quel senso improvviso di scoperta che si
prova tutti gli anni, un mattino, quel ricordarsi una cosa come dimenticata da mesi. Morettobello, di
solito così tranquillo, era inquieto. Già Nanin, al mattino, cercandolo nella stalla non l’aveva
trovato; era in mezzo al campo che girava intorno gli occhi sperduti. Ora, andando, Morettobello si
fermava ogni tanto, alzava le narici infilzate dall’anello, annusava l’aria con un breve muggito.
Nanin dava uno strappo alla corda e una voce gutturale di quel linguaggio che s’usa tra gli uomini e
i buoi.
Morettobello sembrava ogni tanto preso da un pensiero: aveva fatto un sogno, quella notte,
perciò era uscito dalla stalla e quel mattino si trovava sperduto nel mondo. Aveva sognato cose
dimenticate, come d’un’altra vita: grandi pianure erbose e vacche, vacche, vacche a perdita
d’occhio che avanzavano muggendo. E aveva visto anche se stesso, là in mezzo, a correre nella
torma delle vacche come cercando. Ma c’era qualcosa che lo tratteneva, una tenaglia rossa
conficcata nelle sue carni, che gl’impediva di traversare quella torma. Al mattino, andando,
Morettobello sentiva la ferita rossa della tenaglia ancora viva su di sé, come una disperazione
ineffabile nell’aria.
Per le strade non si vedevano che bambini vestiti di bianco con al braccio la fascia frangiata
d’oro, e bambine vestite da sposa: era il giorno della cresima. Al vederli qualcosa si oscurò in fondo
all’animo di Nanin, come un’antica, furiosa paura. Era forse perché suo figlio e sua figlia non
avrebbero mai avuto quegli abiti bianchi per la cresima? Certo, dovevano costare molto. Allora gli
prese una rabbia, una smania, di far fare la cresima ai suoi figlioli: vedeva già il maschietto con
l’abito bianco alla marinara e la fascia al braccio con la frangia d’oro, la femmina col velo e lo
strascico nella chiesa tutta ombre e luccichio; e i paramenti del prete e della chiesa, i pizzi, i fiocchi, i candelieri s'agitavano nella sua mente come una smania strana, che non si poteva esaurire.
Il bue sbuffò: ricordava il sogno, vedeva la mandria di vacche galoppanti, come in una zona fuori
della sua memoria, e lui che proseguiva in mezzo a loro sempre più a fatica. A un tratto in mezzo
alla torma delle vacche, su una piccola altura, rosso come il dolore della ferita, era apparso il grande
toro, dalle corna come falci che toccavano il cielo, che si gettava contro di lui muggendo.
I bambini della cresima, sul piazzale della chiesa, presero a correre intorno al bue. - Un bue! Un
bue! - gridavano. Era una vista insolita un bue, da quelle parti. I più coraggiosi si azzardavano fino
a toccargli la pancia, i più esperti gli guardavano sotto la coda: - É castrato! Guardatelo! É castrato!
- Nanin si mise a urlare, a dar manate in aria per mandarli via. Allora i bambini vedendolo così
allampanato, macilento e rattoppato, cominciarono a fargli il verso e a canzonarlo col suo
soprannome: "Scarassa! Scarassa!" che vuol dire palo da vigna.
Nanin sentiva quella antica paura farglisi più viva, più angosciosa. Vedeva altri ragazzi vestiti da
cresima che lo canzonavano, che canzonavano non lui ma suo padre, macilento, allampanato e
rattoppato come lui, il giorno che l’aveva accompagnato a cresimarsi. E risentì viva come allora
quella vergogna che aveva provato per suo padre, al vedere i ragazzi che gli saltavano intorno e gli
buttavano addosso i petali di rosa calpestati dalla processione, chiamandolo: Scarassa. Quella
vergogna l’aveva accompagnato per tutta la vita, l’aveva riempito di paura a ogni sguardo, a ogni
riso. Ed era tutto colpa di suo padre; cosa aveva ereditato da suo padre più che miseria, stupidità,
goffaggine della persona allampanata? Egli odiava suo padre, ora lo comprendeva, per quella
vergogna fattagli provare da ragazzo, per tutta la vergogna, la miseria della sua vita. E gli venne
paura in quel momento che i suoi figli si sarebbero vergognati di lui come lui del padre, che un
giorno l’avrebbero guardato con l’odio che era in quel momento nei suoi occhi. Decise: «Mi
comprerò anch’io un vestito nuovo, per il giorno della loro cresima, un vestito a quadretti, di
flanella. E un berretto di tela bianca. E una cravatta di colore. E anche mia moglie dovrà comprarsi
un vestito nuovo, di stoffa, grande che le stia anche quando è incinta. E andremo tutti insieme ben
vestiti nella piazza della chiesa. E compreremo il gelato al carretto del gelataio». Ma gli restava una
smania che non sapeva come esaurire.
Arrivato a casa, portò il bue nella stalla e gli tolse il basto. Poi andò a mangiare; la moglie e i
bambini e il vecchio Battistin erano già a tavola che trangugiavano una minestra di fave. Il vecchio
Scarassa, Battistin, pescava le fave con le dita e le succhiava buttando via la pellicola. Nanin non
stava attento ai loro discorsi. "Bisogna che i bambini facciano la cresima", - disse. La moglie alzò verso di lui la faccia smunta e spettinata.
"E i soldi per vestirli?" chiese.
"Dovranno avere dei bei vestiti", continuò Nanin senza guardarla. - Il maschio alla marinara, bianco, con la frangia d’oro al braccio, la femmina da sposa, con lo strascico e il velo.
Il vecchio e la moglie lo guardavano a bocca aperta.
"E i soldi?" ripeterono
"E io mi comprerò un vestito di flanella a quadretti, - continuò Nanin, - e tu un vestito di stoffa,
grande che ti stia anche quando sei incinta".
Alla moglie venne una idea: - Ah! Hai trovato da vendere la terra del Gozzo. La terra del Gozzo era un campo ereditato, tutto pietre e cespugli, che li faceva pagar tasse senza render niente. A Nanin seccava che credessero questo: stava dicendo delle cose assurde, ma c’insisteva, con rabbia.
"No, non ho trovato nessuno. Ma noi dobbiamo avere tutto questo", s’intestò, senza levare gli
occhi dal piatto. Invece gli altri erano già pieni di speranze: se aveva trovato da vendere la terra del
Gozzo, tutte le cose che aveva detto erano possibili.
"Coi soldi della terra, - disse il vecchio Battistin, - mi posso far fare l’operazione dell’ernia".
Nanin sentiva d’odiarlo. "Ci creperai, con la tua ernia!" gridò.
Gli altri stavano attenti se impazziva.
Intanto, nella stalla, il bue Morettobello s’era slegato, aveva abbattuto la porta, era uscito nel
campo. A un tratto entrò nella stanza, si fermò, e lanciò un muggito, lungo, lamentoso, disperato.
Nanin s’alzò imprecando e lo ricacciò nella stalla a bastonate.
Rientrò: tutti tacevano, anche i bambini. Poi il maschio gli chiese: "Papà, quando me lo compri il
vestito alla marinara?"
Nanin alzò gli occhi su di lui, gli occhi uguali a quelli di suo padre Battistin.
- Mai! - urlò.
Sbatté la porta e andò a dormire.


mercoledì 22 novembre 2023

Il padrone delle mine


Un contrabbandiere chiamato grimpante fa strage di pesci sparando a una mina recuperata da Baci Degli Scogli. Sembra una fiaba. E invece i particolari della storia sono tutti molto realistici. A cominciare dalla descrizione dei poveri affamati, ancora dei marginali. 

Italo Calvino, Il padrone delle mine, l'Unità edizione piemontese 23 novembre 1948
 

