venerdì 19 gennaio 2024

L'ora di Lysenko

 

 

 

Trofim Denisovič Lysenko

Il caso Lysenko appartiene ormai a un lontano passato. Detto in poche parole, consisteva in una invasione di campo. Il partito comunista dell'Unione Sovietica si arrogava il diritto di stabilire quale fosse la teoria giusta nel settore degli studi biologici. Veniva condannata la genetica e veniva promossa invece una particolare concezione della biologia, quella ideata dall'agronomo ucraino Trofim D. Lysenko (1898-1976). Già nel 1938 si era avuta una prima consacrazione, quando Lysenko era diventato presidente dell' Accademia pansovietica di scienze agrarie Lenin. Nel 1948 si arrivò al trionfo supremo: in una sessione di questa accademia Lysenko fu riconosciuto ufficialmente come la massima espressione della scienza biologica. L'apice della sua fortuna si può collocare nell'agosto 1948 quando quella stessa Accademia sovietica di scienze agrarie annunciò che da allora in poi il lysenkoismo sarebbe stato insegnato come "l'unica teoria corretta". L'incursione del potere politico nel dominio della scienza diventò oggetto di discussione in Occidente e anche in Italia. Nel clima ormai imperante della guerra fredda si formarono due correnti di opinione, una favorevole alla libertà della scienza, l'altra contraria, attratta dal richiamo di una scienza «sovietica» superiore, impegnata in una prometeica opera di potenziamento dell’agricoltura, attenta ai bisogni della società e fedele al materialismo dialettico. La consacrazione finale del lysenkoismo fu una vera tragedia per la scienza, la coscienza, la stessa vita di molti studiosi sovietici. Per i partiti comunisti dell’Occidente essa segnò invece l’inizio di una stagione di drammatiche lacerazioni. Gran parte dei biologi si schierarono per il mantenimento di criteri scientifici staccati dalle ideologie. Da buon comunista fedele alla linea del partito Calvino si schierò dalla parte di Lysenko. Tutta questa materia è trattata nel volume di Francesco Cassata, Le due scienze" Il "caso Lysenko" in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2008; l'articolo di Calvino sull'Unità edizione piemontese è citato e in parte ripreso a pagina 39 del testo. In precedenza gli Editori riuniti avevano pubblicato Il caso Lysenko (ed. or. 1976) di Dominique Lecourt. 

Italo Calvino, La verità sul dibattito Lysenko, l'Unità edizione piemontese, 31 dicembre 1948

