domenica 25 giugno 2023

Il golpe di Prigozhin





Lorenzo Santucci, Anna Zafesova: "È un golpe in piena regola. E comunque vada Putin ne uscirà malissimo", Huffpost, 24 giugno 2023

“I media italiani fanno fatica a chiamare le cose con il loro nome. Quello in corso è un golpe”. La giornalista Anna Zafesova, intervistata da Huffpost, va dritta al punto. Nel momento in cui venticinquemila uomini armati fino ai denti occupano una città da un milione di abitanti, crocevia fondamentale per le operazioni in Ucraina e per il controllo della Russia meridionale, chiamarla in modo diverso sarebbe riduttivo. Per questo, comunque andrà a finire, Vladimir Putin ne uscirà con le ossa rotte. Di fronte qualsiasi esito, l’immagine dello Zar sarà fortemente indebolita perché, che lo si voglia credere o meno, il tentativo di colpo di Stato è reale. Quindi, fuori dal suo controllo. Le variabili per il suo successo sono tante e, di conseguenza, potenzialmente difficili da concretizzarsi. Una cosa è certa: quello che sta accadendo sul territorio russo avrà inevitabili conseguenze su quello ucraino.

Anna Zafesova, a questo punto la domanda è come si posizionerà l’esercito, se con Putin o contro di Putin. Può essere l’ago della bilancia?
Credo che la vera chiave siano i servizi segreti e il cerchio magico putiniano. Abbiamo già visto che l’esercito non ha gran voglia di combattere. Un conto è farlo per la Russia in Ucraina, dove già lo fanno non di buon grado, un conto per un’apparente faida tra Prigozhin e Shoigu. Per di più, sul loro territorio. Secondo me sarà più interessante vedere dove si schiereranno i poteri forti, per utilizzare un termine italiano. E poi, quale esercito? È vero che nella storia russa i colpi di Stato sono stati portati avanti anche da piccoli gruppi militari, ma Putin dovrebbe richiamare soldati dall’Ucraina per fermare la Wagner, sguarnendo così il fronte. A meno che non voglia bombardare le proprie città: uno scenario che, oltre a essere inquietante, non so dove possa portarlo.

Che significato assume la presa di Rostov?

Si tratta di un esercito che è entrato in una città chiave per controllare il sud della Russia e il Caucaso, oltre che per la guerra. Inizialmente, alcuni l’hanno confusa con la Rostov che si trova a nord – distano circa 1.500 km l’una dall’altra, ndr – ma non è la stessa cosa. Mentre quella è paragonabile con la cittadina italiana di Orvieto, in questo come è come prendere Torino. Qui si controlla il Sud della Russia.

C’è chi crede che sia tutto organizzato.

I media italiani hanno fatto fatica a chiamare le cose come stanno: è un golpe. Possono esserci analogie con quello architettato da Recep Tayyip Erdogan, ma la differenza è che il presidente turco aveva ed ha un’opposizione organizzata, mentre Putin no. Per lui non c’è bisogno di un casus belli per dichiarare, ad esempio, la legge marziale o licenziare Shoigu. Tutto questo si poteva organizzare a freddo o con un omicidio clamoroso, come già fatto in passato. Non c’era bisogno di creare una rivolta armata, che distrugge la sua immagine anche se riuscisse a domarla.

Alcune notizie parlano di una fuga di Putin. È uno scenario già così realistico, dopo appena poche ore dall’inizio del colpo di Stato?

Tutto è possibile, dal movimento degli aerei privati possiamo capire quale sarà l’esito. Nella notte abbiamo visto decollare l’aereo di Lukashenko, ma non sappiamo se fosse a bordo. Nexta – l’agenzia di stampa che copre l’est Europa, ndr - riferiva che Putin era partito per San Pietroburgo. Magari questo volo non trasportava lui ma forze speciali. A prescindere non so quanto sia una buona idea, visto che è la città natale sia di Putin sia di Prigozhin. Sarebbe meglio rifugiarsi altrove.  

Come ne uscirà?

Putin ne esce malissimo in qualunque caso. Mettiamo il caso che Prigozhin arrivi a Mosca, Putin è morto almeno politicamente. Se invece riuscisse a fermarlo, ha avuto comunque un golpe in casa. Anche perché Prigozhin è il frutto del sistema putiniano, ovvero la sostituzione dello Stato con una corte. È un ex criminale diventato ricco grazie agli appalti ricevuti, che si è costruito il suo esercito di galeotti perché Putin ha avuto l’idea geniale che un esercito privato potesse aiutarlo.

Intende dire che fidarsi e lasciargli troppo potere, alla fine, non è stata una mossa astuta.

Ha fatto uscire il genio dalla lampada e poi gli ha chiesto di rientrare. È impossibile. Non poteva immaginare che sarebbe rimasto tutto sotto il suo controllo. Nel caso in cui dovesse riuscire a eliminare Prigozhin, quindi scatenando una guerra civile, ne uscirà tremendamente indebolito.