 Alla villa del finanziere Pompilio gli invitati prendevano il caffè sulla veranda. C’era il generale
Amalasunta che spiegava la terza guerra mondiale con le tazzine e i cucchiaini, e la signora
Pompilio diceva - Spaventoso! - sorridendo, da quella donna di sangue freddo che era.
Solo la signora Amalasunta faceva un po’ la costernata e poteva permetterselo dato che suo
marito era tanto coraggioso da volere subito la guerra totale su quattro fronti. "Speriamo che non
duri tanto..." lei diceva. Ma il giornalista Strabonio era scettico: "Eh, eh, tutto previsto, - diceva. - Ricorda, eccellenza, quel mio articolo, già l’anno passato..."
- Eh, eh, - annuiva Pompilio che se ne ricordava perché quell’articolo Strabonio l’aveva scritto
dopo un colloquio con lui.
- Con questo non si deve escludere... - disse l’onorevole Uccellini che non era riuscito a
dimostrare chiaramente la missione pacificatrice del Papato prima, durante e dopo l’immancabile
conflitto. - Ma sì, ma sì, onorevole... - fecero gli altri con tono conciliante. La moglie dell’onorevole era
l’amante di Pompilio e non gli si potevano dare tanti dispiaceri.
Il mare si vedeva negli intervalli della tenda a righe, strofinarsi contro la spiaggia come un
tranquillo gatto inconsapevole, arcuandosi alle passate della brezza.
Entrò un cameriere e chiese se volevano dei frutti di mare. Era venuto un vecchio, disse, con una
cesta di ricci e di patelle. La discussione dal pericolo di guerra passò al pericolo di tifo, il generale
citò gli episodi africani, Strabonio citò degli episodi letterari, l’onorevole dava ragione a tutti.
Pompilio, che se ne intendeva, disse che facessero venire lì il vecchio con la roba e avrebbe scelto
lui.
Il vecchio si chiamava Bacì Degli Scogli; fece delle storie con il cameriere perché non voleva che
toccasse le ceste. Le ceste erano due, mezzo sfasciate e ammuffite: una la reggeva contro un fianco
e appena entrato la lasciò cadere a terra; l’altra, ch’egli teneva su una spalla, stando tutto contorto,
doveva essere pesantissima ed egli la posò a terra con molta attenzione. Era chiusa da un pezzo di
sacco legato intorno.
La testa di Bacì era coperta da una lanugine bianca, senza differenza di capelli e barba. La poca
pelle nuda era rossa come se da anni il sole non riuscisse ad abbronzarla ma solo a bollirla e
scorticarla; e gli occhi erano sanguigni come se fin la cispa gli si fosse trasformata in sale. Aveva un
corpo basso, da ragazzo, con membra nodose che sporgevano dagli strappi del vestito vetusto,
indossato sulla pelle, senza neanche camicia. Le scarpe doveva averle pescate in mare, tanto
sformate, spaiate, incartapecorite erano. E da tutta la sua persona s’alzava un forte odore d’alghe
marce. Le signore dissero: - Che caratteristico.
Bacì Degli Scogli, scoperta la cesta leggera, andava mostrando i ricci ammucchiati in un
digrignare d’aculei neri e lucidi. Con quelle sue mani vizze, tutte punti neri di spine conficcate,
maneggiava i ricci come fossero conigli da prender per le orecchie, e li rivoltava e mostrava la
polpa rossa e molle. Sotto i ricci c’era un ripiano di sacco e sotto ancora le patelle, coi piatti corpi
zonati giallo-bruni sotto i gusci barbuti e lichenosi.
Pompilio esaminava ed annusava: "Non sboccano mica delle fogne, dalle vostre parti, no?" Bacì sorrise nella sua lanugine: "Eh, no, io sto sulla punta, le fogne le avete voi qui, dove fate i bagni..."
Gli invitati cambiarono discorso. Comprarono dei ricci, delle patelle e incaricarono Bacì di
fornirne loro ancora nei giorni venturi. Anzi, gli diedero ciascuno il proprio biglietto da visita, in
modo ch’egli potesse fare il giro delle loro ville.
- E che ci avete in quell’altra cesta? - chiesero.
- Eh, - il vecchio ammiccò, - una bestia grossa. Una bestia che non vendo.
- Che ve ne fate allora? La mangiate?
- Mangiarla! É una bestia di ferro... Bisogna che trovi il suo padrone, per ridargliela. Che se la
sbrighi un po’ lui, dico bene?
Gli altri non capivano.
- Sapete, - lui spiegò, - la roba che il mare porta a riva, io la divido. Da una parte le latte,
dall’altra le scarpe, le ossa da un’altra ancora. Ed ecco che mi arriva quest’accidente. Dove lo
metto? Lo vedo al largo che viene avanti, mezzo sott’acqua e mezzo sopra, verde d’alghe e
rugginoso. Perché li mettono in mare questi accidenti, io non capisco. Vi piacerebbe, trovarli sotto il
letto? o in un armadio? Io l’ho preso e adesso cerco chi è che ce li mette e gli dico: tienilo un po’ tu,
fa’ il favore!
E così dicendo aveva avvicinato con cautela la cesta, aveva slegato il coperchio di sacco e aveva
scoperto un grosso, mostruoso, ferreo oggetto. Le signore dapprima non capirono, ma diedero in un
grido quando il generale Amalasunta esclamò: - Una mina! - La signora Pompilio andò in deliquio.
Ci fu una gran confusione, chi si affannava a far vento alla signora, chi assicurava: - Certo è
inoffensiva, da tanti anni così, alla deriva... - chi diceva: - Bisogna portarla via, bisogna arrestare
quel vecchio -. Ma il vecchio intanto era sparito, con la terribile cesta.
Il padrone di casa chiamò la servitù: - L’avete visto? Dov’è andato? - Nessuno poteva assicurare
fosse uscito. - Cercate per tutta la casa: aprite gli armadi, i comodini, vuotate la cantina!
- Si salvi chi può, - gridò Amalasunta improvvisamente impallidito. - Questa casa è in pericolo,
via tutti!
- Perché proprio la mia? - protestò Pompilio. - E la sua, generale, pensi alla sua!
- Bisognerà che vada a sorvegliare casa mia... - disse Strabonio che s’era ricordato di certi suoi
articoli di una volta e di adesso.
- Pietro! - gridava la signora Pomponio, rinvenuta, gettandosi al collo del marito.
- Pierino! - gridava la signora Uccellini, gettandosi anch’essa al collo di Pompilio e scontrandosi
con la legittima consorte.
- Luisa! - osservò l’onorevole Uccellini. - Andiamo a casa!
- Non crederà mica che casa sua sia più sicura? - gli dissero. – Con la politica che fa il suo
partito, lei è più in pericolo di noi!
Uccellini ebbe un lampo di genio: - Chiamiamo la polizia!
La polizia si scatenò per la cittadina rivierasca, alla ricerca del vecchio con la mina. Le ville del
finanziere Pompilio, del generale Amalasunta, del giornalista Strabonio e dell’onorevole Uccellini
ed altre ancora furono piantonate da picchetti armati, e reparti di sminatori del Genio le
ispezionarono dalla cantina alle soffitte. I commensali di villa Pompilio si disposero a bivaccare
all’aperto quella notte.
Intanto un contrabbandiere chiamato Grimpante, che grazie alle sue amicizie riusciva sempre a
sapere tutto, s’era messo per conto suo sulle piste di Bacì Degli Scogli. Grimpante era un
omaccione con un berrettino marinaro di tela bianca; gli affari loschi che si svolgevano sul mare e
sulla riva passavano tutti per le sue mani. Fu facile a Grimpante, fatto il giro di qualche osteria del
quartiere delle Case Vecchie, d’imbattersi in Bacì che usciva brillo con la misteriosa cesta in spalla.
Lo invitò a bere all’Osteria dell’Orecchia Mozzata, e versando da bere cominciò a spiegargli la
sua idea.
- É inutile che restituisci la mina al proprietario, - diceva, - tanto lui appena può la rimette dove
l’hai trovata. Invece, se dài retta a me, ci prendiamo tanti di quei pesci da invadere i mercati di tutta
la riviera e farci milionari in pochi giorni.
Bisogna sapere che un monello chiamato Zefferino, solito a ficcare il naso dappertutto, aveva
seguito i due nell’Osteria dell’Orecchia Mozzata e s’era nascosto sotto il tavolo. E capito a volo
quel che intendeva Grimpante scappò via e corse a passar la voce tra i poveri delle Case Vecchie.
- Ehi, volete farvi il fritto, oggi?
Dalle finestre strette e sbilenche s’affacciavano donne magre e spettinate con bambini al petto,
vecchi con il cornetto acustico, comari che pelavano radicchi, giovani disoccupati che si facevano la
barba.
- E come? E come?
- Zitti zitti, venite con me, - disse Zefferino.
Grimpante che aveva fatto un salto a casa sua, tornò con una custodia da violino e s’incamminò
col vecchio Bacì. Presero la strada che fiancheggiava il mare. Dietro, in punta di piedi, venivano i
poveri delle Case Vecchie. Le donne ancora in grembiale, con le padelle a spall’arm, i vecchi
paralitici nelle carrozzelle, i mutilati con le stampelle, e una torma di ragazzini tutt’intorno al
branco.
Giunti sugli scogli della punta, la mina fu abbandonata in mare, a una corrente che la portava
verso il largo. Grimpante aveva tirato fuori dalla custodia di violino uno di quegli arnesi
ammazzacristiani che sparano a raffica e l’aveva piazzato dietro un riparo di scogli. Quando la mina
gli fu a tiro cominciò a sparacchiare: i colpi sull’acqua segnavano una scia di piccoli zampilli. I
poveri, ventre a terra sullo stradone litoraneo, si turarono gli orecchi.
Tutt’a un tratto una grande colonna d’acqua s’alzò nel mare dal punto dove prima era la mina. Il
fragore fu enorme: i vetri delle ville andarono in frantumi. L’ondata arrivò fin allo stradone. Appena
le acque si quetarono cominciarono a venire a galla le pance bianche dei pesci. Grimpante e Bacì
stavano mettendo mano a una gran rete, quando furono travolti dalla folla che correva verso il mare.
I poveri si misero in acqua vestiti, chi con le scarpe in mano e i calzoni rimboccati, chi con le
scarpe e tutto, le donne con le sottane galleggianti a cerchio: e tutti giù ad acchiappare i pesci morti.
Chi li pescava con le mani, chi col cappello, chi con le scarpe, chi li metteva in tasca, chi nella
borsetta. I ragazzi erano i più veloci ma non s’azzuffavano: tutti erano d’accordo di dividerli in parti
uguali. Anzi, badavano ad aiutare i vecchi che ogni tanto scivolavano sott’acqua e uscivano con la
barba piena d’alghe e granchiolini. Le più fortunate erano le beghine che procedevano a due a due
coi loro veli tesi a fior d’acqua e rastrellavano tutto il mare. Le belle ragazze ogni tanto gridavano: -
Ih... ih... perché un pesce morto saliva loro sotto le sottane, e i giovanotti giù a cercare di pescarlo.
Sulla riva cominciarono ad accendersi fuochi d’alghe secche e comparvero le padelle. Ognuno
tirò fuori di tasca un boccettino d’olio e si cominciò a sentire odor di fritto. Grimpante se l’era
svignata perché la polizia non lo acciuffasse con quell’arrotavivi per le mani. Bacì Degli Scogli
invece se ne stava in mezzo agli altri, con pesci, granchi e gamberi che gli spuntavano da tutti gli strappi del vestito, e si mangiava una triglia cruda dalla contentezza.

lunedì 20 novembre 2023

Pranzo con un pastore

 


Ancora un marginale. Un giovane che, invitato a pranzo in una casa borghese, non si ritrova, attirando la solidarietà dei suoi coetanei. 

Italo Calvino, Pranzo con un pastore, l'Unità edizione piemontese 15 settembre 1948 