 I giornali borghesi continuano a parlare di Lysenko e della polemica sulla biologia svoltasi lo scorso agosto nell'Unione Sovietica. Ne parlano, come al solito, con superficialità, volgarità e malafede per penna dei loro giornalisti, e con la cronica incomprensione di tutto ciò che avviene nel paese del socialismo, per penna di scienziati peraltro seri. Non è perciò il caso di rispondere ai singoli articoli: prima di tutto occorre dare quella base d'informazioni che ai più manca. La rivista parigina Europe nel suo ultimo numero (ottobre '48) pubblica il testo integrale della relazione Lysenko, le discussioni all'Accademia di Scienze Agrarie e le risoluzioni finali. Cercheremo di darne un esauriente riassunto; ma prima di tutto occorre mettere in luce come mai un dibattito di biologi diventa in U.R.S.S. una questione di interesse nazionale, che occupa per giorni e giorni intere pagine della Pravda e degli altri quotidiani, una questione cui s'interessano milioni e milioni di cittadini e silla quale dà il proprio parere il Comitato Centrale del Partito. In un paese socialista il progresso della cultura non è staccato dal progresso comune di tutta la società; la scienza non compie le sue ricerche chiusa nei laboratori, dando alla società solo i prodotti immediatamente utilizzabili delle sue ricerche, indifferente al fatto che essi vengano usati come armi di distruzione o come farmaci. La società socialista è un tutto armonico in cui lo sviluppo di una parte è condizione dello sviluppo del tutto: non ci si può fermare né si può pretendere di sviluppare anarchicamente le proprie ricerche; chi perde il contatto con i bisogni della società perde ogni facoltà di controllare se la direzione in cui si muove è giusta o sbagliata. Lo scienziato socialista, strettamente legato alla pratica, ha possibilità che lo scienziato della società socialista non si sogna d'avere. La condizione tradizionale della scienza che compie le sue ricerche a dispetto della classe dominante, che vede le sue scoperte usate come mezzo di speculazioni e non per il bene dell'umanità, si va sempre più trasformando, nell'epoca dell'imperialismo in una condizione ancor più tragica: le possibilità della scienza possono essere limitate anche nella società borghese, ma nella misura in cui le sue ricerche hanno un interesse per la guerra. In U.R.S.S. al contrario lo scienziato ha a sua disposizione tutto un sesto del mondo come laboratorio per verificare la giustezza dei suoi ritrovati: può vedere le sue scoperte subito adottate in larghissima scala, e usate per il bene dell'umanità. Ma perché questo avvenga, bisogna che lo scienziato non si proponga «la scienza per la scienza», bensì i suoi obiettivi coincidano con gli obiettivi generali della società. In un tutto che ha come ragione di vita la trasformazione in una data direzione (prima la costruzione del socialismo attraverso i piani quinquennali, per l’industrializzazione del paese, poi il passaggio dal socialismo al comunismo mediante un enorme aumento delle capacità produttive) ogni sforzo va teso in quella direzione; non può essere sprecato né un pensiero né un gesto; il primo criterio deve essere: serve o non serve allo sviluppo della rivoluzione? Chi seguendo le sue ricerche specifiche perde di vista gli interessi generali diventa un veicolo di ideologie reazionarie [reazionario nel testo originale]. Ecco perché Lysenko e i biologi della scuola miciuriniana, che moltiplicano la produzione delle patate e trasformano le steppe in campi coltivati, sono i naturali portavoce del materialismo dialettico in campo biologico, mentre i genetisti tradizionali, occupati in studi non immediatamente immissibili nel processo produttivo, aprono le porte nel campo della teoria ad illazioni idealistiche, irrazionali e pessimistiche e nel campo della pratica monopolizzando gli studi biologici, sottraggono forze alla trasformazione della natura da parte dell'uomo e sabotano la rivoluzione, la costruzione della società comunista. Se dei paralleli possono essere fatti tra settori diversi della cultura, la vittoria della scuola miciuriniana sulle altre scuole biologiche può essere paragonata alla vittoria, avvenuta anni orsono, della tendenza del realismo socialista in letteratura e in arte, sulle altre scuole più o meno contaminate dal formalismo. Solo il realismo socialista in tutta l’ampiezza dei suoi possibili sviluppi, può procedere di pari passo con lo sviluppo generale della società, continuamente nutrendolo ed essendone nutrito. E veniamo dunque alla relazione sulla «situazione della scienza biologica» alla sessione estiva dell'Accademia Lenin di Scienze Agrarie, tenuta dal presidente dell'Accademia, T. D. Lysenko. Egli si rifà alla dottrina di Darwin che segnò l'inizio della biologia scientifica e che con la teoria della selezione naturale e artificiale diede una spiegazione razionale allo sviluppo della materia vivente. Ma la teoria di Darwin, dice Lysenko, indiscutibilmente giusta e materialista nelle sue linee fondamentali, non fu immune da errori: nella concezione di «lotta per l'esistenza» le infiltrazioni della teoria di Malthus forzarono il significato storico e filosofico del darwinismo mettendolo alla stregua delle altre dottrine borghesi dell'epoca la «guerra di tutti contro tutti» di Hobbes in filosofia, la libera concorrenza in economia, il principio malthusiano della popolazione in sociologia). Nel periodo post-darwiniano i biologi progressisti, come Timiriazev, sostennero e svilupparono il darwinismo come dottrina dello sviluppo della natura vivente e lo difesero dagli attacchi degli oscurantisti e della Chiesa. I biologi reazionarin cercarono invece di spogliare la dottrina di Darwin dei suoi elementi materialisti e di ridare la biologia in balia dell'idealismo. Lysenko accusa uno dei fondatori della genetica moderna, il Weissmann, d'aver