E se fosse Prigozhin a fermarsi?

Anche se il capo della Wagner si rendesse conto di non avere le forze e vorrà tenersi Rostov per trasformarla in una Repubblica dei pirati, uno scenario che rimane plausibile, Putin non avrebbe problemi morali a bombardare una sua città. Non so tuttavia quanto lo voglia l’esercito.

Le lancio una provocazione. E se dietro tutto questo ci fosse lo zampino dell’Occidente, che ha soffiato sul fuoco delle divisioni interne per rovesciare il regime di Putin?

Ne dubito. Forse Prighozin qualche contatto lo ha anche cercato, ma credo con più probabilità che si sia sentito con Kiev. Questo è più probabile. Se vuole andare a Mosca, deve inevitabilmente sentire i nemici della Russia. Le sue parole di ieri sulle falsità della guerra propagandate dal ministero della Difesa, ma soprattutto sul falso motivo per cui Mosca ha lanciato l’invasione, lasciano intendere che prima di affermare cose del genere si sia confrontato con gli ucraini. La loro posizione ufficiale è che più la Russia si indebolisce, più gli conviene. Ora non possono non approfittarne. E poi c’è un altro elemento che mi porta a dire che c’è stato un contatto tra Prighozin e Kiev.

Quale?

Pochi giorni fa c’è stato un attacco di droni alle porte di Mosca, di cui si è parlato poco perché ormai sono ordinaria amministrazione fin quando non colpiscono un bersaglio. Ma questi in particolare sembravano diretti contro la base della divisione carrista dell’esercito russo, quella che normalmente interviene nel caso di un golpe a Mosca. Mi chiedo: è una coincidenza che rientra nella logica della guerra o un tentativo di mettere fuori gioco la più probabile linea di difesa nel caso di un colpo di Stato? Per Kiev è naturalmente un’opportunità. La domanda è se stanno guardando ciò che accade con i popcorn in mano o se ci sia qualcosa di più su un loro coinvolgimento.


Marco Di Giovanni

Close to the edge
Non tentativi di previsione – acrobatici - ma messa a punto dello scenario
Quella di Prigozhin si racconta e si presenta come una rivolta dei combattenti, traditi dalla corruzione di – almeno alcune parti – del sistema. Si alimenta dell’orgoglio ferito nazionalista ma può raccogliere mille altri orientamenti.
Parte da un conflitto crescente con l’apparato militare che Putin aveva rimesso formalmente, da ottobre, alla guida della disarticolata catena di comando originaria della Operazione militare speciale. La contraddizione si pone di fronte a un attore semi-privato che incarna una funzione di supplenza alla mancata mobilitazione statuale sul piano del reclutamento di massa. Non una classica compagnia alla Blackwater, come taluni improvvidi suggeriscono, dimenticando lo scenario della Federazione, dove ancora vige la prestazione di leva.
Affidarsi ai privati su basi di massa in questo scenario significa delegare un ruolo di peso notevole. Peso accresciuto dal ruolo operativo preponderante che è stato lasciato alla carne da cannone di Wagner nelle spinte offensive invernali, costosissime ma prive di sbocchi. Promesse che alimentano una diffusa frustrazione combattentistica.
Il processo di “reinquadramento” che le norme stringenti imposte dallo Stato maggiore russo prevedevano per il 30 giugno hanno portato alla rottura di una corda da tempo assai tesa. Si è aperta la strada ad una ribellione che non nega di per sé la guerra, ma se mai ne denuncia la approssimativa conduzione, rivelatrice di anni che hanno, come spesso avviene nelle autocrazie, divaricato i fatti, le effettive disponibilità e capacità, dalle roboanti rivendicazioni di potenza.
Delusione nazionalista allora. Non Mussolini e la marcia su Roma, allora (i soliti improvvidi), ma una sorta di Principe Borghese che riarticola ambizioso la sua Decima Mas per proseguire la guerra contro il tradimento e/o chiudere i conti con i traditori. Le due cose non si escludono.
Su questo l’Ucraina riflette e osserva, pronta a cogliere le occasioni (che richiedono tempi operativi a valle di una disarticolazione eventuale, ancora da materializzare, del dispositivo difensivo russo). Ma osservare anche il profilo che assumeranno gli attori sul piano politico, evitando, con azioni azzardate, una possibile onda di ricompattamento patriottico.
Di fronte alla crisi dell’estate del 1917 - Kornilov, il governo Kerenskij, il dualismo con i Soviet - la Germania imperiale sospese la sua spinta, con la sola eccezione dell’offensiva sperimentale di Riga, in attesa che i frutti di una guerra insostenibile per la Russia e del conflitto tra le diverse alternative si materializzassero.
Il tempo della nostra età è denso ma necessita comunque di venire elaborato.
 



