Bruno Montesano
L'antisemitismo ostaggio dell'agenda politica
il manifesto, 7 ottobre 2025
Valentina Pisanty, docente di semiologia all’Università di Bergamo, ha recentemente pubblicato Antisemita. Una parola in ostaggio per Bompiani. Il suo libro precedente era I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (2020), e così abbiamo iniziato la conversazione da lì.
Antisemitismo è una parola che rischia di diventare priva di significato a causa del suo abuso. Che nesso hai individuato tra l’inflazione della memoria della Shoah e l’ascesa dell’estrema destra?
Dopo la caduta del muro di Berlino, la Memoria è diventata un baluardo dell’identità occidentale, un feticcio intorno al quale radunare i pezzi sparsi di un’Europa a trazione atlantica. In assenza di un progetto politico comune, questa identità si è costituita attorno alla memoria del grande trauma della Shoah e, per estensione, dei crimini sovietici. A suggellare il trionfo delle liberaldemocrazie, il Mai Più ha assunto la funzione di monito per le generazioni future: non solo mai più discriminazioni, conflitti e violenze collettive, ma anche mai più ideologie e utopie capaci di mettere in discussione l’ordine vigente.
Quel Mai Più indefinito e universalistico avrebbe dovuto garantire la tutela di ogni minoranza, senza che fosse mai chiarito come. Si è diffusa l’illusione che ricordare i traumi del passato fosse di per sé un rimedio contro qualsiasi ingiustizia presente o futura. Ne è derivata una memoria sacralizzata, intoccabile, incentrata su un evento il cui ricordo, nonostante la sua presunta universalità, andava protetto dalle comparazioni sacrileghe. A vigilare su questa intoccabilità sono emersi i “guardiani della memoria”, coloro che parlano a nome delle vittime e che si arrogano il diritto di stabilire quali altri eventi possano essere paragonati alla Shoah. Ogni paragone, a sua volta, attivava un senso di emergenza e di necessità di azione istantanea.
Negli ultimi 30 anni le istituzioni della memoria americane ed europee si sono progressivamente allineate rispetto all’agenda delle destre israeliane al governo. La lotta contro l’antisemitismo è stata strumentalizzata per delimitare il perimetro del discorso legittimo. Il nemico non è più l’antisemitismo come forma specifica di razzismo, ma l’antisionismo, definito come presunta metamorfosi dell’antisemitismo storico. Da qui la costruzione, a tavolino, della categoria di “nuovo antisemitismo”, progressivamente adottata dalla maggior parte dei governi occidentali (in Italia lo mostrano i disegni di legge di Lega e Italia Viva, che chiedono di incorporarla nel nostro ordinamento).
È questo il vero cambio di paradigma: dal Mai Più universale a un Mai Più ultra-particolaristico, promosso da molti fautori delle attuali politiche della memoria. Si tratta dello stesso Mai Più del sionismo ultranazionalista di Meir Kahane, teorizzato nel pamphlet del 1971 Never again! A program for survival. Un Mai Più ristretto ai soli ebrei – identificati in blocco con Israele e con le sue destre etnonazionaliste – che finisce per innestarsi e parassitare quello universale.
Ma come spiegarsi il rapporto con l’estrema destra europea?
Un altro aspetto è quello dello scambio di favori. Israele dispensa patenti di innocenza sul piano dell’antirazzismo a chiunque si faccia fotografare davanti a Yad Vashem e condanni gli attuali nemici dello “Stato ebraico”. In cambio, gli esponenti dell’estrema destra, una volta tornati a casa, possono schermarsi dalle accuse di chi ricorda loro il passato – o anche il presente – razzista e antisemita, come mostra il mito di Soros di cui sono i principali spacciatori. Ma tra le destre mondiali e quella israeliana non c’è soltanto un do ut des. Esiste anche una forte convergenza di vedute, fondata su islamofobia, nazionalismo esasperato e militarismo. Israele è diventata il sogno delle destre mondiali.
Però gli ebrei son stati vittime reali: quale è la distinzione tra vittima effettiva e uso vittimario dell’essere stati vittime?
Su questo rimando a Critica della vittima di Daniele Giglioli: la distinzione è quella tra vittima in quanto tale e vittima come ruolo enunciativo. La vittima reale ha diritto di essere tutelata finché è vittima. Ma non dovrebbe avere, in virtù del proprio passato, titoli in più rispetto ad altri in una disputa politica. Aver subito violenze non la rende più competente su come si esca da conflitti, né le sue ragioni devono prevalere su terzi in un momento diverso da quello in cui ha subìto la vittimizzazione.
La critica si estende all’identity politics in generale quindi?
