lunedì 13 ottobre 2025

Il ceto medio riflessivo

Gian Luigi Simonetti
Trovare le parole per la vergogna. La sfida di Starnone al ceto medio
La Stampa, 11 ottobre 2025

A un primo livello c’è qualcosa a metà fra la commedia degli equivoci e il thriller familiare, fra l’opera buffa e i racconti di Stephen King - un elemento perturbante che cresce di intensità e finisce per incrinare la situazione quotidiana di partenza trasformando il comico in malinconico, il buffo in drammatico, senza spargimenti di sangue ma con una violenza psicologica che sa essere tremenda. È un registro che con diverse sfumature si ritrova in molti dei migliori libri di Starnone, da Lacci a Scherzetto, da Labilità a Confidenza; e che torna anche in questo suo ultimo e nuovissimo Destinazione errata. Anzi, qui il meccanismo a orologeria che porterà alla deflagrazione finale è sapientemente innescato fin dalla prima pagina, quando il narratore – uno sceneggiatore felicemente sposato, con tre figli e una vita famigliare apparentemente serena – spedisce per errore alla collega Claudia, con cui da anni lavora alla stesura di una serie tv di successo, un messaggio originariamente destinato alla moglie: «Ti amo». La replica immediata di Claudia («Finalmente ti sei deciso, anch’io ti amo») segna per lei l’inizio di una fuga impossibile, per il protagonista una discesa negli inferi della propria vita psichica, presente e passata, tanto più ingarbugliata e opprimente quanto più tenuta a distanza dalle negazioni. «Forse dovevo ipotizzare – pur avendo dato sempre poco credito al pozzo nero dell’inconscio – che in qualche pezzetto malconcio del cervello mi si era annidata la voglia di scrivere ti amo e sbagliare destinataria».

Il secondo livello è quello, più ambizioso, del ritratto psicologico e culturale di una borghesia intellettuale progressista e creativa, figlia e nipote dal Sessantotto; una classe impoverita ma non ancora estinta, anzi pur sempre centralissima nell’elaborazione ormai autodifensiva di un pensiero, di un habitus, di uno stile di vita che potremmo approssimativamente definire “di sinistra”. «Non eravamo altro che quello: famigliole standard di ceto medio colto». Tali famigliole nessuno scrittore italiano di questi anni le ha descritte, e distrutte, meglio di Starnone. Fortini diceva che prerogativa di Moravia era stato il suo essere «autore, nel senso di facitore, di un ceto»; di quello stesso ceto Starnone pare oggi il più sistematico dilapidatore. Perciò si illude chi crede – fuorviato da una scrittura accogliente, felpata, riflessiva, e da una prospettiva sempre interna e quindi solidale a quel mondo e a quei valori - che il ritratto sia neutro, o addirittura accondiscendente. Come del resto si illude chi pensa che il ceto in questione, forgiato dalle varie “liberazioni” del secondo Novecento, abbia perso socialmente di rilievo, ora che la libertà pare diventata per molti un valore negoziabile. I suoi problemi, i suoi drammi e le sue scissioni restano i problemi, i drammi e le scissioni di una folla di borghesi di tutte le età che riluttano a sentirsi tali e anzi insistono, più o meno creativamente, a volersi “liberare”. Salvo scoprirsi, in libri come questi, prigionieri di se stessi.

C’è infine un livello, anche questo tipico di Starnone, che qualificherei di metaletterario. I personaggi principali di Destinazione errata sono infatti tre scrittori. Così il narratore trentottenne, che vive la scrittura per il cinema come un ripiego, così a maggior ragione il suo amico e sodale Carlo, quarantacinque anni più vecchio, narratore affermato ma non meno disilluso. Lo scrittore anziano, forse il vero demiurgo di tutta la vicenda (se è vero che ha preparato la crisi parlando bene di Claudia al narratore, e del narratore a Claudia) ama suggerire, ispirare, manipolare gli altri, come un romanziere curioso si diverte a spingere i propri personaggi al punto di rottura («l’essenziale, per lui, era la gioia di avviare un congegno e vedere se funzionava»). Ma la sua infelicità «serafica», il suo sentimento di una «universale insufficienza» che ormai investe tutto, anche la scrittura («un bel po’ di scherzetti abusati che a rifarli per l’ennesima volta, o anche per l’ennesima volta a sabotarli, non facevano avanzare di un millimetro la letteratura») – tutto questo lo affratella al narratore giovane, che la scoperta della propria insufficienza l’ha sepolta in una vecchia e brutta storia che non ha mai voluto raccontarsi per intero.