mercoledì 21 giugno 2023

La stanza assente


Lucia Annunziata, I personaggi, La Stampa, 21 giugno 2023 

Le parole che hanno toccato più da vicino la ferita le ha pronunciate Peppe Provenzano, primo Cavaliere della Segretaria, uno dei non molti pontieri fra l'ieri e l'oggi del Pd. «Non mi sono mai piaciuti i caminetti, ma dobbiamo trovare luoghi dove maturino democraticamente le decisioni. La comunicazione viene dopo la politica. Dobbiamo guardare al mondo fuori da noi, ma la nostra comunità è un patrimonio di cui prenderci cura».
Una ammissione: nel Pd manca persino un luogo fisico in cui ritrovarsi, passarsi informazioni discutere magari litigare e magari ricomporre. «Il mondo fuori da noi» e la comunità «di cui prendersi cura», «la comunicazione» che «viene dopo la politica»: è il ritratto di una famiglia che vive separata in casa, di una forse rispettosa, ma disfunzionale convivenza, fra due lontananze, due diversi mondi.
La direzione del Pd attesa, rimandata, rimandata ancora, non è stata alla fine così aggressiva come molti avevano anticipato. Ma il processo alla Segretaria che nominalmente tutti volevano evitare, è stato celebrato – paradossalmente negandolo. Rassicurando la Segretaria della massima cooperazione, infatti, ogni intervento ha finito con il sottolineare, nella rassicurazione, il fronte dello scontento. Schlein a sua volta non ha taciuto – rispondendo con un non meno vigoroso prendere o lasciare. Sono qui, cioè in codice affermando di avere ogni intenzione di vender cara la pelle: «Basta con il logoramento del leader, non funzionerà, io sono qui e ci resto».
A dispetto dei toni, un duello ieri si è dunque aperto. Ma intorno a cosa? Intorno a quali forze, quali orientamenti? Certo non se stare o meno con il M5s, che è una scelta solo tattica, considerata la variabilità delle posizioni del M5s; e nemmeno sulla questione delle armi all'Ucraina, che per quanto drammatica non è ancora diventata ragione di scelte concrete, dunque di rottura interna.
Al fondo della difficoltà del Pd sembra esserci piuttosto il fatto che sotto lo stesso nome vivano in questo momento due esperienze, che hanno in comune molto poco in termini di identità: un movimento, quello di Schlein, derivante da un voto vasto ma esterno al partito; e un partito che possiede le chiavi di una immensa eredità di un secolo finito.
Questo è il punto di frizione. E lo si vede in tutto, nel linguaggio, nelle sensibilità, nella differente lista di interessi e obiettivi politici. Differenza che si proietta anche nella scelta delle parole, e, soprattutto, nello sguardo sulla realtà.
Ovviamente questo doppio corpo politico non ha solo svantaggi, anzi. La elezione di Elly Schlein è stata per molti versi trainata dall'effetto sfondamento della elezione di una donna come Presidente del Consiglio. Ho, personalmente, pochi dubbi sul fatto che Schlein avrebbe avuto la stessa forza competitiva se dall'altra parte ci fosse stato un uomo. La elezione del capo del governo ha innescato un traino imitativo positivo e prodotto quello che si potrebbe chiamare un effetto specchio. Per quanto diverse, infatti, le due leader in comune hanno un tipico tratto delle politica al femminile – un forte movimentismo fondato sul valore dimostrativo della persona. Entrambe sono continuamente in questo luogo o quello, in quella visita o l'altra, segnando con la propria presenza il termometro degli accadimenti, spesso, molto spesso inseguendosi – Cutro, Emilia Romagna, Parlamento, sfilate per i grandi viali di Roma (la premier per la festa della Repubblica, in un tripudio di aerei con scia tricolore, e mostrine militari; la Segretaria per la festa dei diritti, in un tripudio di abbigliamenti colorati). Entrambe in maniera molto femminile, secondo lo stile delle nuove donne leader in questo primo scorcio di secolo, elaborando la presenza con un misto di emozioni, sentimenti, abbracci e decisionismo politico, inclusa una sicura inclinazione al controllo. Due figure di donne molto moderne. Intorno a cui già si vedono i caratteri di una trama per Netflix, stile The diplomat. Come si vede, anche i riferimenti culturali, intorno a loro, sono nuovi.
In questo senso, e il Pd lo sa, la vittoria di Schlein è stata un evento imprevisto, ma fortunato. Anche il più abile, giovane, dirigente storico del Pd avrebbe avuto meno possibilità di tener testa al modello Meloni, e avrebbe proiettato il Pd come parte di un mondo in bianco e nero.
Il che però rimanda al vero tema in discussione: la Schlein sta agendo come modernizzazione anche della struttura partito? Detto altrimenti: la diversità della figura della Segretaria è un motore di cambiamento dello stesso Pd? La risposta è un ovvio no. E lo si vede proprio dalla separazione del doppio corpo politico che abita il Pd, come si diceva prima. La mancanza di incontro fra queste due esistenze, è il problema. Un'incomunicabilità, si sarebbe detto una volta, nata dalla rispettiva estraneità.
Il movimento di Schlein discende direttamente dall'esperienza di Obama. Le grandi campagne in stile testimoniale (masse in movimento, sfilate canti, e recitativi) che fu la rinascita della sinistra sotto forma di nuova "coscienza". Da quel «Yes we can», appello alla forza delle convinzioni interiori, si genera una sinistra non più economicista quale quella degli anni di Clinton, ma intrisa di fede, riscatto, e forse troppi inni ecclesiali. (Ri)nasce lì con Obama una esperienza che non a caso ha attirato e formato molti giovani anche europei. Una esperienza diretta, una idea personale e olistica della politica, fuori dalle convinzioni e passioni del '900.
Quelle passioni e convinzioni che invece sono ancora le radici e il centro della identità del Pd, come di altri partiti e sindacati in occidente. Un partito con radici nel fordismo, affacciato con disagio sulle rivoluzione tecnologica; un mondo di strutture, istituzioni, grandi battaglie che hanno segnato il secolo, ma che in qualche modo vi sono rimasti semi-intrappolati.
Due storie che ancora non hanno trovato una intersezione, come ci dice la storia di quella stanza assente, citata da Provenzano. —