rifiutato di ammettere l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, e d'aver dichiarato guerra ai principi di Lamarck, cioè all'azione direttamente trasformatrice dell'ambiente. Secondo Weissmann, la «materia ereditaria» è costituita solo dai cromosomi, ciascuna delle cui particelle determina una data parte dell'organismo: i cromosomi costuirebbero un mondo a parte, autonomo dall'organismo e dalle sue condizioni d'esistenza. «Una materia ereditaria immortale senza rapporti con le caratteristiche qualitative dello sviluppo d'un corpo vivente, che governa il corpo mortale ma che non può avere origine da esso: tale è la concezione apertamente idealista, mistica nella sua essenza che Weissmann presenta sotto il travestimento di neodarwinismo», dice Lysenko. E accusa i seguaci di Mendel e di Morgan d'aver aggravato le posizioni idealistiche implicite in Weissmann, fino a negare l'evoluzione o a riconoscerla solo come processo di cambiamenti quantitativi. Oggi le due posizioni della biologia: reazionaria e progressiva, sono particolarmente nette. L'agricoltura socialista, il regime dei kolkoz e dei sovkoz ha dato origine a una nuova scienza biologica le cui basi sono state poste dai grandi agrobiologi sovietici Miciurin e Williams. Secondo i miciuriniani i noti principi del lamarckismo, che ammettono la funzione attiva dell'ambiente nella trasformazione dei corpi viventi, sono giusti e pienamente scientifici. L'eredità dei caratteri acquisiti è possibile e indispensabile; ma il fatto essenziale della dottrina di Miciurin è che ad ogni biologo è aperta la prospettiva di dirigere la natura degli organismi vegetali e animali, la prospettiva di poter trasformare questa natura conformemente alle necessità pratiche. Il nocciolo della disputa tra le due tendenze biologiche è dunque questo: è possibile la ereditarietà dei caratteri acquisiti dagli organismi vegetali e animali nel corso della loro vita? I miciuriniani dicono di sì, i mendelisti-morganisti lo negano. Lysenko passa poi a citare affermazioni di morganisti sovietici, mettendo in luce come le loro idee li portino a negare che le trasformazioni del sistema abbiano influenza sulla «materia ereditaria». La lotta tra miciuriniani e morganisti era in una fase acuta già da tempo. Lysenko rigetta le accuse mossegli dagli avversari d'aver sabotato le loro ricerche e li accusa a sua volta di aver fatto di tutto, benché in minoranza nell'Accademia Lenin, per ostacolare gli studi dei giovani miciuriniani, tanto fruttuosi per l'agronomia socialista, mentre loro rivolgono tutta la loro attenzione a sterili statistiche di cromosomi. Invece il motto di Miciurin fu: «Noi non ci attendiamo che la natura ci elargisca i suoi doni; il nostro compito è di strapparglieli». Per Miciurin l'organismo e le condizioni di vita ad esso necessarie sono un tutto indivisibile. L'eredità è la proprietà che un corpo vivente ha d'esigere date condizioni di vita e di sviluppo e di reagire in una data maniera a tale o tal altra condizione». La conoscenza delle esigenze naturali e del rapporto dell'organismo con l'ambiente dà la possibilità di dirigerne la vita e lo sviluppo, non solo, ma la stessa ereditarietà. Le trasformazioni sono causate dalle modificazioni del tipo d'assimilazione; se la vernalizzazione del grano di primavera avviene a temperature più basse, esso può essere trasformato dopo qualche generazione in grano d'inverno. La teoria cromosomica dell'ereditarietà nega anche ogni possibilità d'ottenere degli ibridi per altra via che non la via sessuale. Miciurin sostenne la possibilità anche di ibridi vegetativi, mediante innesto. Egli termina la sua relazione con una serie di critiche e di autocritiche sulle deficienze della lotta contro il contrabbando ideologico dei morganisti, e ribadisce la necessità che si sviluppi una nuova generazione di biologi sovietici miciuriniani. Nella discussione della relazione Lysenko gli interventi più numerosi e più interessanti sono quelli che documentano i magnifici risultati dell'agrobiologia miciuriniana: dalla produzione di nuove scpecie di montoni astrakan al grano della Siberia, dall'avicoltura alla coltivazione della «steppa di pietra» del sud-est. Su questi risultati pratici già il nostro giornale ha pubblicato diversi articoli, e altri ne pubblicherà ancora. Qui daremo notizia degli interventi più propriamente ideologici. Molti scienziati ribadiscono il carattere reazionario della «genetica formalista»: Glutcenko, Dolgucin, Dimitriev, Dimitov, Mitin, Lobanov mettono l'accento sui rapporti del morganismo col malthusianesimo, col razzismo, col pessimismo sociale. La rivista «Europe» riassume anche gli interventi degli avversari di Lysenko che rispondono alle critiche mosse loro: Jebrak difende gli studi sui cromosomi, Zavadovsky si dichiara anche lui contrario alla genetica formalista ma dice che le tendenze sono tre: darwinismo logico, weismanismo reazionario e lamarckismo meccanicista, materialista volgare. Contrari a Lysenko si dichiarano Rapoport, Alikhamin, Kislowsky, Jukowsky e Shmalgausen: essi, pur dichiarandosi materialisti, antidealisti e in una certa misura miciuriniani, difendono determinati aspetti delle loro teorie genetiche. Particolare interesse ha una lettera al Comitato Centrale del Partito e al compagno Stalin di Youri Zdanov, scienziato e collaboratore del Comitato Centrale. La lettera è un'autocritica di Youri Zdanov in cui egli riconosce d'aver sbagliato tentando di smorzare il contrasto tra le due tendenze avverse e lasciandosi fuorviare dagli aspetti d'interesse personale della lotta senza mettere in evidenza il fondo ideologico della questione. Egli riconosce anche di aver criticato aspramente Lysenko (con cui egli continua a essere in disaccordo su parecchi punti) senza pensare che questo portava acqua al mulino della ideologia reazionaria. 

