Giulio Cavalli
La parabola della destra italiana, da filo-palestinese a filo-israeliana: quando il sostegno a Gaza era un merito
La Notizia, 1 ottobre 2025
A Torino, nel 1982, Giuliano Ferrara chiese che un concerto per la pace fosse dedicato ai palestinesi massacrati a Sabra e Shatila. Gli fu negato. Ferrara, allora comunista, reagì con tale veemenza che lasciò il Pci. La sua era una posizione chiara: solidarietà alle vittime palestinesi e condanna di quello che l’Onu avrebbe definito “un atto di genocidio”. L’episodio, documentato e pubblico, è l’atto fondativo della sua rottura con la sinistra.
Oggi lo stesso Ferrara accusa di antisemitismo chi chiede la fine della guerra a Gaza, chi denuncia le decine di migliaia di morti civili, chi invoca il diritto internazionale. “Liberare Gaza anche con le bombe”, ha detto in una fiaccolata nel 2023. In mezzo, un travaso ideologico che l’ha portato a fondare Il Foglio, santuario italiano del pensiero neoconservatore.
Ma la traiettoria di Ferrara non è un caso isolato. È la parabola di un’intera destra italiana che, da filo-palestinese e anti-sionista, è diventata ferocemente filoisraeliana.
Tra fiamma e kefiah
La destra post-fascista italiana nasce filo-palestinese. Non per afflato umanitario, ma per coerenza ideologica: l’anti-sionismo era il riflesso dell’anti-americanismo. I documenti non mancano: volantini del Fronte della Gioventù negli anni ’80 chiedevano sanzioni contro Israele e il riconoscimento dello Stato palestinese. “Fermare il massacro”, si leggeva. Si inneggiava alla “stirpe guerriera” palestinese.
Giorgia Meloni militava in quegli ambienti: in un video del 1996 compare nella sede di Azione Studentesca con un manifesto palestinese alle spalle. In quegli stessi anni, anche Ignazio La Russa e Galeazzo Bignami frequentavano gli ambienti della destra giovanile che vedeva nell’Olp di Arafat un’alleata contro il capitalismo sionista e il comunismo internazionale.
La trasformazione è stata radicale. Gianfranco Fini volò a Gerusalemme nel 2003 e definì il fascismo “male assoluto”. Fu anche un’operazione geopolitica: la destra doveva diventare presentabile per gli Stati Uniti. L’effetto? La retorica dell’“alleato strategico” sostituì quella del “popolo oppresso”. La Meloni, oggi, è l’erede diretta di quella svolta. Ha mantenuto la fiamma nel simbolo e riposto la kefiah nel cassetto.
Ieri Palestina, oggi premi da Israele
Il cambiamento non è solo teorico. È concreto. Nel 2014 Meloni scriveva su Twitter: “Un’altra strage di bambini a Gaza. Nessuna causa è giusta quando sparge il sangue degli innocenti”. Oggi definisce “controproducente” il riconoscimento della Palestina e firma memorandum militari con Israele. Nel 2025 ha votato contro una risoluzione Onu per il cessate il fuoco. La Russa, da sempre nella tradizione missina, oggi partecipa a fiaccolate “per le vittime israeliane” senza mai citare Gaza. Bignami oggi condanna chi, come l’amministrazione di Bologna, ha esposto fuori dal Comune la bandiera palestinese “alimentando divisioni e faziosità pericolose”.
Poi c’è Salvini, premiato come “amico di Israele” il 22 luglio 2025, lo stesso giorno in cui a Gaza si contavano 380 morti in un solo bombardamento. Ha dichiarato che “ogni equiparazione tra le vittime è indecente” e ha definito le manifestazioni pacifiste “fiancheggiamento al terrorismo”. Antonio Tajani, che nel 2002 condannava gli insediamenti israeliani e difendeva il diritto al ritorno dei rifugiati, oggi invoca “neutralità” e giustifica i bombardamenti come autodifesa. La coerenza si è spenta sotto i riflettori delle conferenze stampa internazionali.
L’antisemitismo a orologeria
Il capolavoro retorico è l’uso dell’antisemitismo come clava politica. L’antisionismo viene sistematicamente equiparato all’antisemitismo, sulla scorta della definizione Ihra, contestata da più di 40 studiosi internazionali e anche da esperti delle Nazioni Unite. La critica a Israele è diventata un reato morale. Le manifestazioni pacifiste sono trattate come minacce. Chi porta una kefiah è guardato con sospetto. Il dissenso è neutralizzato come odio. Chi chiede la fine dei massacri a Gaza diventa automaticamente complice di Hamas.
Eppure, chi oggi si erge a sentinella contro l’antisemitismo ha radici ideologiche in partiti che della discriminazione razziale hanno fatto la propria identità. Dalla Rsi che deportava ebrei ai lager, al MSI di Giorgio Almirante, redattore della rivista La Difesa della Razza. Non è solo una questione di memoria. È una riscrittura della storia. Una narrazione che, cancellando il passato, assolve il presente. E lo arma.