sabato 17 giugno 2023

Una rassegna musicale a Venaria

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 Da venerdì 2 a domenica 4 giugno 2023 la Reggia di Venaria ha ospitato la prima edizione del Late Spring Music Festival, l’innovativo progetto musicale ideato, insieme alla Reggia di Venaria, da Claudio Pasceri, tra i più apprezzati violoncellisti italiani e già direttore artistico di festival prestigiosi, che con il ruolo di "artista in residence" si è fatto interprete creativo, nelle proposte dei brani e nell’abbinamento dell’esecuzione di questi con gli spazi, del genius loci della stessa Venaria Reale.

La rassegna ha proposto vari appuntamenti musicali nell’arco delle tre giornate all’insegna della grande musica. Protagonisti artisti di prestigio internazionale che si sono esibiti nei luoghi iconici del complesso: le suggestive Sala Diana e Cappella di Sant’Uberto, i grandiosi Giardini e la maestosa Galleria Grande. 

Ogni appuntamento musicale è stato pensato ad hoc per gli spazi che lo ospitano, ed affronta a “temperature differenti” epoche e stili che dal Barocco arrivano alla musica dei nostri giorni, passando per i grandi del Classicismo e del periodo Romantico.

I musicisti sono giunti alla Reggia per esibirsi in repertori solistici e per unirsi in interpretazioni di pagine cameristiche.
Tra i partecipanti c'erano il violinista lettone Ilya Grubert, considerato tra i massimi virtuosi del nostro tempo, l'icona della musica contemporanea Irvine Arditti, dalla Francia il geniale compositore e pianista Michaël Levinas ed il soprano Marion GrangeEnrico Maria Baroni, clarinetto solista dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai; il Chaos String Quartet, viennese, tra i più apprezzati ensemble della giovane generazione, come la violoncellista americana Annie Jacobs-Perkins appartiene al novero dei più interessanti talenti della scena internazionale. Infine il compositore Vittorio Montalti con il brano che ha composto appositamente per la Reggia di Venaria, in prima esecuzione mondiale la sera del 2 giugno.

lunedì 2 giugno

Robert Schumann Frauenliebe und Leben op 42 per voce e pianoforte
Vittorio Montalti Dialoghi con la Materia Commissione Late Spring Music Festival 2023 per soprano, violoncello ed elettronica
Franz Schubert Quartetto d’archi in re minore D 810, La Morte e la Fanciulla

martedì 3 giugno

Ludwig van Beethoven Sonata per pianoforte in do maggiore n 21 op 53, Waldstein
Igor’ Fëdorovič Stravinskij Tre Pezzi per clarinetto solo
Ludwig van Beethoven Quartetto d’archi in re maggiore op 18 n 3

mercoledì 4 giugno

Johannes Brahms Sonata per violoncello e pianoforte in mi minore op 38
Claude Debussy Trois chansons de Bilitis per voce e pianoforte
Wolfgang Amadeus Mozart Quintetto per clarinetto in la maggiore K 581