Fu uno sbaglio di nostro padre, dei suoi soliti. Aveva fatto venire quel ragazzo da un paesetto di
montagna, perché ci guardasse le capre. E il giorno che arrivò lo volle invitare a tavola con noi.
Nostro padre non capisce le differenze che ci sono tra la gente, la differenza tra una sala da
pranzo come la nostra, coi mobili incisi, i tappeti dai cupi disegni, le maioliche, e quelle loro case di
pietra affumicate, con per pavimento terra battuta e i festoni di giornale neri di mosche alla cappa
dei camini. Nostro padre si muove dappertutto con quella sua festosità senza cerimonie, di non
voler che gli cambino il piatto alla pietanza, e quando gira a caccia tutti lo invitano, e alla sera
vengono da lui a dirimere le liti.
Quello entra; io leggo in un giornale. E mio padre a fargli dei gran discorsi, che bisogno c’era?, si
sarebbe confuso sempre più. No, invece. Alzai gli occhi ed era in mezzo alla sala con le mani
pesanti, a mento contro il petto, ma con lo sguardo davanti a sé, ostinato. Era un pastore della mia
età, all’incirca, coi capelli compatti e legnosi, e i lineamenti arcuati: fronte, orbite, mandibole.
Aveva una scura camicia da soldato abbottonata a forza sul pomo del collo e un abituccio sbilenco
da cui sembrava traboccassero le grandi nodose mani e gli scarponi goffi e lenti sul pavimento
lucido.
"Questo è mio figlio Quinto, - disse mio padre -, fa il liceo".
Io m’alzai e azzardai un’espressione sorridente e la mia mano tesa s’incontrò con la sua e subito
le scostammo senza guardarci in viso. Mio padre aveva già preso a raccontare di me, cose che non
importavano a nessuno, di quanto mi mancava a finire gli studi, di un ghiro da me ucciso una volta
cacciando nei paesi di quel giovane; e io alzavo le spalle con degli: " Io? Ma no" ogni volta che mi
sembrava non dicesse giusto. Il pastore restava muto e fermo e non si capiva se sentisse: ogni tanto
gettava un’occhiata rapida verso una parete, una tenda; come una bestia che cerca uno spiraglio
nella gabbia.
Già mio padre aveva cambiato discorso e ora girava per la stanza e diceva di certe varietà
d’ortaggi che coltivano in quelle vallate e faceva delle domande al ragazzo e lui a mento sul petto e
bocca semichiusa continuava a rispondere che non sapeva. Nascosto dietro il giornale, io aspettavo
servissero in tavola. Ma mio padre aveva fatto già sedere l’invitato e portato d’in cucina un cetriolo
e glielo andava tagliando nel piatto da minestra in fette sottili, perché lo mangiasse, diceva lui, per
antipasto.
Entrò mia madre, alta e vestita di nero, coi bordi di pizzo e la scriminatura impassibile tra i
capelli bianchi e lisci. "Ah, ecco qui il nostro pastorello, disse. - Hai fatto buon viaggio?" Il
ragazzo non s’alzò e non rispose, alzò lo sguardo su mia madre, uno sguardo pieno di diffidenza e
d’incomprensione. Io stavo dalla sua con tutta l’anima: disapprovavo quel tono di superiorità
affettuosa di mia madre, quel «tu» padronale che gli dava; avesse parlato in dialetto come nostro
padre, ancora! ma parlava italiano, un italiano freddo come un muro di marmo di fronte al povero
pastore. Già stavano per servire la minestra quando apparve mia nonna sulla poltrona a ruote spinta dalla
mia povera sorella Cristina. Dovettero gridare forte negli orecchi della nonna di cosa si trattava.
Anzi mia madre fece proprio le presentazioni: "Questo è Giovannino che ci guarderà le capre. Mia
madre. Mia figlia Cristina".
Io arrossivo di vergogna per lui a sentirlo chiamare Giovannino; chissà come quel nome suonava
diverso nel chiuso e rozzo dialetto della montagna: certo era la prima volta ch’egli si sentiva
chiamato in quel modo.
Mia nonna assentì con la sua patriarcale pacatezza: - Bravo Giovannino, speriamo che non te ne
lascerai scappare, di capre, neh! - Mia sorella Cristina, che vede in tutte le rare visite persone
d’estremo riguardo, da mezzo nascosta che era dietro lo schienale della poltrona a ruote s’affacciò
tutta spaurita mormorando "Lietissima" e diede la mano al giovane che la sfiorò con pesantezza.
Mio fratello arrivò in ritardo come al solito, quando s’avevano per mano già i cucchiai. Entra e a
un’occhiata s’è già reso conto di tutto, e prima che mio padre gli abbia spiegato la storia e l’abbia
presentato: "Mio figlio Marco che studia da notaio", già è seduto che mangia, senza batter ciglio,
senza guardar nessuno, coi freddi occhiali che sembran neri tanto sono impenetrabili, e la lugubre
barbetta liscia e rigida. Si direbbe che abbia salutato tutti e si sia scusato del ritardo, e forse anche
abbia fatto una specie di sorriso all’ospite, invece non ha schiuso le labbra né increspato d’una ruga
la spietata fronte. Ora so che il pastore ha un alleato potentissimo al suo fianco, che lo proteggerà
col suo mutismo di pietra, che gli aprirà una via di scampo in quell’atmosfera greve di disagio che
solo lui, Marco, sa creare.
Il pastore mangiava curvo sul piatto della minestra, con sciacquio e rumore. In questo tutti e tre
noi uomini eravamo dalla sua e lasciavamo alle donne l’ostentata etichetta: nostro padre per la sua
naturale rumorosità espansiva, mio fratello per determinazione imperiosa, io per malagrazia. Ero
contento di questa nuova alleanza, di questa ribellione di noi quattro contro le donne: perché faceva
sì che il pastore non fosse più solo. Certo in quel momento le donne ci disapprovavano, e non lo
dicevano per non umiliarci a vicenda, quelli di casa di fronte all’ospite, e viceversa. Ma se ne
rendeva conto il pastore? No di certo.
Mia madre passò all’attacco, dolcissima: "E quanti anni hai, Giovannino?"
Il ragazzo disse la cifra, che risuonò come un grido. La ripeté piano. - "Come?" disse la nonna e la
ripeté sbagliata. "No: è questa", - e tutti a gridargliela nelle orecchie. Solo mio fratello, zitto. "Un
anno più di Quinto", scoperse mia madre e si dovette rispiegarlo alla nonna. Soffrivo di questo paragonare me e lui, lui che doveva guardare le capre altrui per vivere, e puzzare di ariete, ed era forte da abbattere le querce, e io che vivevo sulle sedie a sdraio, accanto alla radio leggendo libretti d’opera, che presto sarei andato all’università, e non volevo mettermi la flanella sulla pelle perché mi faceva prudere la schiena. Le cose ch’erano mancate a me per esser lui, e quelle che eran mancate a lui per esser me, io le sentivo allora come un’ingiustizia, che faceva me e lui due esseri incompleti che si nascondevano, diffidenti e vergognosi, dietro quella zuppiera di minestra.
Così continuammo per tutta la durata del pranzo in questa guerra, di noi tre ragazzi contro un
mondo crudele e servizievole, senza poterci riconoscere alleati, pieni di reciproche diffidenze anche tra
noi. Mio fratello terminò con un gran gesto, dopo la frutta: uscì un pacchetto e offrì una sigaretta
all’ospite. Se le accesero, senza chiedere permesso a nessuno, e questo fu il momento di solidarietà
più piena che si creò in quel pranzo. Io ne ero escluso, perché i miei non mi permettevano di fumare
finché ero al liceo. Mio fratello ormai era soddisfatto: s’alzò, tirò due boccate guardandoci dall’alto
e zitto com’era venuto si girò e andò via.
Mio padre accese la pipa e la radio per le notizie. Il pastore se ne stava guardando l’apparecchio
con le mani aperte sui ginocchi e gli occhi spalancati che s’arrossavano di lacrime. Certo a quegli
occhi appariva ancora il paese alto sui campi, il giro delle montagne e il folto dei boschi di castagni.
Mio padre non lasciava sentire, parlava male della Società delle Nazioni, ed io ne approfittai per
uscire dalla sala da pranzo.
Il pensiero del ragazzo pastore ci seguì tutta la sera. Cenammo in silenzio alle luci attutite del
lampadario e non potevamo liberarci dal pensare a lui adesso solo nel casolare della nostra
campagna. Ora certo aveva finito la minestra nella gavetta messa a riscaldare, ed era steso sulla
paglia quasi al buio, mentre giù si sentivano le capre muoversi e urtarsi e macinare erba coi denti. Il
pastore usciva e c’era un po’ di nebbia verso il mare e l’aria umida. Una fontanella ronfava discreta
nel silenzio. Il pastore s’avvicinava lungo le vie coperte d’edera selvatica e beveva senza sete. Delle
lucciole si vedevano apparire e sparire e sembravano un grande sciame compatto. Ma lui muoveva il braccio in aria senza toccarle. 

sabato 18 novembre 2023

Il messaggio dello sciopero

 
 

 
Marco Revelli, Se i dimenticati battono un colpo, La Stampa, 18 novembre 2023
 
Lo sciopero generale è pienamente riuscito. «Piazze strapiene come non si vedevano da anni», ha detto dal palco a Roma Maurizio Landini, comprensibilmente soddisfatto. Cortei affollati non solo di lavoratori, ma anche di cittadini comuni, e si sono rivisti persino gli studenti. Evidentemente il tentativo del ministro delle Infrastrutture nonché vice-premier Matteo Salvini di indebolire la mobilitazione con un atto d'imperio non è riuscito, e anzi forse ha ottenuto il risultato opposto, spingendo a scendere in piazza anche chi normalmente non lo fa, aggiungendo alle motivazioni economiche quella, evidentemente sentita, di difendere un diritto costituzionalmente garantito come quello di sciopero.
I Grandi Dimenticati hanno battuto un colpo. Non solo contro una manovra finanziaria abborracciata e considerata priva di responsabilità sociale, ma più in generale come risposta a una condizione di disagio economico ed esistenziale diffuso, tra chi lavora e chi il lavoro non ce l'ha, tra i giovani senza futuro e gli anziani senza riconoscimenti: un piano inclinato lungo il quale si è scivolati per anni, e che ora sembra aver raggiunto un punto non più sopportabile in silenzio. Per una combinazione non certo voluta, ma significativa, nello stesso giorno della mobilitazione sindacale la Caritas Italiana, potremmo chiamarla il Sindacato dei Poveri, ha diffuso il proprio rapporto annuale 2023 sulle povertà intitolato "Tutto da perdere". Ed è una drammatica conferma di uno stato di degrado "sistemico" non più ignorabile. Apprendiamo non solo (dato ufficiale Istat) che le persone in condizione di povertà assoluta (cioè prive del minimo indispensabile per condurre una "vita dignitosa") sono salite a 5 milioni e 674mila, 357mila in più rispetto all'anno scorso (la popolazione di una città come Firenze). E che di queste 1 milione e 270mila sono minori, vittime innocenti di una clamorosa ingiustizia sociale. Ma apprendiamo anche, e la cosa costituisce uno scandalo nello scandalo, che quasi la metà dei nuclei famigliari in condizioni di povertà assoluta (un totale di 2,7 milioni di persone) risulta avere il capofamiglia occupato, cioè un classico working poor, uno che pur lavorando, tuttavia rimane povero "assoluto", non può offrire ai propri figli due pasti regolari al giorno, una casa decente, il riscaldamento e la cura delle malattie.
Nel meridione il 20% degli occupati è in questa condizione, nelle Isole lo è il 21,9%! E i dati non tengono ancora conto dell'impatto prodotto dalla cancellazione, per molte di queste famiglie, di quel piccolo rivolo di risorse che era offerto dal Reddito di cittadinanza, su cui si è accanito nei mesi scorsi il governo. Alla luce di tutto ciò, come giustificare la guerra da tempo dichiarata da parte della maggioranza, e non solo, a un istituto come quello del salario minimo, che non sanerebbe certo tutte queste piaghe, ma permetterebbe di contenerne, sia pur in piccola parte, gli aspetti più devastanti? E dall'altra parte come stupirsi che, alla chiamata delle grandi organizzazioni sindacali, vi sia una risposta così robusta, nonostante le tante delusioni subite in questi anni, le troppe prove di divisione e d'incertezza, gli impacci le lungaggini e le inerzie delle ottuse burocrazie d'organizzazione centrali e periferiche? Lo si può considerare non solo come la denuncia di un disagio a cui la politica, tutta, è chiamata a dare risposte serie, ma anche come un segno di vitalità della nostra società e della nostra malconcia democrazia. Le democrazie vivono della partecipazione e della mobilitazione dei propri cittadini (una sofferenza senza segni di reazione genera necrosi dell'organismo). E nessuna precettazione di questo o quel ministro potrà mai spegnerle, pena la caduta in un limbo autoritario.