giovedì 11 gennaio 2024

Italo Calvino, Se questo è un uomo

 

 


Se questo è un uomo, il libro al quale Primo Levi affidò la sua testimoniaza della vita nei campi, era stato rifiutato da Einaudi. Uscì, nella sua prima edizione, nell'autunno del 1947 (e non nel 1948, come sostiene Calvino nell'articolo che segue) per la piccola casa editrice torinese De Silva diretta da Franco Antonicelli.
Del libro furono stampati 2500 esemplari e ne furono venduti 1500, che da anni ormai sono diventati oggetti preziosi e quasi introvabili sul mercato antiquario; l'opera ebbe recensioni autorevoli, tra cui quella di Italo Calvino che la definì un libro magnifico, le cui pagine, di autentica potenza narrativa, sarebbero rimaste nella nostra memoria tra le più belle della letteratura sulla seconda guerra mondiale.
Quella recensione è successivamente diventata il risvolto editoriale del volume pubblicato da Einaudi nel 1958. Figura nel Libro dei risvolti (Einaudi, 2003, ultima edizione Il libro dei risvolti. Note introduttive, quarte di copertina e altre scritture editoriali, Mondadori, 2023).

Italo Calvino, Un libro sui campi della morte. "Se questo è un uomo", L'Unità edizione piemontese, 6 maggio 1948