Late Spring Music Festival

17 Giugno 2023

Ho seguito il fittissimo programma del Late Spring Music Festival di Reggia Venaria – 1,2,3 giugno, quasi "tre giorni di pace, amore e musica" – in qualità di critico letterario e scrittore, con un misto di ammirata devozione e di lieve invidia. L'invidia per la musica – o meglio per i musicisti – nasce secondo Giorgio Manganelli dal fatto che ci promette quella liberazione dalla parola, dalle idee, dal significato stesso, che poi coincide con la segreta, irraggiungibile utopia della letteratura, almeno dal romanticismo in poi (ma ha una genealogia più antica). La musica ci darebbe infatti la certezza quasi fisica – forse anch'essa illusoria – di uno spazio celeste, irrelato, di una metafisica dei suoni che appunto non significa niente, che ci emancipa perfino da quello che Hegel, infatuato di Rossini, definiva il faticoso "lavoro della verità". Viene in mente un aforisma di Cioran: "Perché leggere Platone quando basta un solo di sax a trasferirci nell'iperuranio"(sostituite pure il solo di sax con un brano per violoncello solo o con quello che volete). Personalmente continuo ad aver bisogno di entrambi, del sax e della lettura dei dialoghi di Platone. Ma con questa speranza di poter accedere per un attimo all'iperuranio ho seguito il programma del festival, fatto di concerti (mattutini e serali), momenti didattici, conversazioni, etc.

I suoni nascosti nei luoghi

Ma qual è l'idea-forza che ne è alla base, messa a punto dal direttore artistico, e artist in residence, Claudio Pasceri (presente come violoncellista in vari concerti) e condivisa con Francesco Bosso, responsabile dell'Area Programmazione e Valorizzazione della Reggia (aggiungo anche che il festival è stato voluto dal presidente Michele Briamonte e dal direttore Guido Curto). Credo che uno dei meriti del festival consista nel mostrarci, tangibilmente, una verità a proposito delle origini della musica. Di che si tratta? La musica non tanto è stata "inventata" dall'uomo quanto da lui "scoperta". Come del resto la matematica, la quale si trova fuori di noi, e coincide con il linguaggio della natura (i teoremi sono nostre annotazioni), la musica esisteva già da sempre, nelle frequenze di suoni del mondo naturale, ed esisterà anche dopo la scomparsa degli umani. I suoni che abbiamo ascoltato negli spazi della Reggia erano lì da tempo immemorabile – appena nascosti negli angoli delle sale (abbandonate prima del recente restauro) o perfino rifugiati dentro i sontuosi dipinti –: appartengono a quei luoghi, emanazione sensibile del genius loci. Da sempre quella sonata di Bach per violoncello abita la cappella della chiesa barocca di Sant'Uberto, così come fin dall'età post-rinascimentale la Fanciulla e la Morte del quartetto di Schubert dialogano tra loro nella solenne Sala di Diana, tra le scene mitologiche e le scene di caccia dei grandi quadri. Come è stato possibile questo sortilegio evocativo, negromantico, e cioè l'affiorare dei suoni alla luce del castello e all'ascolto dei tantissimi spettatori delle giornate? Ogni concerto partiva da una idea precisa della musica che si voleva proporre: una scelta meditata, fatta in relazione a quei luoghi. Solo così il festival ha permesso a quei suoni di ritrovare la propria "patria" ideale, lontano dalle convenzionali sale da concerto, perché ha saputo rispettarne le ragioni più profonde. Inoltre: i bis al termine delle esecuzioni musicali sono stati evitati proprio perché estranei a una "sintassi" del progetto: sarebbero stati "dissonanze" non volute, avrebbero costretto quei suoni a una replica incongrua, snaturandoli.

Interiorizzare l'esterno

Le "sculture fluide" e installazioni di Giuseppe Penone, "artista povero" che lavora con materiali naturali, entrano coerentemente entro una idea del genere, giocando tra interno ed esterno. Fine dell'artista è un “relazionarsi al contesto cercando di interiorizzarlo dialetticamente"(Celant, fondatore dell'Arte Povera). La musica nelle giornate del festival non solo si ascoltava, ma si respirava, si attraversava fisicamente, così come attraversavamo le opere di Penone, entro un universo fluido che tutto metteva in relazione. L'artista è attentissimo alle tracce dell'umano nel paesaggio: "arbusti spostati da una forza diversa dal vento, le foglie staccate…". Le sette grotte dove sono collocati i nuovi lavori in marmo, collegate al giardino con una scritta, guidano la passeggiata dei visitatori. 