 

giovedì 16 novembre 2023

Armi nascoste

Questo racconto fu poi ripreso con il titolo "Il gatto e il poliziotto" in "Ultimo viene il corvo" (Einaudi, Torino 1949). Durante un rastrellameno di armi nascoste, in una casa di righiera un gatto resiste con efficacia all'intrusione di un poliziotto.



Italo Calvino, Armi nascoste, l'Unità edizione piemontese 28 agosto 1948


Da qualche tempo erano cominciati nella città i rastrellamenti delle armi nascoste. I poliziotti
montavano sulle camionette con in testa i caschi di cuoio che davano loro fisionomie uniformi e
disumane, e via per i quartieri poveri a suon di sirena verso qualche casa di manovale o d’operaio, a
scompigliare biancheria nei cassettoni e a smontar tubi di stufe. Una struggente angoscia
s’impadroniva in quei giorni dell’animo dell’agente Baravino.
Baravino era un disoccupato che da poco tempo s’era arruolato nella polizia. Da poco tempo
quindi egli aveva saputo d’un segreto che esisteva in fondo a quella città apparentemente placida e
operosa: dietro le mura di cemento che s’allineavano lungo le vie, in recinti appartati, in scantinati
oscuri, una foresta d’armi lucide e minacciose giaceva guardinga come aculei d’istrice. Si parlava di
giacimenti di mitragliatrici, di miniere sotterranee di proiettili; c’era, si diceva, chi dietro una porta
murata teneva un cannone intero in una stanza. Come tracce metallifere che indicano l’approssimarsi d’una regione mineraria, nelle case della città si riscontravano pistole cucite dentro i materassi, fucili inchiodati sotto gli impiantiti. L’agente Baravino si sentiva a disagio in mezzo alla sua gente; ogni tombino, ogni catasta di rottami gli sembrava custodisse incomprensibili minacce.
Una sera la polizia fece una corsa nei quartieri operai e circondò tutta una casa. Era un grande
edificio dall’aria sfatta, come se il sostenere tanta umanità assiepata ne avesse deformato i piani e i
muri, avesse ridotto anch’essi ad una vecchia carne porosa, callosa ed incrostata. Intorno al cortile ingombro di barili d’immondizie correvano a ogni piano le ringhiere dei ballatoi di ferro rugginose e storte; ed a queste ringhiere, e a spaghi tirati dall’una all’altra, panni appesi e stracci, e lungo i ballatoi porte-finestre con legni al posto di vetri, traversati dai neri tubi delle stufe, e al termine dei ballatoi, uno sopra l’altro come in scrostate torri, le baracche dei cessi, tutto così un piano sopra l’altro, intervallati dalle finestrelle dei mezzanini rumorose di macchine da cucire e vaporose di minestra, fino in cima, alle inferriate delle soffitte, alle gronde sbilenche, ai cenciosi abbaini aperti come forni.
Un labirinto di logore scale traversava dalle cantine al tetto il corpo della vecchia casa, come nere
vene dalle ramificazioni innumerevoli, e sulle scale, sparpagliate come a caso, s’aprivano le porte
dei mezzanini e dei promiscui appartamenti. Gli agenti salivano senza riuscire a cambiare il suono
lugubre dei propri passi, e cercavano di decifrare i nomi segnati sulle porte.
Baravino era in mezzo a loro, indistinguibile da loro sotto il casco di automa che gettava una
cruda ombra sui suoi nuvolosi occhi celesti; ma il suo animo era in preda a confusi turbamenti. Dei
loro nemici, gli era stato detto, nemici di loro poliziotti e gente d’ordine, si nascondevano dentro
quella casa. L’agente Baravino guardava con sgomento dagli usci socchiusi nelle stanze: in ogni
armadio, dietro qualsiasi stipite potevano celarsi armi terribili; perché ogni inquilino, ogni donnetta
li guardava con pena mista ad ansia? Se qualcuno tra loro era il nemico, perché non avrebbero
potuto esserlo tutti? Dietro i muri delle scale le immondizie buttate nei condotti verticali cadevano
con tonfi; non potevano essere le armi di cui ci s’affrettava a sbarazzarsi?
Scesero in una stanza bassa, dove una famigliola stava cenando a un desco a quadrettoni rossi. I
bambini gridarono. Solo il più piccolo, che mangiava sulle ginocchia del babbo, li guardò zitto, con
occhi neri e ostili. "Ordine di perquisire la casa", disse il brigadiere accennando un attenti e
facendo sobbalzare i cordoncini colorati sul suo petto. "Madonna! A noi povera gente! A noi onesti
tutta la vita!" disse una donna anziana, con le mani al cuore. Il babbo era in maglietta, una faccia
larga e chiara, punteggiata di barba dura a radere; imboccava il piccino a cucchiaiate. Prima li
guardò con un’occhiata traversa e forse ironica; poi scrollò le spalle e badò al bimbo.
La stanza era piena di poliziotti che non ci si poteva rigirare. Il brigadiere dava ordini inutili e
impicciava invece di dirigere. Con sgomento Baravino guardava ogni mobile, ogni stipo.
Quell’uomo in maglietta, ecco, era il nemico: e certo se non l’era stato fino a quel momento, ormai
lo era diventato, irreparabilmente, a vedersi rovesciare i cassetti e sradicare dai muri i quadri delle
madonne e dei parenti morti. E se era loro nemico, ecco, la sua casa era piena d’insidie: nel
canterano ogni cassetto poteva contenere mitragliatrici smontate tutte in ordine; se apriva gli
sportelli della credenza baionette inastate di fucili potevano puntarglisi sul petto; sotto le giacche
appese all’attaccapanni forse penzolavano nastri di proiettili dorati; ogni casseruola, ogni tegame
covava una guardinga bomba a mano.
Baravino muoveva impacciato le lunghe esili braccia. Tintinnò un cassetto: pugnali? No: posate.
Rimbombò una cartella: bombe? Libri. La camera da letto era ingombra da non potersi attraversare:
due letti matrimoniali, tre brandine, due pagliericci abbandonati in terra. E, all’altro estremo della
stanza, seduto in un lettino, c’era un bambino con il mal di denti che si mise a piangere. L’agente
già voleva aprirsi un varco tra quei letti per rassicurarlo; ma se fosse stato poi di sentinella a un
arsenale mascherato, se sotto a ogni giaciglio fosse nascosto un fusto di mortaio?
- Non un passo di più, - disse una voce, - sei sotto il tiro della mia pistola.
Sullo scalino della grande finestra c’era accoccolata una ragazza coi capelli lunghi sulle spalle,
dipinta, con le calze di seta e senza scarpe, che con voce raffreddata compitava alle ultime luci della
sera su di un giornale tutto fatto di figure e di poche frasi in stampatello.
- Pistola? - disse Baravino e le prese un polso come per aprirle il pugno. Appena lei schiuse le braccia, un gatto raggomitolato a palla sul suo petto saltò in aria, contro di lui, agente Baravino, digrignando i denti. Balzò da un tetto all'altro e fuggì via per la finestra. Affacciato alla bassa ringhiera, Baravino lo vide correre libero e sicuro per i tetti. - E Mary vide presso il suo letto, - continuava a leggere la ragazza, - il baronetto in frac con l’arma puntata.
Fuori s’accendevano le luci nelle case operaie alte e solitarie come torri. L’agente Baravino
vedeva l’enorme città stendersi intorno: costruzioni di ferro geometriche s’alzavano dentro i recinti delle
fabbriche, rami di nuvole si muovevano sui fusti delle ciminiere traversando il cielo.
"Volete le mie perle, Sir Enrico? - compitava ostinata quella intasata voce raffreddata. - No, voglio te, Mary"
Dall'interno della casa si sentivano i comandi, i gridi di spavento, le proteste. A un alzarsi di vento Baravino vide contro di sé quella intricata distesa di cemento e ferro; come se da mille nascondigli l’istrice rialzasse i suoi aculei. Capì chiaro, allora, per la prima volta, quanto quel loro lavoro era sbagliato; capì che in ogni stanza che mettevano a soqquadro, erano loro a lasciare quel seme da cui germogliavano le armi; capì che le armi nascoste sarebbero state sempre dietro ai loro passi, non davanti.
- Ho la ricchezza e l’eleganza, abito in un lussuoso palazzo, ho la servitù e gioielli, cosa posso
chiedere di più dalla vita? - proseguiva la ragazza con i neri capelli che le piovevano sul foglio
istoriato di donne serpigne e uomini dal lucido sorriso.
"Baravino!- si sentì la voce del brigadiere. - Dove è andato a cacciarsi quell'addormentato?". Doveva andare. Avrebbe voluto fuggire sotto le catene di nuvole del cielo, seppellire la sua pistola in una grande buca scavata nella terra. 

mercoledì 15 novembre 2023

L'autodafé di Grillo

 

 
Luca Bottura, E' un Berlusconi che non ce l'ha fatta, ora però un bel vaffa se lo merita lui, La Stampa, 14 novembre 2014
 