Il sostegno a Israele non è diventato più solido. È diventato più utile. È il lasciapassare per il potere, la prova di affidabilità per chi ha bisogno di nascondere un passato ingombrante. In questa torsione cinica, la tragedia di Gaza è solo una cornice da ignorare. Il dolore ebraico, usato come scudo. I palestinesi, ridotti a danno collaterale. L’ipocrisia ha assunto una forma così perfetta da farsi identità politica.
La vera vergogna non è nelle bandiere esposte in piazza, ma nei volti che ieri gridavano “Palestina libera” e oggi tacciono, o peggio, accusano chi lo fa. L’ipocrisia non uccide come le bombe. Ma serve a giustificarle. E continua a farlo. Ogni giorno.
David Rosenberg
Hey, Alexa, sei complice dei crimini di guerra di Israele?
Haaretz, 10 luglio 2025
Francesca Albanese non fa molto di più che scrivere report, fare lobbying, tenere discorsi e pubblicare tweet. Tuttavia, in un’epoca in cui la costruzione di narrazioni è fondamentale per condurre una guerra, Albanese può essere effettivamente considerata una combattente. Basta guardare il rapporto che ha pubblicato pochi giorni fa, Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio, che dovrebbe documentare come il mondo delle imprese sia connivente con lo stato d’Israele nell’opprimere, prima, e ora sterminare il popolo palestinese.
Il rapporto, ha twittato Albanese, “mostra come le imprese abbiano alimentato e legittimato la distruzione della Palestina. Il genocidio, a quanto pare, è redditizio. Questo non può continuare, devono rispondere delle loro responsabilità”.
Ma è vero che il rapporto dimostra tutto questo?
Cominciamo con la parte in cui il rapporto ha ragione. Israele ha effettivamente condotto una durissima guerra a Gaza che ha causato un grande numero di vittime civili e massicce distruzioni. Questa guerra – come tutte le guerre – viene combattuta con attrezzature (jet da combattimento, bombe, carri armati e tutta una gamma di tecnologie, per citarne solo alcune) che sono state progettate, sviluppate e prodotte dal settore privato, in Israele e all’estero.
La domanda è fino a che punto si può spingere questo addebito (che, come detto, caratterizza ovviamente tutte le guerre senza eccezioni). Nel caso specifico di Israele, la narrazione di Albanese cerca di creare un grossolano mondo fumettistico del Bene contro il Male, dove l’eroismo palestinese si scontra con l’implacabile violenza e oppressione israeliana.
Per far funzionare questa narrazione, il rapporto fa riferimento all’ottobre 2023 come al momento in cui i “sistemi di controllo, sfruttamento ed espropriazione di lunga data di Israele si sono trasformati in infrastrutture economiche, tecnologiche e politiche mobilitate per infliggere violenza di massa e immensa distruzione”.
La data del 7 ottobre e Hamas non compaiono mai nel rapporto in nessuna forma.
Non stiamo dicendo che quel massacro giustifichi ogni azione israeliana dopo di allora. Ma la totale assenza del contesto si spiega solo con la volontà di Francesca Albanese di rimanere fedelmente aggrappata alla sua visione manichea del mondo. Attenersi alla narrazione ha la prevalenza sui fatti scomodi. E la narrazione afferma che la ragion d’essere di Israele è distruggere il popolo palestinese. Ogni sua azione e istituzione – dal Fondo Nazionale Ebraico (del 1901) all’Acquedotto Nazionale (dei primi anni ’60), in passato, fino all’emergere della Startup Nation oggi – tutto è progettato per questo unico scopo. Israele, nella sua essenza, costituisce una macchia oscura sull’umanità, che si irradia in tutto il mondo attraverso la connivenza delle corporation, tutte macchiate anche dal minimo legame con Israele.
Il rapporto ha creato un database di circa 1.000 aziende di questo tipo, e gli autori sono certi che ce ne siano molte di più. Il numero è così elevato perché Francesca Albanese non si accontenta di condannare Lockheed Martin per aver venduto a Israele i caccia F-35 ed F-16, né la Caterpillar per aver fornito i bulldozer. E il settore tecnologico israeliano, “incentivato dal boom della securizzazione globale dopo l’11 settembre, ha ricevuto una spinta significativa attraverso il genocidio”.
La colpa israeliana pervade l’economia globale fino all’assurdo. Ad esempio, il rapporto cita come complice la società di investimenti statunitense BlackRock per aver detenuto partecipazioni non solo in Lockheed Martin e Caterpillar, ma anche in Microsoft, Amazon, Alphabet e IBM, la cui tecnologia viene utilizzata dalle Forze di Difesa israeliane. Ma la complicità non finisce qui: “Attraverso la loro gestione patrimoniale coinvolgono università, fondi pensione e persone comuni che investono passivamente i propri risparmi attraverso l’acquisto dei loro fondi e dei fondi negoziati elettronicamente”.
