sabato 18 ottobre 2025

Il lutto. Freud e Bowlby

Vittorio Lingiardi 
Perché il vuoto del mondo è quello dentro noi stessi

La Stampa, 18 ottobre 2025

Se tutto il resto perisse e lui restasse, io potrei continuare ad esistere; ma se tutto il resto durasse e lui fosse annientato, il mondo diverrebbe, per me, qualcosa di immensamente estraneo: avrei l’impressione di non farne più parte». Le parole d’amore di Catherine Earnshaw per Heathcliff – uno dei passi più celebri di Cime tempestose – spiegano molto bene cosa intende Freud quando scrive che «nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso». Anche questo è un passo celebre e lo leggiamo in Lutto e melanconia del 1917, uno dei suoi scritti più belli. È una frase che abita da sempre la testa di chi fa il mio mestiere perché contiene temi su cui non smettiamo mai di riflettere: la distinzione (e inevitabilmente la continuità) tra mondo interno e mondo esterno, il confine tra lutto e depressione, l’esperienza dello svuotamento psichico con il distacco dalla realtà e dalle relazioni che ne segue. Il mondo che diventa estraneo, come dice Catherine. Abbandono a malincuore le passioni di Emily Brontë per riassumere lo scritto freudiano. Il lutto, dice Freud, è la risposta naturale alla perdita di un oggetto d’amore (ma anche di un’ideale). L’individuo, pur soffrendo, riconosce la perdita e col tempo scioglie il legame libidico. È un processo che richiede lavoro psichico, il cosiddetto “lavoro del lutto”, grazie al quale la libido torna disponibile per nuovi legami. Il mondo torna libero e attraente. Nella melanconia, invece, qualcosa si inceppa. L’individuo non sa riconoscere ciò che ha perduto: la perdita è inconscia, ambigua, non accessibile all’elaborazione. L’oggetto perduto è dentro di sé, non è il mondo a essere vuoto, ma «l’Io stesso». Ma poiché la perdita suscita sentimenti ambivalenti, l’odio e la rabbia si rivolgono contro di Sé generando autosvalutazione e sentimenti d’indegnità e colpa. Nasce così, dice Freud, la vita psichica del malinconico, fatta di accuse e disprezzo verso di sé. In realtà sta accusando l’oggetto perduto, ma dentro di sé. È questa una delle strade che portano alla formazione di un Super-io critico e punitivo, ma per motivi di spazio non posso imboccarla.

Un salto di una quarantina d’anni ci porta a un’idea nuova di lutto e di perdita. A suggerirla è John Bowlby, medico ed etologo inglese, il cui approccio ha rivoluzionato il pensiero clinico in psicoanalisi. Il punto di partenza non è il conflitto intrapsichico, come in Freud, ma le conseguenze psicologiche della separazione dalla figura di attaccamento, cioè l’interruzione della relazione che nasce dal bisogno primario di sicurezza e protezione. Da qui la sua idea che la perdita sia uno dei traumi più profondi per l’essere umano. Nell’articolo del 1960 Dolore e lutto nell’infanzia e nella prima infanzia e poi nella trilogia Attaccamento e perdita, Bowlby descrive il lutto come un processo di adattamento alla separazione. Ma quando la perdita o la separazione avvengono in età precoce, le conseguenze sullo sviluppo della personalità durano un’intera vita e si ripercuotono sul sistema dell’attaccamento. Diventando prototipo di tutte le separazioni e le perdite future. Per Bowlby il lutto è un processo di trasformazione del legame, non la sua dissoluzione; un processo d’interiorizzazione e integrazione della perdita nella continuità della vita psichica. Nella loro radicale diversità, Freud così attento ai processi del mondo interno, Bowlby così rivolto agli eventi traumatici del mondo esterno, sono due anime della psicoanalisi che si sono a lungo fronteggiate e col tempo sembrano avere imparato a parlarsi. Da entrambi possiamo imparare qualcosa che ci aiuta ad attraversare il difficile territorio del lutto. Che, preparandomi ad affrontarlo, molti anni fa avevo descritto così: «Quando non c’è speranza di salvezza, dove la morte non porta compimento, lì cosa c’è, in che paese siamo? Quello è il dolore, e noi lo attraversiamo».

La distinzione tra lutto “normale” (un processo che permette di accettare e integrare la perdita) e lutto “patologico”, “complicato” o “prolungato” (dove il soggetto rimane bloccato nella protesta malinconica) è uno temi più controversi della diagnostica dei disturbi depressivi. Il clinico che usa il Dsm, cioè il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American psychiatric association, deve essere consapevole di un duplice rischio: da un lato psichiatrizzare il dolore, dall’altro trascurare forme di sofferenza bloccata o distruttiva che meritano un riconoscimento clinico. Senza dimenticare ciò che in modi diversi ci hanno insegnato Freud e Bowlby: il punto non è quanto soffriamo, ma quanto questa sofferenza è un ripetizione immobile e immodificabile.

Vuoto del mondo, dunque, e vuoto di sé. Ne parla Enid Balint in un articolo del 1963 partendo da un’osservazione linguistica: mentre esiste l’espressione “essere pieni di sé”, non esiste “essere vuoti di sé”. Uno stato psichico, invece, che dobbiamo conoscere ed esplorare, una forma di vuoto che tocca la struttura dell’essere e si manifesta come un’incapacità di sentirsi vivi, reali e riconosciuti come soggetti. Un vuoto che non è solo malinconia, ma disturbo precoce dell’esperienza del Sé, della sua coesione e del suo radicamento corporeo. Nasce dalle lacune dell’accudimento infantile, quanto il caregiver non risuona, non restituisce al bambino un’immagine coerente di sé. È la mancata interiorizzazione di un oggetto buono e calmante che diventa il “sentimento di vuoto” dell’esperienza borderline, il suo centro (dis)organizzatore, la forma clinica di una solitudine originaria. La dolorosa presenza dell’assenza. “Essere vuoti di sé” significa non essere stati restituiti a sé stessi da uno sguardo umano. Questo sarà il compito della terapia.

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