A lungo ho creduto che Beppe Grillo avesse influenzato profondamente le quattro facezie che, per me o per gli altri, ho compitato negli anni: "Fantastico", "Te la do io l'America", il teatro "di denuncia"… Tutto molto divertente, energico, sincero. Poi ho scoperto che non era lui. Che dovevo dire grazie ad Antonio Ricci, Michele Serra, a Marco Morosini, gli autori che lo avevano instradato, le diverse tappe: comicità, satira, ecologismo e neo-luddismo.
Poi arrivò Casaleggio e la cosa, da divertente, si fece drammatica. L'ego sconfinato di Grillo si combinò a quello del suo mentore, che voleva diventare "patrone ti monto" e per farlo ventilava una guerra con quattro miliardi di morti. Si specchiarono. Si amarono. Si spalleggiarono. Pensavano entrambi che il popolo fosse composto da fessi, che fossero sufficienti quattro slogan ripetuti per realizzare il loro unico obiettivo: gloria, potere.
L'altra sera, da Fabio Fazio, Grillo ha ammesso che non c'era alcun progetto. Non c'erano risposte. Non esisteva il benché minimo orizzonte. E che ha peggiorato il Paese. Si potrà obiettare (lui lo farebbe) che era spettacolo, farsa, bugia. Ma spettacolo, farsa, bugia, è ciò che Grillo e i suoi epigoni manettari, naturalmente mai con gli amici, hanno miscelato alla politica, quella vera, in questi anni di cupio dissolvi civile. E la politica, purtroppo, cambia realmente la vita delle persone. E delle comunità. Anche devastandone i capisaldi.
Grillo è un Berlusconi che non ce l'ha fatta: accentratore, malato di "vita", mentitore, spregiudicato. Non a caso, Gianroberto Casaleggio veniva da Forza Italia. Non a caso, ogni qual volta gli è toccato di andare a soggetto, gli è uscito di tutto, sempre da destra, dacché ogni populismo da là viene. Il sostegno a Casa Pound, le "botte" agli immigrati, gli attacchi (ora) ai giudici. Tra Bersani e Salvini, scelse Salvini.
Poi, la disinformazione. Casaleggio junior ha fatto sparire da tempo Le Fucine, TzéTzé, e altri siti con cui macinava denaro all'ombra del Movimento Cinque Stelle, con un volano poderoso: il Sacro Blog. Un agglomerato di notizie grigie, gonfiate, spesso prese da siti disinformativi russi come Sputnik. Un mosaico rancoroso che oggi si ritrova tale e quale nei siti "fuori dal coro", una sentina che ha devastato il livello dell'informazione italiana transumandola dal tradizionale asservimento, tra l'altro non sempre, alla confusione deliberata. Con un corollario pre-autoritario: la violenza verbale verso i non allineati.
Grillo è stato responsabile degli attacchi ai cameraman Rai che lo riprendevano, delle gogne ai danni dei cronisti colpevoli di criticarlo (e delle croniste, con che gioia), persino degli autori satirici. Grillo, e Casaleggio, hanno creato coi mezzi dell'epoca – appunto il blog – ciò che Salvini, Meloni, Renzi, avrebbero perfezionato: una Bestia di pessima informazione, aggressiva, basata sul bastone, sulla dannazione, sulla cacciata a furor di popolo dei non allineati. Interni, esterni. Mentre si davano lezioni di democrazia e giornalismo agli altri.
In questa malafede e nei suoi adepti c'è un'aggravante non da poco: l'aver fatto propria, una volta andati al potere, la peggiore consorteria partitica, la più disastrosa lottizzazione, la contrattazione del singolo strapuntino. Chiunque abbia avuto a che fare coi Cinque Stelle "di governo" – a parte lodevoli eccezioni, che resistono tuttora – ricorda una gestione militare dei rapporti con la stampa, la fuga dalle domande, le pagelle dei buoni e cattivi.
La repubblica di Casalino, potentissima, che ancora oggi si sostanzia nelle acque reflue del servizio pubblico: io ti voto il Cda, tu mi dai qualcosa qua… eccetera.
E dire che era tutto chiaro da subito, bastava voler vedere. Dal giorno in cui, a Bologna, i nomi dei principali quotidiani italiani furono scanditi per esporli al vaffanculo della piazza. La colpa: ricevere finanziamenti pubblici. Delegittimarli significava "disintermediare", come diceva Casaleggio. O disintermerdare, com'è accaduto. Sostituire le notizie con la propaganda. Fuggendo, se necessario. Nel 2011, per farsi intervistare, Grillo chiese 2.000 euro «da dare in beneficenza per gli alluvionati liguri». Andai a vedere il bluff: li raccolsi, li versai, lo aspettai in radio. Non venne: «L'iniziativa non è più attiva», mi scrisse a trasmissione conclusa. Ma dai.
Oggi, quando Giorgia Meloni fa passerella web a Palazzo Chigi saltando a piè pari ogni confronto coi giornali, applica la "regola Grillo". Inoltre, sulla spinta dell'indignazione ad minchiam, quella di un Paese in cui il 50% manco paga le tasse, i finanziamenti pubblici sono rimasti solo per le "cooperative", quasi sempre fittizie, che magari schermano imperi nel settore della Sanità o spiegano al mondo i totem del liberismo. Coi soldi pubblici.
La cancellazione dei sostegni all'informazione (che venivano anche hackerati, come tutto in Italia, ma davano una mano al pluralismo) fa il paio con la diminuzione di deputati e senatori: una trovata da repubblica delle banane che il Pd sposò per ignavia, seminando il campo sul quale oggi Meloni sparge concime col premierato. Grillo ha peggiorato anche l'opposizione, ha dato a intendere a una parte del Paese che la sinistra fosse quella roba lì: una giusta – ad esempio il reddito di cittadinanza – insieme a cento sbagliate ma a furor di popolo. Manipolato. Anzi, peggio: in mezzo a un nulla di slogan vuoti, di parole messe lì per far numero: «Giuseppe Conte parlava difficile, non si capiva. L'ho scelto per quello».
L'ultimo paradosso è che l'autodafé di Grillo sia avvenuto anch'esso per promozione, in casa di un conduttore che aveva insultato e irriso, da cui si è fatto agilmente gestire come a suo tempo nel salotto di Bruno Vespa. Una passerella mesta (al netto del colpaccio e del senso giornalistico) a caccia di un pubblico per spettacoli sempre meno affollati, o di qualche lettore in più per un blog che senza Casaleggio è defunto. Per raggranellare un po' di attenzione ad anni luce dal successo di piazza da cui iniziò la caduta: gli 800.000 (autocertificati) di piazza San Giovanni del 2013. Un pubblico così, Grillo, non l'avrebbe mai più avuto. Il suo unico vero programma era completato. Oggi – chapeau - ha il coraggio artistoide di venire in tv a spiegarci che sì, ci aveva preso per i fondelli. Una sincerità che merita adeguata risposta: Beppe, hai settant'anni. Adesso vattene affanculo tu.

 

 

lunedì 13 novembre 2023

Si dorme come cani

 


Continua l'esplorazione dei marginali. Questa è la volta dei barboni, colti in uno dei momenti più duri  della loro esistenza: la ricerca del sonno. La felicità è un letto caldo con le lenzuola di bucato e il materasso di piume.

 

Italo Calvino, Si dorme come cani, l'Unità edizione piemontese 11 giugno 1948
 

Ogni volta che apriva gli occhi si sentiva addosso tutta quella luce gialla e acida dalle grandi
lampade della biglietteria. E s’involgeva gli occhi nel bavero tirato della giacca, in cerca di buio e di
caldo. Coricandosi non s’era accorto di come gelide e dure erano le lastre di pietra del pavimento:
ora lame di freddo salivano a infiltrarglisi di sotto al vestito e per i buchi delle scarpe, e la poca
carne dei fianchi gli doleva, pigiata tra le ossa e la pietra.
Il posto però se l’era scelto bene, in quell’angolo a ridosso alla scalinata, riparato e non di passaggio: tant’è vero che dopo un po’ ch’era lì, arrivarono quattro gambe di donna alte sopra la sua testa e dissero: - Ehi, quello ci ha preso il posto.
L’uomo sentiva ma non era sveglio: sbavava da un angolo della bocca sul cartone scorticato della
piccola valigia, il suo cuscino, e i capelli s’erano messi a dormire per conto loro, seguitando la linea
orizzontale del corpo.
- Ben, - disse quella voce di prima, da sopra i ginocchi terrosi e la campana spiovente della
gonna. - Si tolga. Almeno prepariamo il letto.
E uno di quei piedi, piede di donna in scarponi, lo assaggiò ai fianchi, come un muso che annusi.
L’uomo si rizzò sui gomiti, annaspando nella luce gialla con palpebre smarrite e irritate, e i capelli
che non s’eran accorti di niente tutti dritti. Poi ripiombò giù come volesse dare una testata dentro la
valigia.
Le donne avevano tolto i sacchi di testa. L’uomo che veniva dietro posò le coperte arrotolate e
cominciarono a disporsi. - Ehi, - disse la più vecchia al coricato, - alzati, almeno mettiamo anche te
sotto -.
Macché: dormiva.
- Deve avercene una carica, - disse la più giovane, una tutt’ossi con parti grasse quasi appoggiate
alla sua magrezza: seni, natiche, che le giravano su e giù sotto la vestina, mentre lei si piegava a
stendere le coperte, e a rincalzarle sotto i sacchi di farina.
Erano tre della borsanera e venivano giù coi sacchi pieni e le latte vuote. Gente che s’era fatta le
ossa a dormire sul duro, per le stazioni e viaggiando sui «bestiame», però aveva imparato a
organizzarsi e viaggiava con le coperte.
Intanto l’uomo ch’era con loro, un magro con le cerniere-lampo, s’era già ficcato tra una coperta
e l’altra e tirato il purillo sugli occhi.
Si misero sotto anche le donne, e la più giovane e il marito si strofinarono un po’ fianco a fianco facendo un rumore di brividi, mentre la più vecchia rincalzava quel meschino d’addormentato. Forse la più vecchia non era tanto vecchia, ma era come scalcagnata dalla vita che faceva, sempre con carichi di farina e
d’olio sulla testa, su e giù per quei treni: e portava un vestito che sembrava un sacco e i capelli che
andavano in tutti i versi.
All’uomo addormentato scivolava la testa dalla valigia, ch’era troppo alta e gli faceva tenere il
collo per storto; lei provò a sistemarlo meglio, ma a quello per poco non cadeva la testa in terra:
così lei gli fece posare la testa su una sua spalla.
Erano lì che facevano per dormire, quando arrivarono un abbruzzese con i baffi neri e due figlie brune e grassottee grassotte, tutt’e tre piccoli di statura, con delle ceste di vimini e gli occhi schiacciati dal sonno in mezzo a tutta quella luce. Sembrava che le figlie volessero andare da una parte e lui dall’altra e così litigavano, senza guardarsi in faccia e quasi senza parlare, a furia di brevi frasi addentate, e un fermarsi e avanzare a strattoni. Scoprirono il posto già occupato da quei quattro e rimasero lì sempre più smarriti, finché non li raggiunsero due giovanotti in mollettiere e con le mantelline a tracolla.
Subito i due misero in mezzo gli abbruzzesi, per convincerli a mettere tutte le coperte assieme e
sistemarsi tutt’uno con quei quattro coricati. I giovanotti erano due veneti che emigravano in
Francia, e fecero alzare i borsanera e ridisporre tutte le coperte in modo da starci quanti erano.
Già qualcuno russava, ma l'abbruzzese non riusciva a dormire, pur con tutto il sonno che gli
pesava addosso. Il giallo acido di quella luce lo perseguitava fin sotto le palpebre, fin sotto la mano
che gli tappava gli occhi; e il grido disumano degli altoparlanti:... accelerato... binario... partenza...
lo teneva in continua inquietudine. Poi aveva bisogno di fare i suoi bisogni, ma non sapeva dove andare e
aveva paura di perdersi in quella stazione. Finì per decidersi a svegliare uno e prese a scuoterlo: era
quel disgraziato che dormiva lì fin da prima.
- La latrina, compare, la latrina, - diceva, e lo tirava per un gomito.
L’addormentato finì per alzarsi a sedere di scatto e spalancò i rossi occhi nebbiosi e la bocca
gommosa su quella faccia chinata su di lui, quella piccola faccia da gatto, grinzosa e coi baffi neri.
- La latrina, compare... - diceva l'abbruzzese.
L’altro restava attonito, si guardava intorno con spavento. Rimasero tutt’e due a guardarsi a
boccaperta, lui e l'abbruzzese. Quello sempre addormentato non capiva niente: scoprì la faccia di
quella donna, per terra sotto di lui, e la fissava pieno di terrore. Forse era lì lì per dare un urlo. Poi
tutt’a un tratto riaffondò la testa nel seno della donna e ripiombò nel sonno.
L'abbruzzese s’alzò calpestando due o tre corpi, e prese a muovere passi incerti per quel grande atrio luminoso e freddo. Di là delle vetrate si vedeva il buio limpido della notte e paesaggi di ferro, geometrici. Vide un brunetto più piccolo di lui con la guappa e l’abito gualcito che s’avvicinava con aria distratta.
- La latrina, compare, - chiese l'abbruzzese, supplichevole.
- Americane, svizzere, - fece l’altro che non aveva capito, facendo spuntare un pacchetto.
Era Belmoretto che sbarcava il lunario intorno le stazioni e non aveva una casa né un letto sulla
faccia della terra e ogni tanto pigliava un treno e cambiava città, dove lo portavano i suoi incerti
commerci di tabacco e gomma da masticare.
Belmoretto era un  lui pure, e fu molto gentile col vecchietto dai baffi neri; lo portò alla
latrina e aspettò che avesse finito di orinare per riaccompagnarlo. Gli diede da fumare e insieme
fumavano e guardavano con gli occhi sabbiosi di sonno partire i treni e giù nell’atrio il mucchio di
quelli che dormivano per terra.
- Si dorme come cani, - disse l'abbruzzese. - Sei giorni e sei notti che non vedo un letto.
- Un letto, - disse Belmoretto, - delle volte me lo sogno, un letto. Un bel letto bianco tutto per me.
L'abbruzzese se ne tornò a dormire.
Dopo un po' si sentì un corpo estraneo che s'intrufolava in mezzo a loro, come un cane che
scavasse sotto le coperte. Qualche donna gridò. Subito ci fu un affannarsi a tirar via le coperte per
capire cos’era. E in mezzo a loro scopersero Belmoretto che già russava aggomitolato come un feto
e senza scarpe, con la testa sotto una sottana e i piedi infilati in un’altra. Svegliato a pugni nella
schiena. - Scusate, - disse, - non volevo disturbare.
Ma ormai tutti erano svegli e sacramentavano, tranne quel primo, che sbavava.
Allora Belmoretto trovò modo di vendere delle Nazionali a tutti e si misero a fumare e a raccontare di
quante notti era che non dormivano.
- Un letto, - disse Belmoretto, - con le lenzuola di bucato e il materasso di piume da affondarci.
Un letto stretto e caldo, da starci solo io.
- Che dire di noi che facciamo sempre questa vita? - disse il borsanera. - Arrivati a casa si passa
una notte in letto e poi via di nuovo sui treni.
- Averci un letto di bucato, caldo, - disse Belmoretto. - Nudo, c’entrerei dentro, nudo.
- Sei notti che non ci spogliamo, - dissero le bassitalia, - che non cambiamo biancheria. Sei notti
che si dorme come cani.
- Io entrerei in una casa come un ladro, - disse un veneto, - ma non per rubare. Per ficcarmi in un
letto e dormirci fino al mattino.
A Belmoretto veniva un’idea. - Aspettate, - disse, e se ne andò.
Girò un po’ sotto i portici finché non incontrò Maria la Matta. Maria la Matta se passava la notte
senza trovare un cliente saltava il pasto l’indomani, perciò non s’arrendeva nemmeno alle ore
piccole e continuava su e giù per quei marciapiedi fino all’alba, coi capelli rossi stopposi e i
polpacci a fiasco. Belmoretto era molto amico suo.
Nell’accampamento della stazione continuavano a discutere di sonno e di letti e del dormire da
cani che facevano, e aspettavano che si schiarisse il buio alle vetrate. Non eran passati dieci minuti
e rieccoti Belmoretto, che arriva con un materasso arrotolato sulle spalle.
- Sotto, - disse, stendendolo per terra, - turni di mezz’ora, cinquanta lire, ci possono stare due per
volta. Sotto, cosa sono venticinque lire a testa?
Aveva noleggiato un materasso da Maria la Matta che ne aveva due nel letto e adesso lo
subaffittava a mezz’ore. Altri viaggiatori assonnati che aspettavano le coincidenze si avvicinarono,
interessati.
- Sotto, - diceva Belmoretto. - Penso io alla sveglia. Ci mettiamo una coperta sopra e vualà che
nessuno vi vede e potete farci anche i figli. Sotto.
Un veneto provò per primo, insieme a una delle ragazze abbruzzesi. La più vecchia dei borsanera
prenotò il secondo turno per lei e quel povero addormentato che aveva addosso. Belmoretto già
aveva tirato fuori un taccuino e segnava le ordinazioni.
All’alba avrebbe riportato il materasso a Maria la Matta e sarebbero stati a far capriole sul letto fino a giorno fatto. Poi, finalmente, si sarebbero addormentati. 