Il violino parla italiano

"il carattere puerile della fonetica italiana, la sua stupenda infantilità… qui tutto rima con tutto, ogni parola chiede di mutarsi in concordanza" (Osip Mandel'stam)

Nell'incontro con uno dei maggiori liutai viventi, Bernard Neumann (canadese di padre tedesco), che ha il suo negozio nel centro di Cremona, ho imparato tra le molte cose che i violini italiani – anzitutto gli Amati del '500 e poi i celebri Stradivari – hanno un suono purissimo che un poco somiglia alla lingua italiana, con quelle cinque vocali rotonde, ben scandite, con le note che chiedono di concordare tra loro. Quando infatti un francese ha cominciato, temerariamente, a fabbricare violini il suono infatti era pregevole ma sensibilmente diverso. I costruttori italiani di violino nel '500 e '600 hanno realizzato tantissimi strumenti (Stradivari fino a 1.100), in abete e acero (legni leggerissimi), e ognuno era un pezzo unico! Davvero oggi quegli artigiani ci appaiono come dei mistici innamorati di Dio, per loro la purezza del suono. Poi Neumann ci ha regalato una involontaria, straordinaria metafora: sulla superficie del violino sono presenti due fessure allungate che ricordano una "effe", si chiamano buchi armonici. Bene, il liutaio ha parlato in proposito di una "debolezza controllata", e dunque pianificata e quindi funzionale, strutturale. Insomma il violino per giungere alla perfezione deve un po' indebolirsi.

I ragazzini salveranno il mondo?

Ogni pomeriggio c'era un incontro dei bambini con uno strumento musicale, intorno a cui si raccolgono in circolo, a contemplare un oggetto magico, e ad ascoltare colui che lo racconta. Mi evocano una immagine di Cristina Campo, quando osserva che "il bambino che ascolta un vecchio rievocare batte le ciglia con ipnotica lentezza". A un certo punto un bambino particolarmente piccolo prova ad appoggiare la mano sulla "pancia" del violoncello mentre viene suonato, avverte un lieve tremito, un brivido che somiglia a un solletico, e così gli viene da sorridere, con un po' di imbarazzo. Mentre un altro preme le chiavi del clarinetto cosicché da questo escono melodie incantatorie che avrebbero potuto trascinare tutti i bambini nel laghetto della Reggia, come accadde con il pifferaio magico

Le conversazioni di Enzo Restagno

Il musicologo Enzo Restagno era invece il pifferaio magico degli adulti. Ogni sera ci intratteneva su temi e autori musicali ogni volta inseriti in un ambito più ampio, di storia delle idee e della cultura, con associazioni imprevedibili e gusto della messinscena. Il pubblico era trasportato in mondi storici lontani nel tempo, un poco fiabeschi, tra intuizioni critiche spiazzanti e uso sapiente del gossip. Ad esempio mettere in relazione Bach e Pascal, di poco antecedente, illumina l'opera dell'uno e dell'altro: la loro comune "fede" in un possibile ordine del cosmo, in un Dio buono e amorevole, era per entrambi un azzardo e nasceva dal senso di una immensa solitudine dell'uomo davanti al mistero della natura.

Una elettronica quasi pop

La musica contemporanea, come l'arte contemporanea, e – per esempio – al contrario del romanzo, si è così allontanata dal senso comune da rischiare di non avere più pubblico. Proprio la musica elettronica, accanto certo ad altri filoni di ricerca, potrebbe però riportare il pubblico alla musica contemporanea. Vittorio Montalti, compositore di musica elettronica pluripremiato, pur partendo da presupposti di estremo rigore ospita nella sua opera una grande varietà e anzi "pluralità" (parola cara a Luciano Berio) di suoni e rumori (sostiene tra l'altro che tra gli uni e gli altri c'è una sostanziale continuità fatta di infinite sfumature), aprendo alle percussioni e rinunciando ad aggredire gli ascoltatori. La elegante fluidità della sua produzione – in particolare l'opera composta ad hoc per il festival, "Dialoghi con la materia", e ispirata alle parole scolpite nel marmo da Penone – nasce da un mix di leggerezza e ironia. Non tanto ha musicato un testo quanto ha lavorato sulle parole per trasformarle in figure musicali (Manganelli chioserebbe: fino a non fargli significare niente!). In un incontro con il pubblico ha spiegato di voler sostituire la parola "bellezza" con la parola "autenticità": restare fedeli a se stessi, dentro la sperimentazione, significa per lui non spezzare il patto con il pubblico, ma anzi risvegliare nel pubblico – quasi per contagio – lo stesso bisogno di autenticità. Montalti intende entrare dentro il suono per svelarne il nucleo più nascosto e renderlo comunicabile, dunque pop.

La sottrazione della fotografia

L'intero festival è stato introdotto e commentato dalle fotografie di Valentina Vannicola, un'artista che lavora spesso con le opere letterarie (ad esempio un suo racconto per immagini dell'Inferno dantesco). La sua scelta è stata radicale: eliminare l'umano dal paesaggio, dunque lavorare solo sugli spazi e gli elementi architettonici. Il logo del festival è una sua fotografia (ma ne ha fatte tante altre con la stessa ispirazione): un violino aereo, come sospeso dentro una sala neoclassica della Reggia, dove svolazzano innumerevoli spartiti presi da un vortice d'aria. O anche fotografando le sale senza stucchi e senza affreschi, inseguendo una leggerezza quasi calviniana fatta di sottrazione. Anche qui: l’idea di una musica che continua a esistere anche se il mondo finisse. Poi però sta preparando anche una serie di ritratti dei musicisti (dei quali continuiamo ad avere bisogno).