Sì, il titolo di vittima è diventato un lascito che si trasmette da una generazione all’altra. Se gli effetti della vittimizzazione passata perdurano nel presente, è indubbio che si debba fare di tutto per porvi fine. Ma una cosa è ricostruire la genealogia che permette di capire perché è così difficile sradicare un pregiudizio di cui si è stati – e si è tuttora – vittime. Altra cosa è trasformare quella condizione in una risorsa da spendere sulla scena pubblica, per affermare una primazia tra le vittime o per rivendicare diritti o licenze speciali. In questo senso le politiche dell’identità sono state nocive.
La memoria è forse l’esempio più evidente di una tendenza generale a coltivare l’eccezionalità del proprio trauma, anziché elaborarlo e superarlo, così da riacquistare fiducia nell’umanità e rientrare nel flusso ordinario della storia. Spesso mi viene chiesto che cosa si debba fare per “salvare la memoria della Shoah”. Ma la memoria non è un patrimonio da preservare in quanto tale, se non forse per chi fonda la propria identità di gruppo sul ricordo soggettivo di quegli eventi. È piuttosto uno strumento al servizio della comprensione delle dinamiche passate, utile a riconoscere e combattere situazioni per certi versi analoghe nel presente.
Nell’attacco del 7 ottobre, oltre alla rabbia anticoloniale c’era anche una dimensione antisemita – stando ad esempio alla nota carta di Hamas, pur se emendata?
Non credo c’entri tanto il pregiudizio razzista, quanto un’indebita sovrapposizione tra israeliani ed ebrei. Non so se coloro che il 7 ottobre sono andati ad ammazzare la gente fossero propriamente antisemiti: di certo odiavano Israele e non operavano distinzioni, anche perché in quel contesto “israeliani” ed “ebrei” tendono a essere usati come sinonimi. È in questa confusione che talvolta la retorica araba contro Israele si è lasciata contaminare con motivi tipici dell’antisemitismo europeo, come pietre da scagliare alla rinfusa. Mi aveva colpito un’intervista ad Abu Mazen negli anni ‘90, durante il processo di pace, in cui, quando gli avevano rimproverato la sua tesi di dottorato negazionista del 1982, aveva risposto che ora non avrebbe più scritto quelle cose, ma allora servivano perché gli ebrei erano i suoi nemici.
Per questo è fondamentale separare antisemitismo e antisionismo. Il primo è un razzismo, il secondo una posizione politica. Certo ci possono essere sovrapposizioni: capita che qualcuno, nel criticare il sionismo, ricorra a stereotipi antisemiti, oppure che un antisemita si camuffi dietro la legittimità politica dell’antisionismo. Ma non è la norma. Nei discorsi anti-israeliani diffusi in Europa prevale spesso un’avversione viscerale che non nasce dall’antisemitismo, ma da altre matrici, come l’antimperialismo o l’antiamericanismo. Proprio per evitare che questa ostilità degeneri in antisemitismo, è necessario mantenere chiare le distinzioni. Distinzioni che vengono invece sistematicamente oscurate da molti rappresentanti istituzionali delle comunità ebraiche, i quali tendono ad assimilare Israele ed ebrei, per esempio affermando che chi dissente non è un vero ebreo. E purtroppo, nei media, la loro voce trova molto più spazio di quella di realtà alternative come il Laboratorio Ebraico Antirazzista o Mai Indifferenti.
Come interpretare omicidi di ebrei, come quelli negli Usa o a Manchester, in un contesto in cui atti come scritte su Israele fuori da sinagoghe sono percepiti come ancora più gravi a causa del trauma intergenerazionale dell’ebraismo?
Sono atti antisemiti nella misura in cui colpiscono gli ebrei in quanto tali, e non per le loro posizioni politiche. Antisemitismo significa negare che gli ebrei non coincidono con Israele, così come neppure gli israeliani costituiscono un blocco monolitico; significa attribuire responsabilità a qualcuno unicamente perché è ebreo o israeliano, come se il suo pensiero fosse determinato da una tara innata. Oggi però vanno distinti due livelli: il primo, prioritario, è la violenza assassina a Gaza e in Cisgiordania, che va fermata con urgenza. Il secondo è il pericolo che commenti antisemiti si traducano in azioni concrete, violenza che pure va contrastata.
Il trauma di seconda generazione può amplificare la percezione di parole o situazioni, perché porta ad applicare lo schema della violenza subita a contesti diversi. Ma questa percezione andrebbe superata, non coltivata: al contrario, le politiche della memoria hanno avuto lo scopo di tenere aperta la ferita.
L’accusa di nazismo è una sorta di oggetto del contendere che viene scambiato tra i due lati: Israele dice ad Hamas che sono nazisti, alcuni che supportano la Palestina sostengono che Israele sia nazista. Come mai secondo te?