domenica 12 novembre 2023

Il destino del Pd: una ipotesi


 Marco Damilano, La leader, i tre mondi nel Pd e quel pezzo di paese pulito, Domani, 12 novembre 2023

... Il Pd dell'11 novembre è apparso diviso in tre, Il retropalco dei dirigenti rimasti rigorosamente nascosti agli occhi: gli eterni (Franceschini, Zingaretti, Guerini, Fassino), gli aspiranti eterni (Boccia), i contingenti (gli uomini e le donne della segretaria). C'era poi il palco, i tanti interventi che nel complesso servivano a dare l'immagine dell'Italia cui la Schlein vorrebbe dare voce, la sanità pubblica ferita, il lavoro, le famiglie arcobaleno, i diritti sociali e civili, gli amministratori della Romagna e della Toscana alluvionate. E infine la piazza che assomigliava alle piazze del Pd viste altre volte: un pezzo di paese pulito. Nell'insieme: un vecchio partito reduce da mille sconfitte e da riforme mancate, con i suoi generali che non si sono vergognati di vergognarsi del loro partito e che hanno spalancato le porte alla destra; un mondo associativo e intellettuale che in tanti anni di crisi è venuto giù e anche in qualche intervento sul palco ha lasciato trasparire una mancanza di abitudine a un confronto con la politica; una piazza partecipe ma anche un po' disorientata. La manifestazione di ieri era la sintesi della frattura che si è creata in questi anni, tra un mondo della politica ufficiale, distante dalla società, e pezzi di società a loro volta chiusi in una autoreferenzialità che spesso diventa inconsistenza politica.Per la politica è un problema, per il Pd è un dramma. Di questo dramma bisognerà continuare a ragionare. Ma ieri a fare da cerniera tra questi tre mondi c'era solo lei, Elly Schlein. L'unica sintesi possibile, difficile da aggirare, nonostante le bordate quotidiane che le riversano addosso avversari e amici. Una frontiera anche: posizione scomoda, che rischia di scontentare tutti. Il punto di partenza è questo, si sapeva già, le macerie di anni di incuria. Il punto di arrivo, se la riforma Meloni non è un bluff totale al tavolo da poker della destra, è lo scontro referendario in arrivo sul cambio della Costituzione e poi, in caso di approvazione, la ricerca di una leadership da contrapporre alla premier che punta ad essere la prima eletta direttamente dai cittadini. Una strada è stata indicata ieri da Rosy Bindi su La Stampa: costituire subito quei comitati di difesa della Costituzione, su modello di quelli ccreati dal monaco Giuseppe Dossetti nel 1994, citato da Sergio Mattarella nel suo discorso al meeting di Rimini la scorsa estate.
Chi ha memoria, però, ricorda che i comitati del 1994 contro le proposte di riscrittura della Carta del primo berlusconismo furono seguiti, nel 1995, dalla nascita dell'Ulivo di Romano Prodi. Il no che tenne insieme le opposizioni di allora era la premessa di una nuova coalizione di centrosinistra, con un leader capace di tenerla insieme. E allora verrà il momento in cui le figure di cerniera, sintesi, frontiera torneranno utili. Una promessa, un progetto. 

 

Il giardino incantato

 

 

La felicità è un tempo sospeso

 

Italo Calvino, Il giardino incantato, l'Unità edizione piemontese 2 febbraio 1948


