Francesca Caferri
Pizzaballa: "Vediamo la luce alla fine di una lunga notte: ora servono nuovi leader"
la Repubblica, 10 ottobre 2025
Gerusalemme – Sul volto di Pierbattista Pizzaballa c’è un’espressione di sollievo che raramente in questi due anni gli abbiamo visto. La stessa espressione che incontriamo nei vicoli, sui volti degli abitanti della Città vecchia. È un giorno di speranza questo a Gerusalemme, e le parole del cardinale lo riflettono in pieno: «Non possiamo essere ingenui. Ma certo è la fine di una lunga notte», ci dice accogliendoci nel salottino del Patriarcato latino di Gerusalemme.
Eminenza, qualche mese fa, in questo stesso luogo, ci ha detto «pace è una parola impegnativa: non dobbiamo usarla a sproposito». Siamo arrivati al momento in cui possiamo usarla?
«Più che parlare di pace, direi che vediamo le prime luci dell’alba: che non vuol dire che è pieno giorno. È un inizio giusto, qualcosa che porta speranza: già stamattina, nelle strade qui intorno, c’era un’energia diversa. La strada è lunga, gli ostacoli saranno tanti, però è il momento anche di gioire di questo momento, che è sicuramente positivo».
Due anni di violenza, di morte, di disumanità, di impossibilità anche solo di riconoscere il dolore dell’altro: da dove si riparte?
«Poco alla volta, ma ci vorrà tempo, bisognerà ammettere che non c’è solo la propria parte in questa storia. Entrare anche nel dolore dell’altro richiederà tempo: riconoscere che l’altro c’è, che esiste, mi pare un buon punto di partenza. Negli ultimi anni, e in particolare negli ultimi due anni, l’idea portante è stata “io e nessun altro”: questo dovrà cambiare. Non sarà rapido e non sarà facile: ci vorrà un lungo percorso, ci vorrà anche leadership. Uno dei problemi che abbiamo è che la leadership, sia politica che religiosa, da entrambe le parti in questi anni non ha aiutato».
La parrocchia di Gaza in questi mesi è stata una luce nella disperazione della Striscia. Cosa accadrà ora alla comunità?
«Quando finirà la guerra, se finirà la guerra, ci si potrà rendere conto veramente della situazione. Parliamo di gente che ha perso tutto: casa, lavoro, prospettive. Ci vorrà un grande desiderio di mettersi in gioco per rimanere. Io credo che qualcuno partirà e qualcuno deciderà di restare. Noi, come sempre, ci saremo: stiamo già progettando un ospedale e una scuola».
E la Cisgiordania?
«Il focus in questi anni è sempre stato su Gaza, penso anche giustamente, ma ha ragione lei: il problema è più ampio. Tutto il Paese è stato bloccato: penso alla comunità cristiana dei Territori, a Betlemme, dove la gente ha avuto la fame non perché mancava il cibo, ma perché non c’erano le risorse per comprarlo. L’impoverimento generale della società e anche della comunità cristiana è stato evidente, con prospettive che non sono per niente chiare. La questione palestinese non è risolta: l’ho detto tante volte, la fine della guerra non è la fine del conflitto. Il conflitto continua e le sue cause non sono ancora state prese in considerazione. Quello di queste ore è solo il primo passo».
Su questo punto, la posizione del Vaticano è — come quella di buona parte dell’Occidente — quella dei due Stati: ma basta andare in Cisgiordania per vedere che fisicamente lo spazio per due Stati non c’è più. Lei è qui da 35 anni, questo restringimento lo ha toccato con mano…
«Vero. Ma i due Stati restano la soluzione ideale, che non possiamo negare ai palestinesi. Sappiamo molto bene che non è realizzabile in tempo breve ma non si può rinunciare a questo principio. Concordo che dovremo fare i conti con la realtà. Anche per questo sarà necessaria una nuova leadership da entrambi i lati: capace, in maniera creativa, di pensare a un futuro per questi due popoli. Un futuro dignitoso per entrambi».
In Europa sono scese in piazza centinaia di migliaia di persone per chiedere la fine della guerra: moltissimi erano ragazzi. Come li ha visti da qui?
«La Flotilla ha smosso tantissime coscienze, ma è giusto dire che Gaza aveva scosso le coscienze già da molto tempo. L’opposizione a questa guerra ha creato un senso di comunità, di partecipazione, di unità a prescindere dalle diverse appartenenze e generazioni, che penso sia qualcosa da non lasciare andare. Gaza ha risvegliato la coscienza civile. Una cosa che avevamo dentro ma a cui non pensavamo mai: la dignità, il rispetto, l’idea che ci sono linee rosse che non si devono superare. Spero che questa energia, questa moralità, non vada perduta. I ragazzi hanno trovato un’urgenza, un senso, che non è il Grande fratello. Mi auguro che ci siano leadership in grado di farsene carico».
Fra i danni di questa guerra, penso sia lecito annoverare le relazioni fra la Santa Sede e Israele. L’attacco durissimo contro il cardinale Parolin l’altro giorno non ne è che l’ultima dimostrazione: riuscirete a mettervelo alle spalle?
«Di certo non si potrà ignorare quello che è stato: ciò che è accaduto e il modo in cui “l’altro” è stato percepito. Ma voglio vedere questa situazione in positivo: è stato un momento di verità. Dobbiamo ripartire da dove non ci siamo compresi: chiederci il perché e crescere. Un po’ di dialettica ci sarà sempre, ma lo spazio c’è, le persone che lo vogliono fare ci sono. Abbiamo bisogno di portare dentro questo discorso anche nuove figure che aiutino ad allargare il nostro sguardo: penso che sia possibile e necessario. In questi anni abbiamo lasciato la narrativa agli estremisti. È giunto il momento di costruirne una diversa, solida, seria, che tenga in considerazione non “io e nessun altro”, ma “io e l’altro”».
Anche l’ultima domanda è sul futuro. Non teme che fra qualche settimana, o qualche mese, il mondo si scorderà di nuovo di Gaza e della Cisgiordania?
«Non lo temo. Lo so già. Ma noi saremo qui. Come siamo sempre stati».
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