Lo stile dell'anatra dei virtuosi

Lo "stile dell'anatra"(coniato da Raffaele La Capria) nasconde la fatica, proprio come un'anatra che sembra scivolare placidamente sulla superficie dell'acqua mentre le zampette, nascoste, si agitano vorticosamente. Un altro nome per quella che nel '500 venne chiamata da Baldassarre Castiglione la "sprezzatura": studiata disinvoltura, noncuranza nel fare cose anche difficili, grazia mai affettata. Nei concerti del festival sono sfilati autentici virtuosi nei loro strumenti, dai violisti Ilya Grubert e Irvine Arditti alla giovane violoncellista Annie Jacobs-Perkins, dal pianista Michaël Lévinas al clarinettista Enrico Maria Baroni, e poi al Chaos String Quartet viennese e al soprano Marion Grange. Virtuosi inarrivabili ma capaci di un sublime stile dell'anatra che appunto nasconde lo sforzo, come Maradona che palleggiava con tale naturalezza da convincere che fosse un esercizio alla portata di tutti.

Il sogno di una cosa

"Comprendevo il silenzio dell'etere / le parole degli uomini non le ho capite mai" (Friederich Hölderlin)

Seguendo l’iniziale suggestione vorrei ora rispondere all'interrogativo di fondo: ascoltando i concerti della Reggia Venaria, abbandonandomi all'incanto dei suoni mi sono infine liberato – da letterato invischiato nel gioco incomprensibile delle parole umane – dalla insostenibile pesantezza del significato? Ho attinto per qualche istante all'inviolabile iperuranio evocato dagli strumenti? Non ne sono sicuro, però ho imparato una cosa. Nell'alchimia delle tre giornate ho scavato dentro quella che Manganelli definisce "invidia per la musica", fino a trovarne la radice ultima, che è poi, come succede anche al fondo dell'odio, una forma nascosta di amore. Amore per qualcosa che sembra sottrarsi a ogni possesso, alla prosa della nostra comunicazione quotidiana e dei nostri scambi verbali, ma che pure è parte dell'esistenza, anche soltanto come "sogno di una cosa".

giovedì 15 giugno 2023

A ciascuno il suo, a Berlusconi l'amore per la vita

Avvenire, giornale dei vescovi 

«Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio». Ecco le parole con cui si conclude l’omelia che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha pronunciato presiedendo in Duomo i funerali di Silvio Berlusconi. Funerali di Stato, a rendere omaggio al leader politico che ha segnato la storia del Paese. Ma quello che ora riceve «l’estremo saluto della pietà cristiana e dell’affetto», come ricorda il presule nella monizione iniziale, è anzitutto un uomo che, come tutti, porta «un desiderio di vita, di amore, di gioia», scandirà poi Delpini in omelia, «che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

I funerali di Stato di Silvio Berlusconi nel Duomo di Milano: in prima fila il presidente Mattarella e il premier Meloni

I funerali di Stato di Silvio Berlusconi nel Duomo di Milano: in prima fila il presidente Mattarella e il premier Meloni - Reuters

È l’arciprete della Cattedrale, monsignor Gianantonio Borgonovo, ad accogliere e benedire il feretro di Berlusconi all’ingresso in Duomo e ad accompagnarlo fino ai piedi dell’altar maggiore, mentre risuona l’applauso delle quindicimila persone raccolte in piazza – che seguono il rito dai maxi schermi – e quello delle oltre duemila all’interno della Chiesa madre dei milanesi – i familiari, gli amici, i rappresentanti delle istituzioni, a partire dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, i leader politici, alleati e avversari. Ha assistito alla liturgia, celebrata secondo il rito ambrosiano, larcivescovo Emil Paul Tscherrig, nunzio apostolico in Italia.

Il primo gesto: l’aspersione e l’incensazione del feretro. Quindi le letture: Daniele (12, 1-3); la Seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi (5, 1.6-10: «tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male»); il Vangelo di Giovanni (6,37-40: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno», dice Gesù alla folla, che aggiunge e spiega: «questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno»).