Giovannino e Serenella camminavano per la strada ferrata. Giù c’era un mare tutto squame
azzurro cupo azzurro chiaro; su, un cielo appena venato di nuvole bianche. I binari erano lucenti e
caldi che scottavano. Sulla strada ferrata si camminava bene e si potevano fare tanti giochi: stare in
equilibrio lui su un binario e lei sull’altro e andare avanti tenendosi per mano, oppure saltare da una
traversina all’altra senza posare mai il piede sulle pietre. Giovannino e Serenella erano stati a caccia
di granchi e adesso avevano deciso di esplorare la strada ferrata fin dentro la galleria. Giocare con
Serenella era bello. perché non faceva come tutte le altre bambine che hanno sempre paura e si
mettono a piangere a ogni dispetto: quando Giovannino diceva: - Andiamo là, - Serenella lo seguiva
sempre senza discutere.
Deng! Sussultarono e guardarono in alto. Era il disco di uno scambio ch’era scattato in cima a un
palo. Sembrava una cicogna di ferro che avesse chiuso tutt’a un tratto il becco. Rimasero un po’ a
naso in su
a guardare: che peccato non aver visto! Ormai non lo faceva più.
- Sta per venire un treno, - disse Giovannino.
Serenella non si mosse dal binario. - Da dove? chiese.
Giovannino si guardò intorno, con aria d’intendersene. Indicò il buco nero della galleria che
appariva ora limpido ora sfocato, attraverso il tremito del vapore invisibile che si levava dalle pietre
della strada.
- Di lì, - disse. Sembrava già di sentirne lo sbuffo incupito dalla galleria e vederselo tutt’a un
tratto addosso, scalpitante fumo e fuoco, con le ruote che mangiavano i binari senza pietà.
- Dove andiamo, Giovannino?
C’erano grandi agavi grige, verso mare, con raggere di aculei impenetrabili. Verso monte correva
una siepe di ipomea, stracarica di foglie e senza fiori. Il treno non si sentiva ancora: forse correva a
locomotiva spenta senza rumore e sarebbe balzato su di loro tutt’a un tratto. Ma già Giovannino
aveva trovato un pertugio nella siepe. - Di là.
La siepe sotto il rampicante era una vecchia rete metallica cadente.
In un punto, s’accartocciava su da terra come un angolo di pagina. Giovannino era già sparito per
metà e sgusciava dentro.
- Dammi una mano, Giovannino!
Si ritrovarono in un angolo di giardino, tutt’e due carponi in un’aiola, coi capelli pieni di foglie
secche e di terriccio. Tutto era zitto intorno; non muoveva una foglia.
- Andiamo, - disse Giovannino e Serenella disse: - Sì.
C’erano grandi e antichi eucalipti color carne, e vialetti di ghiaia. Giovannino e Serenella
camminavano in punta di piedi pei vialetti, attenti al fruscio della ghiaia sotto i passi. E se adesso
arrivassero i padroni?
Tutto era così bello: volte strette e altissime di foglie ricurve d’eucalipto e ritagli di cielo; restava
solo quell’ansia dentro, del giardino che non era loro e da cui forse dovevano esser cacciati tra un
momento. Ma nessun rumore si sentiva. Da un cespo di corbezzolo, a una svolta, s’alzò un volo di
passeri, con gridi. Poi ritornò silenzio. Era forse un giardino abbandonato?
Ma l’ombra dei grandi alberi a un certo punto finiva e si trovarono sotto il cielo aperto, di fronte
ad aiole tutte ben ravviate di petunie e convolvoli, e viali e balaustrate e spalliere di bosso. E
sull’alto del giardino, una grande villa coi vetri lampeggianti e tende gialle e arancio.
E tutto era deserto. I due bambini venivano su guardinghi calpestando ghiaia: forse le vetrate
stavano per spalancarsi tutt’a un tratto e signori e signore severissimi per apparire sui terrazzi e
grossi cani per essere sguinzagliati per i viali. Trovarono vicino a una cunetta una carriola.
Giovannino la prese per le staffe e la spinse innanzi: aveva un cigolo, a ogni giro di ruota, come un
fischio. Serenella ci si sedette sopra e avanzavano zitti, Giovannino spingendo la carriola con lei
sopra, fiancheggiando le aiole e i giochi d’acqua.
- Quello, - diceva Serenella a bassa voce di tanto in tanto, indicando un fiore. Giovannino
poggiava e andava a strapparlo e glielo dava. Ne aveva già dei belli in un mazzetto. Ma scavalcando
le siepi per scappare, forse li avrebbe dovuti buttar via!
Così arrivarono a uno spiazzo e finiva la ghiaia e c’era un fondo di cemento e mattonelle. E in
mezzo a questo spiazzo s’apriva un grande rettangolo vuoto: una piscina. Ne raggiunsero i margini:
era a piastrelle azzurre, ricolma d’acqua chiara fino all’orlo.
- Ci tuffiamo? - chiese Giovannino a Serenella. Certo doveva essere assai pericoloso se lui
chiedeva a lei e non diceva soltanto: - Giù! - Ma l’acqua era così limpida e azzurra e Serenella non
aveva mai paura. Scese dalla carriola e vi depose il mazzolino. Erano già in costume da bagno:
erano stati a cacciar granchi fino allora. Giovannino si tuffò: non dal trampolino perché il tonfo
avrebbe fatto troppo rumore, ma dall’orlo. Andò giù giù a occhi aperti e non vedeva che azzurro, e
le mani come pesci rosa; non come sotto l’acqua del mare, piena d’ombre informi verdi-nere.
Un’ombra rosa sopra di sé: Serenella! Si presero per mano e riaffiorarono all’altro capo, un po’ con
apprensione. No, non c’era proprio nessuno ad osservarli. Non era bello come s’immaginavano:
rimaneva sempre quel fondo d’amarezza e d’ansia, che tutto questo non spettava loro e potevano
esserne di momento in momento, via, scacciati.
Uscirono dall’acqua e proprio lì vicino alla piscina trovarono un tavolino col ping-pong.
Giovannino diede subito un colpo di racchetta alla palla: Serenella fu svelta dall’altra parte a
rimandargliela. Giocavano così, dando bòtte leggere perché da dentro alla villa non sentissero. A un
tratto un tiro rimbalzò alto e Giovannino per pararlo fece volare la palla via lontano; batté sopra un
gong sospeso tra i sostegni d’una pergola, che vibrò cupo e a lungo. I due bambini si rannicchiarono
dietro un’aiola di ranuncoli. Subito arrivarono due servitori in giacca bianca, reggendo grandi
vassoi, posarono i vassoi su un tavolo rotondo sotto un ombrellone a righe gialle e arancio e se ne
andarono.
Giovannino e Serenella s’avvicinarono al tavolo. C’era tè, latte e pan-di-Spagna. Non restava che
sedersi e servirsi. Riempirono due tazze e tagliarono due fette. Ma non riuscivano a stare ben seduti,
si tenevano sull’orlo delle sedie, muovendo le ginocchia. E non riuscivano a sentire il sapore dei
dolci e del tè e latte. Ogni cosa in quel giardino era così: bella e impossibile a gustarsi, con quel
disagio dentro e quella paura, che fosse solo per una distrazione del destino, e che presto sarebbero
chiamati a darne conto.
Quatti quatti, si avvicinarono alla villa. Di tra le stecche d’una persiana a griglia videro, dentro,
una bella stanza ombrosa con collezioni di farfalle alle pareti. E in questa stanza c’era un pallido
ragazzo. Doveva essere il padrone della villa e del giardino, lui fortunato. Era seduto su una sedia a
sdraio e sfogliava un grosso libro con figure. Aveva mani sottili e bianche e un pigiama accollato
benché fosse estate.
Ora, ai due bambini, spiandolo tra le stecche, si spegneva a poco a poco il batticuore. Infatti quel
ragazzo ricco sembrava sedesse e sfogliasse quelle pagine e si guardasse intorno con più ansia e
disagio di loro. E s’alzasse in punta di piedi come se temesse che qualcuno, di momento in
momento, potesse venire a scacciarlo, come se sentisse che quel libro, quella sedia a sdraio, quelle
farfalle incorniciate ai muri e il giardino coi giochi e le merende e le piscine e i viali, erano concessi
a lui solo per un enorme sbaglio, e lui fosse impossibilitato a goderne, ma solo provasse su di sé
l’amarezza di quello sbaglio, come una sua colpa.
Il ragazzo pallido girava per la sua ombrosa stanza con passi furtivi, accarezzava i margini delle
vetrine costellate di farfalle con le bianche dita, e si fermava in ascolto. A Giovannino e Serenella il
batticuore spento riprendeva ora più fitto. Era la paura di un incantesimo che gravasse su quella
villa e quel giardino, su tutte quelle cose belle e comode, come un’antica ingiustizia commessa.
Il sole s’oscurò di nuvole. Zitti zitti Giovannino e Serenella se ne andarono. Rifecero la strada pei
vialetti, di passo svelto, ma senza mai correre. E traversarono carponi quella siepe. Tra le agavi
trovarono un sentiero che portava alla spiaggia, breve e sassosa, con cumuli d’alghe che seguivano
la riva del mare. Allora inventarono un gioco bellissimo: battaglia con le alghe. Se ne tirarono
manciate in faccia uno con l’altra fino a sera. C’era di buono che Serenella non piangeva mai.

sabato 11 novembre 2023

Il bosco degli animali

 



Il rastrellamento in corso porta gli animali domestici a invadere il bosco. Allo smarrimento del soldato tedesco, pure abituato alla vita in campagna,  corrisponde il trionfo del contadino, pessimo cacciatore, Giuà Dei Fichi.

Italo Calvino, Il bosco degli animali, l'Unità edizione piemontese 20 aprile 1948