C'era un sogno, racconta Primo Levi, che tornava spesso ad angustiare le notti dei prigionieri dei campi di annientamento: il sogno di essere tornati a casa e di cercare di raccontare ai famigliari e agli amici le sofferenze passate, ed accorgersi con un senso di pena desolata ch'essi non ascoltano, che non capiscono nulla di quello che loro si dice. Io credo che tutti gli scampati che abbiano provato a scrivere le loro memorie su quella terribile esperienza si siano sentiti prendere da quella pena desolata: di aver vissuto un'esperienza che passa i limiti del dicibile e dell'umano, un'esperienza che non potranno mai comunicare in tutto il suo orrore a nessuno, e il cui ricordo continuerà a perseguitarli con un tormento della sua incomunicabilità, come un prolungamento della pena.
Per fatti come i campi d'annientamento sembra che qualsiasi libro debba essere troppo da meno della realtà per poterli reggere. Pure, Primo Levi ci ha dato su questo argomento un magnifico libro (Se questo è un uomo, Ed. De Silva 1948) che non è solo una testimonianza efficacissima, ma ha delle pagine di autentica potenza narrativa, che rimarranno nella nostra memoria tra le più belle della letteratura sulla seconda guerra mondiale.
Primo Levi fu deportato ad Auschwitz al principio del '44 insieme col contingente d'ebrei italiani del campo di concentramento di Fossoli. Il libro si apre appunto con la scena della partenza da Fossoli (vedi l'episodio del vecchio Gattegno) e in cui già si sente quel peso di rassegnazione di popolo ramingo sulla terra da secoli e secoli che peserà su tutto il libro. Poi, il viaggio, l'arrivo ad Auschwitz, e altra scena di struggente potenza, la separazione degli uomini dalle donne e dai bambini, di cui mai più sapranno nulla. Poi la vita del campo: Levi non si limita a lasciar parlare i fatti, li commenta senza forzar mai la voce e pure senza accenti di studiata freddezza. Studia con una pacatezza accurata cosa resta di umano a chi è sottoposto a una prova che di umano non ha nulla.
Null-Achtzen, «zero-diciotto», il suo compagno di lavoro che ormai è come un automa che non reagisce più e marcia senza ribellarsi verso la morte, è il tipo umano cui i più si modellano, in quel lento processo d'annientamento morale e fisico che porta inevitabilmente alle camere a gas. Suo termine autentico è il «Prominenten», il privilegiato, l'uomo che si «organizza», che riesce a trovare il modo di aumentare il suo cibo quotidiano di quel tanto che basta per non essere eliminato, che riesce ad acquistare una posizione di predominio sugli altri e vivere sulla rovina altrui; tutte le sue facoltà sono tese ad uno scopo elementare e supremo: sopravvivere.
Le figure che Levi ci disegna sono dei veri e proprii personaggi con una compiuta psicologia: l'ingegner Alfred L., che continua a mantenere tra i compagni di sofferenze la posizione di predominio che ha sempre tenuto nella vita sociale, e quell'assurdo Elias, che sembra nato dal fango dei Lager e che è impossibile immaginare come un uomo libero, e quell'agghiacciante personaggio del dottor Pannwitz, personificazione del fanatismo scientifico del germanesimo. Certe scene raccontate dal Levi ci ricostruiscono tutta un'atmosfera e un mondo: il suono della banda musicale che accompagna ogni mattina i forzati al lavoro, fantomatico simbolo di quella geometrica follia; e le notti angosciose nella stretta cuccetta, coi piedi del compagno vicino al volto; e la terribile scena della scelta degli uomini da mandare alle camere a gas, e quella dell'impiccagione di chi, in quell'inferno di rassegnazione e di annientamento, trova ancora il coraggio di cospirare e resistere, con quel grido sulla forca: «Kamaraden, ich bin der Letzte!». Compagni, io sono l'ultimo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






























martedì 9 gennaio 2024

Italo Calvino: "Il muro" di Jean-Paul Sartre

 


Italo Calvino, "Il muro" di Jean-Paul Sartre, L'Unità edizione piemontese, 12 gennaio 1947

Sartre è un po' il grande fatto culturale di questi ultimi anni e io non mi fermerò, recensendo questo libro di racconti, a rifare la storia della sua filosofia, a sceverare quanto sia di letterario e di filosofico nella sua letteratura, né accennerò al genere creativo in cui egli è più noto in Italia e cui probabilmente resterà legata la sua fama: il teatro. Il tempo deciderà quanto Sartre abbia detto di valido nelle sue varie attività: certo, alcuni esempi anche nostrani come Pirandello, ci invitano a diffidare degli scrittori troppo intenzionalmente preoccupati  a una problematica d'ordine filosofico.
I racconti di Le mur, insieme al romanzo La nausée, sono la prova più significativa del Sartre narratore: ché la vasta trilogia 
non ancora compiuta de Les chemins de la liberté sembra risentire troppo della sua programmaticità d'esemplificazione esistenzialista.
I racconti di Sartre che ora appaiono per la prima volta in Italia sotto una serafica copertina illuminano la natura umana senza risparmiare alcun andito, una natura umana già di per sé turpe, legata al marchio d'una qualche anomalia sessuale a un peso di carne sopportato con schifo. L'introspezione di Sartre ancor più che psicanalitica potrebbe dirsi fisiologica, se si guarda con quale zoologica esattezza egli controlla le reazioni organiche dei suoi personaggi, dallo svuotarsi di ghiandole al gorgogliare degli intestini. Da questa condizione di schiavitù umana Sartre suscita i momenti d'esistenzialistica angoscia, d'assoluta libertà, di scelta dove il peso dello schifo umano sembra svanire nel vuoto del nulla.
Il muro consta di cinque racconti. In quello che dà il titolo al volume, un episodio della guerra civile spagnola, tutto è davvero espresso narrativamente: è una descrizione della paura di morire fisiologica e metafisica insieme; sarebbe un bellissimo racconto se un ingiustificato finale a sorpresa non lo sciupasse. Ottimo è anche, per l'intensità di clima che raggiunge, La camera, che racconta il caso di coscienza della moglie di un pazzo, simile a quello della commedia italiana Un gradino più giù di Stefano Landi. Eratostene è un caso di misantropia d'origine sessuale che porta alla pazzia; Intimità sono scene coniugali d'un impotente e una frigida. L'infanzia di un capo, che è il racconto più lungo del libro potrebbe essere definito Le vie della libertà all'incontrario. Come nella trilogia Sartre ha voluto rappresentare la via dell'uomo verso l'autodecisione e la realizzazione di sé stesso, qui è un po' la storia delle vie d'uscita che si chiudono e dell'uomo che si trova ad essere qualcosa che in fondo non voleva. E' la storia d'un giovane dell'alta borghesia nel periodo tra le due guerre, all'epoca dei surrealisti e dell'Action française e, come nei Chemins, il maggior interesse del racconto è nella documentazione storica, genere di cui Sartre è un maestro. Poi, nei momenti culminanti, il suo protagonista attacca a ragionare di essere e di nulla, e allora il lettore bene informato può rinfrescare le sue cognizioni d'esistenzialismo.