L’accusa incrociata di nazismo è una costante di ogni conflitto da quando la Shoah è stata eretta a paradigma universale. Di certo non è mai utile alla risoluzione: paragonare qualcuno a Hitler equivale collocarlo nel ruolo di Nemico Assoluto, con cui ogni compromesso è escluso e ogni misura, difensiva o aggressiva, appare legittima. L’impatto emotivo varia, certo: per gli ebrei tale accusa comporta un sovrappiù di offesa. Tuttavia, dal punto di vista logico, non si può dire che una reductio ad Hitlerum sia razzista se rivolta a un ebreo, e neutra in tutti gli altri casi.
Cosa pensi dell’accusa di doppio standard legata al boicottaggio, ossia che con altri regimi colpevoli di violazioni di diritti umani non si faccia nulla – Russia esclusa?
Non esiste un altro paese a cui sia stata concessa tanta indulgenza quanto a Israele: sul piano governativo il doppio standard non è contro, ma a favore di Israele. Certo, è naturale che ci sia un’attenzione diversa rispetto, ad esempio, alla Somalia: Israele viene presentato come l’avamposto dell’Occidente in Medio Oriente, come democrazia, e nei suoi confronti abbiamo una responsabilità particolare, dato che lo armiamo e lo sosteniamo ben di più di quanto non facciamo con la Somalia. È normale che ci si interroghi più a fondo sui crimini israeliani che su quelli di altri paesi. Dal proprio alleato ci si aspetta be altro che da un attore lontano.
Ma c’è un ulteriore aspetto da considerare. La memoria che Israele strumentalizza a fini bellici è la stessa con la quale siamo stati educati a identificarci. Il contrasto tra il messaggio di pace universale associato a quella memoria e il suo uso per giustificare operazioni militari di violenza inaudita è talmente stridente da generare, inevitabilmente, una reazione.
Puoi spiegare la differenza tra definizione di antisemitismo Ihra (The International Holocaust Remembrance Alliance) del 2016 e Jerusalem Declaration del 2020?
La definizione Ihra nasce con l’intento dichiarato di offrire uno strumento utile a monitorare quelle forme fenomeni più sottili di antisemitismo che talvolta si celano dietro la retorica antisionista. Nella pratica, però – anche grazie a una serie di accorgimenti linguistici, come la sostituzione del modo dubitativo (“potrebbe costituire un episodio di antisemitismo…”) con quello assertivo (“è antisemitismo”) – si è trasformata in un dispositivo che tende a far coincidere antisionismo e antisemitismo.
Molti dei casi elencati tra le possibili fattispecie antisemite coincidono infatti con luoghi comuni o argomenti tipici della retorica antisraeliana e antisionista. Non è un caso. Lo scopo politico di questa definizione – silenziare le critiche più accese a Israele – è evidente a chiunque si occupi di questi temi. Ecco perché diversi studiosi hanno sentito la necessità di elaborare un correttivo: la Jerusalem Declaration (Jd).
Se la Ihra, infatti, è stata rapidamente adottata da numerosi governi occidentali, a cominciare da quello degli Stati Uniti, occorreva uno strumento capace di ripristinare la distinzione tra antisemitismo e antisionismo. La Jd svolge questa funzione, ma è rimasta un discorso accademico. Il muro istituzionale e giornalistico che protegge la Ihra è pressoché invalicabile. Il merito principale della Jd è affermare che la linea di confine tra discorso ragionevole e irragionevole non coincide con quella tra discorso antisemita e non antisemita. Si può essere irragionevolmente ostili a Israele senza per questo essere antisemiti. E poiché il dibattito politico è fatto anche di posizioni parziali, radicali o irragionevoli, e il suo scopo è per l’appunto di stabilire cosa è ragionevole e cosa non lo è, non è legittimo escludere a priori un’intera parte della discussione.
In Antisemita. Una parola in ostaggio scrivi che il problema è nel “manico”, cioè nel definire cosa è accettabile e cosa no in modo rigido. Però come si possono contrastare i discorsi d’odio senza delle definizioni?
Attraverso thin definitions e thick descriptions: con definizioni leggere e interpretabili, con cui cercare, di volta in volta, di capire quali siano gli elementi in gioco per poter valutare se un discorso sia razzista. La rigidità dei criteri trasforma la definizione in strumento di censura, al servizio di chi ne detiene il monopolio.
Insisto: l’antisemitismo non è un pregiudizio “unicamente unico”. È una forma di razzismo rivolta contro gli ebrei, e va contrastata come si contrasta ogni altro razzismo. Ogni forma di razzismo ha le proprie specificità, a seconda dello stereotipo che si mobilita, ma gli strumenti di tutela devono essere gli stessi. Occorre quindi tornare a ragionare in termini generali: il razzismo è discriminazione basata sull’attribuzione di tratti indelebili a un gruppo. Lo stereotipo denigratorio può riguardare la presunta perfidia cospirativa giudaica oppure la presunta inferiorità dei popoli sfruttati e colonizzati. Entrambe le forme di razzismo, però, possono portare al genocidio, come la storia ha dimostrato.

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