I giorni di rastrellamento, al bosco sembra che ci sia la fiera. Tra i cespugli e gli alberi fuori dai sentieri è un continuo passare di famiglie che spingono la mucca od il vitello, e vecchie con la capra legata a una corda, e bambine con l’oca sotto il braccio. C’è chi addirittura scappa coi conigli.
Da ogni parte si vada, più i castagni son fitti, più si incontrano panciuti bovi e scampananti
mucche che non sanno come muoversi per quei dirupati pendii. Meglio ci si trovano le capre, ma i più contenti sono i muli che una volta tanto posson muoversi scarichi, brucando cortecce per i viottoli. I maiali vanno per grufolare in terra e si pungono coi ricci tutto il grugno; le galline s’appollaiano sugli alberi e fanno paura agli scoiattoli; i conigli che in secoli di stalla hanno disimparato a scavar tane, non trovano di meglio che cacciarsi dentro il cavo degli alberi. Alle volte s’incontrano coi ghiri che li mordono.
Quella mattina il contadino Giuà Dei Fichi, stava facendo legna in un remoto angolo del bosco. Non sapeva nulla di quel che succedeva al paese, perché n’era partito la sera del giorno prima con l’intento d’andare per funghi la mattina presto e aveva dormito in un casolare in mezzo al bosco, che serviva, d’autunno, a essiccare le castagne.
Perciò mentre menava colpi d’accetta contro un tronco morto, fu sorpreso a sentire, lontano e vicino per il bosco, un vago rintoccare di campani. S’interruppe e udì delle voci avvicinarsi. Gridò: Ooo-u!
Giuà Dei Fichi era un ometto basso e tondo, con una faccia da luna piena nerastra di pelo e
rubizza di vino, portava un verde cappello a pan di zucchero con una penna di fagiano, una camicia a grandi pallini gialli sotto il gilecco di fustagno, e una sciarpa rossa intorno alla pancia a pallone per sostenergli i pantaloni pieni di toppe turchine.
- Ooo-u! - gli risposero e apparve tra le rocce verdi di licheni un contadino coi baffi e il cappello di paglia, suo compare, che si portava dietro un caprone dalla barba bianca.
- Cosa fai qui, Giuà, - gli disse il compare, - sono arrivati i tedeschi al paese e girano tutte le
stalle!
- Ohimè di me! - gridò Giuà Dei Fichi. - Troveranno la mia mucca Coccinella e la porteranno
via!
- Corri che forse fai ancora in tempo a nasconderla, - lo consigliò il compare. - Noi abbiamo visto la colonna che saliva in fondovalle e siamo subito scappati. Ma può darsi che ancora non siano arrivati a casa tua.
Giuà lasciò legna, accetta e cestino dei funghi e corse via.
Correndo per il bosco s’imbatteva in file d’anatre che gli scappavano starnazzando di tra i piedi, e in greggi di pecore che marciavano compatte fianco a fianco senza lasciargli il passo, e in ragazzi e in vecchine che gli gridavano: - Sono arrivati già alla Madonnetta! Stanno frugando le case sopra il ponte! Li ho visti girare la svolta prima del paese! - Giuà Dei Fichi s’affrettava con le corte gambe, rotolando come una palla giù per i pendii, guadagnando le salite a cuore in gola. Corri e corri, arrivò a un gomito di costone donde s’apriva la vista del paese. C’era un gran spaziare d’aria mattiniera e tenera, uno sfumato circondario di montagne, e in mezzo il paese di case ossute e accatastate tutte pietre e ardesia. E nell’aria tesa veniva dal paese un gridare tedesco e un battere di pugni contro porte.
«Ohimè di me! ci sono già i tedeschi nelle case!»
Giuà Dei Fichi tremava tutto nelle braccia e nelle gambe: un po’ di tremito ce l’aveva di natura per via del bere, un po’ gli veniva adesso a pensare alla mucca Coccinella, unico suo bene al mondo, che stava per venir portata via.
Quatto quatto, tagliando per i campi, tenendosi al coperto dietro i filari delle vigne, Giuà Dei
Fichi s’avvicinò al paese. La sua casa era una delle ultime ed esterne, là dove il paese si perdeva negli orti, in mezzo a un dilagar verde di zucche: poteva darsi che i tedeschi non fossero arrivati ancora lì. Giuà facendo capolino dai cantoni cominciò a scivolare nel paese. Vide una strada vuota coi consueti odori di fieno e di stallino, e questi nuovi rumori che venivano dal centro del paese: voci disumane e passi ferrati. La sua casa era lì: ancora chiusa. Era chiusa sia la porta della stalla a pianterreno sia quella delle stanze, in cima alla consunta scala esterna, tra cespi di basilico piantati dentro pentole di terra. Una voce dall’interno della stalla disse: - Muuuuuu.. - Era la mucca Coccinella che riconosceva l’avvicinarsi del padrone. Giuà si rimescolò di contentezza.
Ma ecco che sotto un archivolto si sentì rimbombare un passo umano: Giuà si nascose nel vano di una porta tirando indietro la pancia rotonda. Era un tedesco dall’aria contadina, coi polsi e il collo allampanati che sporgevano dalla corta giubba, le gambe lunghe lunghe e un fucilaccio lungo quanto lui. S’era allontanato dai compagni per veder di cacciare qualcosa per suo conto; e anche perché le cose e gli odori del paese gli ricordavano cose e odori noti. Così andava fiutando l’aria e guardando intorno con una gialla faccia porcina sotto la visiera dello schiacciato cheppì. In quella Coccinella disse: - Muuuu... - Non capiva come mai il padrone non arrivasse ancora. Il tedesco ebbe un guizzo in quei suoi panni striminziti e si diresse subito alla stalla; Giuà Dei Fichi non respirava più.
Vide il tedesco che s’accaniva a dar calci alla porta: presto l’avrebbe sfondata, di sicuro. Giuà
allora scantonò e passò dietro la casa, andò al fienile e prese a rovistare sotto il fieno. C’era nascosta la sua vecchia doppietta da caccia, con una fornita cartuccera. Giuà caricò il fucile con due pallottole da cinghiale, si cinse la pancia con la cartuccera e quatto quatto, a fucile spianato, andò a appostarsi all’uscita della stalla. Già il tedesco stava uscendo tirandosi dietro Coccinella legata ad una fune. Era una bella mucca rossa a macchie nere e perciò si chiamava Coccinella. Era una mucca giovane, affettuosa e puntigliosa: ora non voleva lasciarsi portar via da quest’uomo sconosciuto, e s’impuntava; il tedesco la doveva spinger via per il garrese.
Nascosto dietro un muro Giuà Dei Fichi mirò. Ora bisogna sapere che Giuà era il cacciatore più schiappino del paese. Non era mai riuscito a centrare, manco per sbaglio, non dico una lepre ma nemmeno uno scoiattolo. Quando sparava ai tordi al fermo, quelli manco si muovevano dal ramo. Nessuno voleva andare a caccia con lui perché impallinava il sedere dei compagni. Non aveva mira e gli tremavano le mani. Figuriamoci adesso, tutto emozionato com’era!
Puntava, ma le mani gli tremavano e la bocca della doppietta continuava a girare in aria. Faceva per mirare al cuore del tedesco e subito gli appariva il sedere della mucca sul mirino. «Ohimè di me! - pensava Giuà, - e se sparo al tedesco e uccido Coccinella?» E non s’azzardava a tirare.
Il tedesco s’avanzava a stento con questa mucca che sentiva la vicinanza del padrone e non si
lasciava trascinare. S’accorse a un tratto che i suoi commilitoni avevano già sgombrato il paese e scendevano per lo stradone.
Il tedesco s’accinse a raggiungerli con quella testarda mucca dietro. Adesso riusciva più facile a Giuà tenergli dietro nascondendosi tra i tronchi. E forse ora il tedesco avrebbe proceduto più discosto dalla nucca, in modo che fosse possibile tirargli.
Una volta nel bosco Coccinella parve perdere la riluttanza a muoversi, anzi, poiché il tedesco tra quei viottoli si raccapezzava poco, era lei a guidarlo e a decidere nei bivi. Non passò molto e il tedesco s’accorse che non era sulla scorciatoia dello stradone ma in mezzo al bosco fitto: in una parola s’era smarrito insieme a quella mucca.
Graffiandosi il naso nei roveti e finendo a piè pari nei ruscelli Giuà Dei Fichi gli teneva dietro,
tra frulli di scriccioli che prendevano il volo e sgusciar di ranocchi dei pantani. Prendere la mira in mezzo agli alberi era ancor più difficile, a farla passare attraverso tanti ostacoli e con quella groppa rossa e nera tanto estesa che gli si parava sempre sotto gli occhi.
Il tedesco già guardava con paura il bosco fitto, e studiava come poteva fare a uscirne, quando
udì un fruscio in un cespuglio di corbezzoli e sbucò fuori un bel maiale rosa. Mollò la corda della mucca e si mise dietro al maiale. Coccinella appena si vide libera s’inoltrò trotterellando per il bosco, che sentiva pullulare di presenze amiche.
Per Giuà era venuto il momento di sparare. Il tedesco s’affaccendava intorno al porco,
l’abbracciava per tenerlo fermo, ma quello gli sgusciava via.
Il tedesco rotolava contro pietre e cespugli con quel maiale tra le braccia che si dibatteva e
gridava: - Ghiii... ghiii... ghiii... - A un tratto ai gridi del maiale rispose un - Bee‚... - e da una grottauscì un agnellino. Il tedesco lasciò scappare il porco e si mise dietro all’agnellino. Strano bosco, pensava, con maiali nei cespugli e agnelli nelle tane. E acchiappato per una zampa l’agnellino che belava a perdifiato se lo issò in spalla come il Buon Pastore, ed andò via. Giuà Dei Fichi lo seguiva quatto quatto. “Stavolta non scappa. Stavolta c’è”, diceva.
Il tedesco andando per il bosco faceva scoperte da restar a bocca aperta: pulcini sopra gli alberi, porcellini d’India che facevano capolino dal cavo dei tronchi. C’era tutta l’arca di Noè. Ecco che su un ramo di pino vide posato un tacchino che faceva la ruota. Subito, alzò la mano per pigliarlo, ma il tacchino, con un piccolo salto, andò ad appollaiarsi su un ramo del palco più alto, sempre continuando a far la ruota. Il tedesco, lasciando l’agnello, cominciò ad arrampicarsi su quel pino. Ma ogni palco di rami che lui saliva, il tacchino andava su d’un altro palco, senza scomporsi, impettito e coi penduli bargigli fiammeggianti. Giuà avanzava sotto l’albero con un ramo frondoso sulla testa, altri due sulle spalle e uno legato alla canna del fucile.
Il tedesco salendo era arrivato ai rami più sottili, finché uno non gli si spezzò sotto i piedi e lui
cascò. Per poco non finì addosso a Giuà Dei Fichi, che questa volta ebbe occhio e scappò via. Ma lasciò per terra tutti i rami che lo nascondevano, così il tedesco cadde sul morbido e non si fece niente.
Il bosco era tutto muggiti e belati e coccodè.: a ogni passo si facevano nuove scoperte d'animali: un pappagallo su un ramo d'agrifoglio, tre pesci rossi sguazzanti  in una polla.
Alla fine il tedesco era arrivato in un posto tutte pietre grigie, rose da licheni azzurri e verdi. Cadde e vide una lepre sul sentiero. Ma non era una lepre: era panciuta e ovale e sentendo
rumore non scappò, ma s’appiattì per terra. Era un coniglio e il tedesco lo prese per gli orecchi.
Avanzava così col coniglio che squittiva e si contorceva in tutti i sensi e lui era costretto per non farselo scappare a saltare in qua e in là col braccio alzato. Il bosco era tutto muggiti e belati e coccodé: a ogni passo si facevano nuove scoperte d’animali: un pappagallo su un ramo d’agrifoglio, tre pesci rossi sguazzanti in una polla.
Alla fine il tedesco era arrivato a un posto tutte pietre grige, ròse da licheni azzurri e verdi. Solo pochi pini scheletriti crescevano intorno, e vicino s’apriva un precipizio. Nel tappeto d’aghi di pino che giaceva in terra, stava razzolando una gallina. Il tedesco fece per rincorrere la gallina e il coniglio gli scappò.
Era la gallina più magra, vecchia e spennacchiata che mai si fosse vista. Apparteneva a Girumina, la vecchia più povera del paese. Il tedesco l’ebbe presto tra le mani.
Giuà s’era appostato in cima a quelle roccie e aveva costruito un piedestallo di pietre per il suo
fucile. Anzi aveva messo su proprio la facciata d’un fortino, con solo una stretta feritoia per far passare la canna del fucile. Adesso poteva sparare senza scrupoli, ché se anche ammazzava quella gallina spennacchiata era mal di poco.
Ma ecco che la vecchia Girumina, raggomitolata in scialli neri e cenciosi, lo raggiunse e gli fece questo ragionamento: "Giuà, che i tedeschi mi portino via la gallina, unica cosa che mi resti al mondo, è già triste. Ma che sia tu che me l’ammazzi a fucilate è più triste ancora".
Giuà riprese a tremare più di prima, per la gran responsabilità che gli toccava. Pure si fece forza e schiacciò il grilletto.
Il tedesco sentì lo sparo e vide la gallina che gli starnazzava in mano restare senza coda. Poi un altro colpo, e la gallina restare senza un’ala. Era una gallina stregata, che esplodeva ogni tanto e gli si consumava in mano? Un altro scoppio e la gallina fu completamente spennata, pronta per andare arrosto, e pure continuava a starnazzare. Il tedesco che cominciava a esser preso dal terrore la teneva per il collo discosta da sé. Una quarta cartuccia di Giuà le troncò il collo proprio sotto la sua mano e lui rimase con la testa in mano che si muoveva ancora. Buttò via tutto e scappò via. Ma non trovava più sentieri. Vicino a lui s’apriva quel roccioso precipizio. Ultimo albero prima del precipizio era un carrubo e sui rami del carrubo il tedesco vide rampare un grosso gatto.
Ormai non si stupiva più di vedere animali domestici sparsi per il bosco e avanzò la mano per
accarezzare il gatto. Lo prese per la collottola e sperava di consolarsi a sentirlo far le fusa.
Ora bisogna sapere che quel bosco era da tempo infestato da un feroce gatto selvatico che
uccideva i volatili e talvolta si spingeva fino al paese nei pollai. Così il tedesco che credeva di sentir fare ronron, si vide precipitare il felino contro a pelo dritto e arruffato e sentì le sue unghie farlo a brani. Nella zuffa che seguì l’uomo e la belva rotolarono ambedue nel precipizio.
Fu così che Giuà, tiratore schiappino, fu festeggiato come il più grande partigiano e cacciatore
del paese. Alla povera Girumina fu comprata una covata di pulcini a spese della comunità.