Il feretro di Berlusconi viene portato nel Duomo di Milano

Il feretro di Berlusconi viene portato nel Duomo di Milano - Reuters


Vivere e desiderare una vita piena. «Vivere. Vivere e amare la vita – esordisce Delpini nellomelia che, al termine, verrà salutata dai partecipanti al rito con un applauso –. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come un’occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora. Ecco che cosa si può dire di un uomo – afferma il presule –: un desiderio di vita, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

Amare e sperare, affidarsi, arrendersi. «Amare e desiderare di essere amato – riprende l’arcivescovo con parola incalzante –. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere sempre e solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria. Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande. Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di amore, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

Essere contento e sperimentare la precarietà. E poi: «Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori, e godere della compagnia. Essere contento delle cose minime che fanno sorridere, del gesto simpatico, del risultato gratificante. Essere contento e sperimentare che la gioia è precaria. Essere contento e sentire l’insinuarsi di una minaccia oscura che ricopre di grigiore le cose che rendono contenti. Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia. Ecco che cosa si può dire di un uomo: un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

Milano: la folla in piazza Duomo per il funerale di Berlusconi

Milano: la folla in piazza Duomo per il funerale di Berlusconi - Reuters


L’uomo d’affari, l’uomo politico, l’uomo incontro a Dio. La riflessione dell’arcivescovo si avvicina alla conclusione. Alla parola che fa sintesi di tutto. E che al termine della liturgia si farà parola di benedizione e di cordoglio, con Delpini ad esprimere le sue condoglianze ma anche quelle del presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi. «Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri e forse si dimentica dei criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari. Quando un uomo è un uomo politico – continua Delpini – allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico – nei nostri tempi – è sempre un uomo di parte. Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta. Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa si può dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio».

È l’arciprete della Cattedrale, monsignor Gianantonio Borgonovo, ad accogliere e benedire il feretro di Berlusconi all’ingresso in Duomo e ad accompagnarlo fino ai piedi dell’altar maggiore, mentre risuona l’applauso delle quindicimila persone raccolte in piazza – che seguono il rito dai maxi schermi – e quello delle oltre duemila all’interno della Chiesa madre dei milanesi – i familiari, gli amici, i rappresentanti delle istituzioni, a partire dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, i leader politici, alleati e avversari. Ha assistito alla liturgia, celebrata secondo il rito ambrosiano, larcivescovo Emil Paul Tscherrig, nunzio apostolico in Italia.

Il primo gesto: l’aspersione e l’incensazione del feretro. Quindi le letture: Daniele (12, 1-3); la Seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi (5, 1.6-10: «tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male»); il Vangelo di Giovanni (6,37-40: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno», dice Gesù alla folla, che aggiunge e spiega: «questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno»).

Il feretro di Berlusconi viene portato nel Duomo di Milano

Il feretro di Berlusconi viene portato nel Duomo di Milano - Reuters


Vivere e desiderare una vita piena. «Vivere. Vivere e amare la vita – esordisce Delpini nellomelia che, al termine, verrà salutata dai partecipanti al rito con un applauso –. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come un’occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora. Ecco che cosa si può dire di un uomo – afferma il presule –: un desiderio di vita, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

Amare e sperare, affidarsi, arrendersi. «Amare e desiderare di essere amato – riprende l’arcivescovo con parola incalzante –. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere sempre e solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria. Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande. Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi. Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di amore, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

Essere contento e sperimentare la precarietà. E poi: «Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori, e godere della compagnia. Essere contento delle cose minime che fanno sorridere, del gesto simpatico, del risultato gratificante. Essere contento e sperimentare che la gioia è precaria. Essere contento e sentire l’insinuarsi di una minaccia oscura che ricopre di grigiore le cose che rendono contenti. Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia. Ecco che cosa si può dire di un uomo: un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento».

Milano: la folla in piazza Duomo per il funerale di Berlusconi

Milano: la folla in piazza Duomo per il funerale di Berlusconi - Reuters


L’uomo d’affari, l’uomo politico, l’uomo incontro a Dio. La riflessione dell’arcivescovo si avvicina alla conclusione. Alla parola che fa sintesi di tutto. E che al termine della liturgia si farà parola di benedizione e di cordoglio, con Delpini ad esprimere le sue condoglianze ma anche quelle del presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi. «Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri e forse si dimentica dei criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari. Quando un uomo è un uomo politico – continua Delpini – allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico – nei nostri tempi – è sempre un uomo di parte. Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta. Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa si può dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio».


Matteo Marchesini

Diabolico monsignor Delpini. Astuto come una colomba, candido come una volpe. Ha scorso gli scaffali francesi della sua libreria, e ha capito che il modello non doveva essere Bossuet ma il nouveau roman. Cattolicizzato, certo, anaforico e salmodiante; magari con un pizzico del Mago di “Taxi driver”, se non di McCarthy; con una sfumatura moraviana (“il mondo è quello che è”) o un po’ di Sellers-Chance, o di poesia di ricerca, o – direbbe qualcuno – di Brunello Robertetti. Less is more. Ecco come provocare tutti – dai cattolici di sinistra a Capezzone - con poche proposizioni oggettiviste: quasi inattaccabili, quasi tautologiche. Un vescovo è un vescovo è un vescovo.