Massini: "Trump è la nostra epoca"
Avvenire, 21 ottobre 2025
Massini, “Donald” apre idealmente una trilogia sul potere?
«Non proprio. I miei tre spettacoli (quest’anno Donald, l’anno prossimo Lo zar su Putin e poi quello su Xi Jinping) sono indipendenti, ma sì, parlano tutti di potere. Mi interessa capire come un singolo individuo riesca a incarnare la febbre di un’epoca. Quando decisi di lavorare su Trump, mai avrei pensato che, un anno dopo, il “trumpismo” sarebbe riesploso con tale forza. È quasi inquietante vedere quanto la realtà insegua la scena».
Si riferisce a episodi come la recente idea dell’arco di trionfo dorato a Washington?
«Esattamente. Pochi giorni fa ha mostrato i modellini di questo monumento alla stampa. Se lo avessi scritto io, mi avrebbero accusato di esagerazione. Per questo ho aggiunto un prologo allo spettacolo: dico al pubblico che tutto quello che sentirà è vero, documentato. Sembra inverosimile, ma ogni parola, ogni gesto, è stato raccontato da lui. Quella di Trump è una mitologia che si costruisce da sola, un processo di auto-narrazione che diventa mito collettivo».
È un personaggio che rappresenta il suo tempo o che lo ha generato?
«Entrambe le cose. È la creatura e al tempo stesso il demiurgo dell’epoca in cui viviamo. La politica non nasce mai nel vuoto: è il riflesso del corpo sociale. E questo vale anche per lui. Quando racconto figure come Trump o come Hitler in Mein Kampf, il pubblico spesso si irrigidisce: è più rassicurante pensare che il male abiti in un solo individuo. Ma il successo di questi uomini nasce da un riconoscimento, dal fatto che milioni di persone vedono in loro qualcosa di sé».
Cosa intende quando definisce Trump un “venditore di felicità”?
«Racconto nello spettacolo di quando, la prima notte nell’attico della Trump Tower nel 1983, si affacciò e vide gli uomini minuscoli come formiche. Disse: “Io vi prometto la felicità”. Lì c’è il suo vero prodotto. Non vende immobili, ma sogni. Come i grandi imprenditori simbolici del nostro tempo, non offre beni ma emozioni. E noi, le “formiche”, siamo complici, perché abbiamo bisogno che qualcuno ci prometta la felicità. È un meccanismo terribile e affascinante: non è solo lui, siamo noi».
Nel suo racconto la risata gioca un ruolo centrale. Il pubblico ride, ma poi si scopre coinvolto.
«Sì, perché all’inizio lo spettatore si diverte. Racconto episodi grotteschi del piccolo Donald: il bambino che truffa i compagni comprando banconote da 10 dollari a due dollari, l’adolescente che sogna di uccidere Frank Sinatra. Ma man mano che cresce, la risata si fa amara. Quando arrivo a citare le sue “dieci regole per conquistare le donne”, con quell’espressione indegna – “il sublime business del rimorchio alla bionda” – la sala continua a ridere, ma in modo diverso. Lì scatta qualcosa. Quella risata diventa consapevolezza».
Nella seconda parte lo spettacolo cambia tono anche visivamente.
«La scenografia, che all’inizio è neutra, comincia a trasformarsi, a impazzire: insegne, luci, scritte, flipper, fino a un’esplosione di oro e bulimia visiva. È l’apoteosi dell’eccesso, della fame insaziabile. Trump è l’uomo che non conosce il limite, che rilancia sempre. E mentre tutto si fa più grande e luminoso, il racconto si oscura. È lì che il teatro torna alla sua funzione originaria».
Il Trump che lei racconta si ferma prima della presidenza. Perché questa scelta?
«Perché mi interessava la genesi, non la cronaca. Mi fermo al momento in cui capisce che la politica può diventare la sua nuova impresa che lo salverà dalla bancarotta. È affascinato da Abramo Lincoln, che da giovane era un lottatore di wrestling: per lui quella è la chiave, il passaggio dal ring alla tribuna. Capisce che il potere è uno show. Il reality The Apprentice, di cui era protagonista, in fondo, è la più lunga campagna elettorale della storia americana: tredici anni di televisione per costruire l’immagine dell’uomo che decide, che vince, che non sbaglia mai».
Trump come simbolo della polarizzazione contemporanea?
«Assolutamente. I social hanno trasformato la comunicazione in un’arena di schieramenti: ti seguo o ti cancello, ti metto il like o ti elimino. Non c’è più dialogo, ma appartenenza. Trump incarna perfettamente questo meccanismo: o sei con me o contro di me. È l’espressione politica di un linguaggio ormai quotidiano. In questo senso non è solo un politico, ma una metafora dell’Occidente connesso e diviso».
Il pubblico è affascinato dal suo tono che resta leggero, quasi da cantastorie, anche quando parla di temi terribili.
«È una scelta precisa. La leggerezza è una trappola: permette di far passare il pensiero senza che te ne accorgi. Se dicessi tutto con toni drammatici, lo spettatore si difenderebbe. Ma se lo racconto con un sorriso, quelle parole gli entrano sotto pelle. È lo stesso meccanismo che usavo in Lehman Trilogy: la leggerezza come veicolo del tragico».
“Donald” è lo spettacolo di punta del Teatro della Toscana, di cui lei è direttore artistico, che è stato declassato da teatro nazionale trovandosi al centro di polemiche politiche. Come le vive?
«Con dispiacere, ma anche con serenità. In Toscana le recenti elezioni regionali hanno accentuato la tensione e qualcuno ha voluto colpire me, ma in realtà ha colpito Firenze, una città che è un simbolo culturale mondiale. Ma resta la risposta del pubblico: Donald è sold out ovunque, e tornerà al Piccolo l’anno prossimo. Questo, più di tutto, mi commuove. La prossima stagione del Teatro della Toscana sarà una stagione che vuole aprirsi, includere, respirare. Ci sono registi che non la pensano come me, e questo è un bene. C’è Shakespeare accanto a Cechov, Pirandello accanto al teatro contemporaneo, tutto quello che deve esserci in un teatro pubblico.

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