Nonostante dichiari di aver condotto ricerche approfondite, il rapporto è pieno di errori fattuali. Nel caso di BlackRock, il rapporto non dice che la società non possiede quelle partecipazioni: le detiene in trust per i suoi clienti, che difficilmente farebbero affari con una società di investimenti che si rifiutasse di acquistare azioni delle principali aziende americane. E la società offre ai suoi clienti fondi negoziati in borsa, non fondi negoziati elettronicamente. Si tratta di errori imbarazzanti, che mettono in discussione la serietà della ricerca condotta. Ma il rapporto contiene anche errori più grossi e più gravi. A cominciare con la frase iniziale del documento: “Le imprese coloniali e i relativi genocidi sono stati storicamente guidati e favoriti dal settore delle imprese”. Davvero? Hernán Cortés era l’amministratore delegato della Conquistadores Corporation, quando conquistò il Messico? Venivano registrati in Corporation i carri dei pionieri americani prima di partire per il Far West? E’ vero che la British East India Company conquistò l’India, ma a partire dal 1833 il suo ruolo fu gradualmente assunto dal governo britannico, per poi essere definitivamente sciolta nel 1874, e il Raj (l’impero anglo-indiano) continuò per altri 73 anni.
Di regola, a guidare le imprese coloniali erano missionari, avventurieri e generali. Dopo aver distorto la storia mondiale, il rapporto prosegue affermando che “lo stesso vale per la colonizzazione israeliana delle terre palestinesi, la sua espansione nei territori palestinesi occupati e la sua istituzionalizzazione di un regime di apartheid coloniale”. È vero il contrario. Il sionismo è nato da movimenti di base che, in alcuni casi, crearono entità societarie (di scarsa fortuna) per conseguire i propri obiettivi. Nella Palestina ottomana non c’era praticamente nulla che meritasse l’attenzione di veri investitori aziendali.
Dopo aver fornito dubbie giustificazioni storiche e intellettuali per la profonda complicità delle imprese nel colonialismo, il rapporto presenta un pacchetto di misure draconiane per correggere il problema. Naturalmente, le prime sono rivolte contro Israele e comprendono sanzioni, embarghi sulle armi e la sospensione degli accordi commerciali. Ma il settore imprenditoriale non pensi di cavarsela per i suoi peccati. Il rapporto esorta le imprese a cessare tempestivamente tutte le attività commerciali e a interrompere tutte le relazioni “direttamente collegate con, che causano o contribuiscono a violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo palestinese”. Non basta. Le imprese dovrebbero “pagare risarcimenti al popolo palestinese anche sotto forma di un’imposta sulla ricchezza da apartheid, sulla falsariga del Sudafrica post-apartheid”.
Francesca Albanese esorta inoltre la Corte Penale Internazionale e i tribunali nazionali a indagare e perseguire le aziende e i relativi dirigenti per il loro ruolo nella “commissione di crimini internazionali e nel riciclaggio [sic] dei proventi di tali crimini”. Non è chiaro fino a che punto Francesca Albanese vorrebbe spingere questa campagna. Un gestore di ETF (exchange-traded fund) di BlackRock dovrebbe ritrovarsi in carcere, e il suo datore di lavoro dovrebbe pagare un risarcimento, per aver investito in Amazon?
Dev’essere il sogno proibito del movimento BDS*. Ma non accadrà perché – fra l’altro – puzza di giustizia retroattiva (punizioni inflitte per azioni che non erano considerate criminali) e perché, se pienamente applicata, riempirebbe le galere di tutto il mondo di amministratori delegati. E questo solo nel caso queste raccomandazioni su presunti abusi aziendali fossero applicate esclusivamente alle aziende che fanno affari con Israele. Se invece – come richiederebbe un ovvio criterio di giustizia – gli stessi principi venissero applicati universalmente, il mondo cesserebbe di funzionare. Francesca Albanese è pronta ad adottare le stesse misure contro la Cina e le aziende occidentali per l’annessione del Tibet, la cancellazione della sua cultura e per la repressione degli uiguri?Le aziende ancora operative in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina devono essere portate in tribunale? (senza dimenticare che, inchinandosi alla realtà, l’Europa continua a importare gas russo). Francesca Albanese è pronta a porre fine al commercio e agli investimenti in quasi tutta l’Africa per gli innumerevoli atti di genocidio, repressione politica e guerra in cui è coinvolto quel continente? L’economia mondiale è un po’ troppo interconnessa e complicata per poter additare con tanta faciloneria i colpevoli.
Certo, in qualità di “relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati”, Francesca Albanese potrebbe rispondere che non è compito suo occuparsi di questi altri numerosi crimini. Ma come può, in nome della giustizia, praticare la giustizia in modo selettivo? Perché Israele, e solo Israele, dovrebbe essere preso di mira in modo così draconiano?
Forse Sergey Brin, la cui azienda Alphabet è menzionata nel rapporto, ha ragione quando accusa l’ONU di antisemitismo in seguito alla pubblicazione del rapporto. Francesca Albanese in effetti ha un curriculum problematico in proposito (anche se questo suo rapporto cerca di tenersi alla larga da evidenti scivolate nell’antisemitismo). La sua vera colpa è una narrazione scollegata dalla realtà e incapace di qualunque distinguo.
(*) movimento a guida palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele.
https://www.theguardian.com/world/2025/jul/03/global-firms-profiting-israel-genocide-gaza-united-nations-rapporteur

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