Il vecchio esperto e ironico attratto dai più giovani, il ragazzino «buono e triste» che ama la compagnia dei vecchi - due facce della stessa difficoltà a trovare le parole per dire le proprie vergogne più segrete, esprimere dolori che vengono da lontano. Parole risolutive che trova alla fine la terza scrittrice, Claudia - forse l’unica a sapere che «ciò che non si racconta si infetta e ci avvelena». Così i livelli si fondono in una storia sola, nel racconto disperato e ironico di una triplice sconfitta.

Nicola H. Cosentino
Cara ti amo, ma era l'altra. Il desiderio che confusione

Corriere della Sera La Lettura, 19 ottobre 2025

A un certo punto di uno dei romanzi più belli e dolorosi della letteratura recente, Espiazione di Ian McEwan, il coprotagonista Robbie Turner scrive una lettera d’amore all’amata Cecilia. Romantiche e garbate, le parole indirizzate alla ragazza sono solo la bella copia di ciò che Robbie prova davvero, e che aveva descritto poco prima in un’altra lettera (poi cestinata) in cui le si rivolgeva con espressioni oscene, piene di lussuria. È qui che Espiazione decolla: Robbie fa confusione fra i fogli, Cecilia riceve per errore la prima lettera, quella scandalosa, e ne è deliziata. Più felice di quanto non lo sarebbe stata se avesse ricevuto l’altra. Questo perché la distrazione si addice al desiderio. Lo scatena, e gli permette di svincolarsi dalla retorica che lo vuole figlio del mistero per abbracciare la sua vera natura, quella di forza rivelatrice. Il desiderio è insomma la cosa più chiara della nostra vita, bisogna solo concedergli la libertà, magari tramite una svista. Il punto, piuttosto, è: da dove nasce?, cosa lo condiziona?, riguarda più il guardare o l’essere guardati? E soprattutto: va assecondato sempre, anche quando avrà conseguenze distruttive?
È da queste domande che parte il nuovo, eccellente romanzo di Domenico Starnone, Destinazione errata (Einaudi). Che come tutti i suoi libri più recenti è breve, affilato ed essenziale, ma, per linearità, non sembra appartenere alla famiglia di quelli che l’autore stesso ha definito «racconti bombardati, pieni di voragini e rovine», come Lacci: o almeno non lo sembra fino all’ultima pagina, quando tutto si rimette in discussione. Destinazione errata segue sette giorni nella vita di un trentottenne — sceneggiatore, felicemente sposato, padre di tre figli piccoli — che si trova a gestire le conseguenze di un errore nel recapitare un messaggio, come Robbie in Espiazione. Solo che qui a essere sbagliato non è il testo, o meglio non solo, ma la destinataria. Tutto comincia in «un pomeriggio difficile. Livia, mia moglie, era a Genova per un convegno sull’invecchiamento precoce, i nostri tre bambini (dieci mesi, tre anni, cinque) avevano le loro esigenze, io ero incalzato da Claudia con cui scrivevo sceneggiature sulle avventure dell’architetta Sarcante». In un momento di concitazione, mentre una delle bambine strilla e le conversazioni in chat con moglie e collega si affastellano, il protagonista scrive un «ti amo» alla prima ma lo manda, per distrazione, alla seconda. La quale risponde: «Finalmente ti sei deciso, anch’io ti amo». Troppo imbarazzato per chiarire (come correre ai ripari senza ferire l’amica, dopo una tale rivelazione?), lui tentenna, rimugina e infine replica con una faccina sorridente. Nient’altro. Finché qualcosa dentro di sé, e tutto intorno, cambia radicalmente, e forse definitivamente.
