mercoledì 15 ottobre 2025

Medio Oriente, la fragilità del nuovo paradigma


Alessia Melcangi
Quanto è lontana l'alba del nuovo Medio Oriente

La Stampa, 15 ottobre 2025

Così come c’è un prima e un dopo il 7 ottobre 2023, probabilmente  racconteremo anche di un prima e un dopo Sharm el-Sheikh 2025. Il piano di pace ideato da Donald Trump e firmato sulla costa del Sinai non è solo l’epilogo (almeno così si spera) di una stagione di guerra, ma si candida a diventare l’inizio di una geografia politica nuova, una mappa che ridisegna i rapporti di potere nel mondo arabo-musulmano.

Non è solo un’intesa tecnica, un foglio di tregua: la firma dell’accordo potrebbe segnare l’inizio di una nuova architettura di relazioni, un cambio di paradigma del quale si sancisce il riconoscimento di un policentrismo che vede i Paesi della regione quali protagonisti indiscussi e consapevoli del loro ruolo. Infatti, a imprimere forza a questo passaggio non è stata soltanto la presidenza degli Stati Uniti, che rivendica il merito principale dell’iniziativa, ma anche un ampio fronte di Paesi arabi e musulmani — Arabia, Emirati, Qatar, Egitto, Giordania, Turchia, Pakistan e Indonesia — che hanno intensificato gli sforzi diplomatici a sostegno del piano in venti punti per il futuro della Striscia di Gaza. I Paesi arabi non si mostrano più allineati in blocchi ideologici, ma in orbite di convenienza, timore e opportunismo mentre l’Occidente prova a riposizionarsi in un Medio Oriente inascoltato che inizia a non avere più bisogno del suo consenso. Un mosaico di potenze che si osservano e provano a riprendere il filo di quella normalizzazione dei rapporti che già prima del 7 ottobre aveva portato attori da sempre sulle barricate a riparlare di rapporti diplomatici, accordi bilaterali di sicurezza, scambi commerciali.

A Sharm è andato in onda un concerto regionale, un’inedita e forse unica coralità di interessi per la prima volta trasformatasi in azione politica con un chiaro tornaconto: ognuno ha ottenuto, almeno al momento, un “posto al sole” nella trama di interessi e conflittualità che caratterizzano il Medio Oriente. Egitto e Giordania hanno consolidato la loro traiettoria verso un pragmatismo di sicurezza, meno ideologico e più funzionale alla stabilità interna. In particolare, per il padrone di casa, il Cairo, che da tempo cerca di posizionarsi come mediatore primario del conflitto israelo-palestinese, si è trattato di riaffermare il proprio ruolo centrale nella regione e ottenere legittimità politica e diplomatica. Ankara, dopo anni di isolamento, è rientrata a pieno titolo nel tavolo negoziale, non più come attore destabilizzante: intensifica relazioni economiche con il Golfo, ricuce con l’Egitto, si offre come ponte logistico per la ricostruzione di Gaza, un capitale geopolitico che Israele ha dovuto accettare.

Allo stesso modo, le monarchie del Golfo — Arabia, Qatar, Emirati — sostengono finanziariamente la missione di ricostruzione della Striscia, ma puntano a esercitare influenza politica e diplomatica, dando forma a un nuovo equilibrio nel quale la Penisola non appare più come semplice spettatrice ma regista. Gli Emirati, felici di capitalizzare il proprio attivismo, si propongono come protagonisti di un nuovo ordine che passa per la logistica, i flussi energetici e le tecnologie di sicurezza condivisi, così come l’Arabia guarda alla creazione di un ordine regionale stabile e integrato senza più minacce iraniane. Allo stesso modo il Qatar, a lungo visto come rifugio per i movimenti radicali, sfrutta il nuovo clima per un salto di legittimitàda sponsor ambiguo a interlocutore necessario, capace di mediare, e alleato politico-militare imprescindibile per Washington.

E mentre la Siria prova a ricostruirsi un’immagine con i nuovi governanti illuminati (ma ex qaedisti), e il Libano, dopo decenni di paralisi e collasso statale, sfruttando la debolezza di Hezbollah, ripristina la propria sovranità, l’Iran, ferito e isolato, osservaIsraele resta il nodo più fragilediviso al proprio interno, sospeso tra l’ultradestra e una parte del Paese che teme il collasso morale e politico di una democrazia minata da tensioni identitarie. La destra estrema continua a esercitare pressione, ma il cessate il fuoco e la restituzione degli ostaggi hanno aperto una breccia, un possibile ritorno alla razionalità politica. E, aspetto da non dimenticare: gli Stati che un tempo consideravano Israele un potenziale partner, comprese le monarchie del Golfo, ora lo percepiscono come un attore pericoloso e imprevedibile e si mostrano riluttanti ad accettare i costi politici e reputazionali di una possibile collaborazione. L’orizzonte che emerge è quello di un Nuovo Medio Oriente 2.0, una regione che si allontana dai conflitti e si dirige verso una pace transazionale costruita sulla stabilità. Il piano di pace americano ha agito da detonatore, ha posto le basi per un’architettura di contenimento e cooperazione avviata da una necessità urgente e ineludibile, quella di fermare la guerra a Gaza e, dunque, l’instabilità regionale.

Ma il nuovo assetto ha ancora basi fragilissime. Questo è un momento di pericolo e opportunità. Tale visione non potrà prescindere dai nodi politici irrisolti e la questione palestinese resta la cartina di tornasole: se non sarà affrontata in modo positivo, concreto, condiviso, rischia di essere il tallone d’Achille di ogni nuova architettura. Se lo Stato palestinese rimane parola vuota, se i confini territoriali non restituiranno il diritto all’autodeterminazione di un popolo, la pace diverrà un armistizio decisamente instabile.

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