Ci si può chiedere se l’adulterio sia un tema ancora urgente, ancora meritevole di essere analizzato e raccontato, in letteratura. La risposta è, ovviamente, sì, come per tutti gli argomenti che occupano le più comuni discussioni fra esseri umani. Ma se anche la risposta fosse no, qualora fossimo diventati magicamente impermeabili alle tentazioni e all’indiscrezione, va detto che in questo romanzo la questione non è l’adulterio in sé, come il cuore di Uno, nessuno e centomila non era davvero il naso storto di Vitangelo Moscarda. Destinazione errata parla semmai di coraggio, e della «pretesa feroce e disperata di essere assolutamente buono» — così la si chiamava in un altro romanzo di Starnone, Prima esecuzione (uscito nel 2007 per Feltrinelli e ripubblicato quest’anno da Einaudi). E essere buono, per Starnone, significa tenere a bada i propri istinti, soprattutto quelli che potrebbero nuocere agli altri. Il protagonista di Destinazione errata vuole a tutti i costi essere un bravo ragazzo, e crede di poterci riuscire solo attraverso l’amore per la moglie e per la famiglia, che in un certo senso lo ha riscattato da un passato di cui non va orgoglioso. Ma il desiderio imprevisto per Claudia, innescato (o risvegliato?) dal lapsus, non gli permette che di essere infedele, crudele, egoista. Allora — si chiede — non si può mai diventare ciò che si vuole, se si segue quel che si vuole?
Citavamo, poco fa, Prima esecuzione. Non è fra i romanzi più noti di Starnone, e apparentemente non ha nulla a che vedere con questo, né per temi (lì si ragiona soprattutto di giustizia e di violenza) né per stile (Prima esecuzione è metaletterario e volutamente ingarbugliato). Eppure contiene quasi tutti gli Starnone passati e futuri, tra cui quello che ammette: «Il tema dell’adulterio me lo porto dietro da sempre, dall’infanzia». Non stupisce, allora, che la gelosia sia l’innesco o il filo conduttore di tanti suoi romanzi, come Lacci e Confidenza, certo, che la affrontano più scopertamente, ma anche Denti e Via Gemito, che si aprono entrambi con una scenata di gelosia. In Via Gemito Federì, il padre, vede Rusinè, la madre, indossare un pettinino particolarmente grazioso, e si convince sia un segnale di malafede, una strategia di seduzione. Così la schiaffeggia e le dice: «vanesia» — che è uno dei termini più importanti, anche se poco ripetuti, della lingua e della storia letteraria di Starnone. Su «vanesia», sul sospetto del tradimento, sulla pericolosa possibilità che si possa provare o suscitare un desiderio illecito, è edificata gran parte della sua poetica e delle sue ossessioni, anche quando si finisce per parlare d’altro.
È una coerenza istintiva o ragionata? Impossibile capirlo: in Starnone, indole e cultura, studio e naturalezza sembrano fusi insieme. A differenza del protagonista di Destinazione errata, lo scrittore non appare mai distratto, mai confuso su cosa dire, come dirlo, a chi dirlo. Nella sua scrittura tutto va a segno senza sforzo apparente, con prodigiosa naturalezza. Qui, è evidente in alcune pagine particolarmente efficaci — come quella in cui marito e moglie devono infilare un piumino nel copripiumino, e la loro fatica diventa la nostra — e in tutti i momenti in cui compare Clelia, la suocera di Claudia. È lei a chiarirci, verso il finale, che di noi e degli altri non capiamo e non sappiamo assolutamente niente, e che ogni sentimento che proviamo è inevitabilmente malriposto. Ma non per questo meno autentico. Le fa eco lo scrittore Carlo, l’unico altro personaggio anziano, e non a caso il solo in grado di competere con lei per arguzia. «Negli ultimi cento anni abbiamo un po’ ecceduto col desiderio», dice Carlo al protagonista. «Ci si sbraccia subito come se fosse chissacché e poi si scopre che è soprattutto abbaglio e confusione».
La cosa ammirevole è che in questo romanzo l’abbaglio e la confusione siano descritti con tanta misura, tanta lucidità. Perché — vale la pena essere chiari — Destinazione errata è un libro praticamente perfetto: brillante, riuscito in tutto, all’altezza dei migliori di Starnone. E dice, del desiderio, l’unica cosa possibile: che non lo si spiega in nessun modo, per questo lo si deve raccontare.

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