domenica 7 gennaio 2024

Manuela Dviri: il coraggio di guardare al futuro

 

 


 Manuela Dviri, Abbiamo bisogno di credere in un futuro diverso, Gariwo, 13 dicembre 2023

... “Due stati, una patria” o “una terra per tutti” è un'iniziativa di israeliani e palestinesi che propongono un’idea completamente diversa da quelle discusse da ormai decine di anni: la creazione di una confederazione dello stato di Israele e di uno stato palestinese basata sui confini del 1967, sulla libertà di movimento e su istituzioni congiunte. Gli insediamenti rimarranno sotto il controllo palestinese, i coloni potranno mantenere la cittadinanza israeliana, e un numero simile di cittadini palestinesi potrà vivere in Israele con lo status di residente. L'iniziativa è nata circa undici anni fa da una serie di incontri avuti dal giornalista israeliano Meron Rapoport (leggi la nostra intervista) e dall'attivista politica palestinese Awni al-Mashni, originario del campo profughi di Dehaishe a Betlemme ed editorialista della stampa palestinese. Secondo il piano, la frontiera tra i due paesi sarà stabilita secondo le linee del 4 giugno 1967, con la fine completa dello stato di occupazione. Entrambi i paesi saranno democratici, il loro regime sarà basato sul principio dello stato di diritto e sul riconoscimento dell’universalità dei diritti umani, come riconosciuto dal diritto internazionale. Il piano prevede anche meccanismi congiunti per raggiungere il rappacificamento, compresa la creazione di comitati congiunti di riconciliazione, che consentiranno una discussione approfondita ed esauriente delle ingiustizie subite da entrambe le parti, e piani congiunti per promuovere la riconciliazione a livello della comunità, dei sistemi educativi e delle istituzioni culturali.

Il paradigma tradizionale dei due stati, due popoli, come proposto in tutti in questi anni, ignora la realtà: ebrei e arabi vivono già insieme in questa terra. Dei 900.000 abitanti di Gerusalemme, il 40% sono palestinesi e il 60% ebrei. Anche in Cisgiordania, 450.000 coloni israeliani vivono tra 2,5 milioni di palestinesi. Impossibile negare anche l'intreccio tra realtà geografica ed economica. In un’area geografica così piccola, semplicemente non c’è modo di combattere il cambiamento climatico o affrontare questioni come le risorse idriche, i trasporti o il turismo senza un alto livello di cooperazione tra le due parti. Anche l’economia, il commercio e lo sviluppo umano sono profondamente interdipendenti.

Un progetto simile, più recente, è la “Confederazione della Terra Santa” di Yossi Beilin, ex ministro della giustizia e tra i promotori di Oslo, creato in collaborazione con l’avvocato palestinese Hibba Husseini. Secondo questo progetto, le parti inizierebbero i negoziati per un anno, definendo i parametri di uno stato palestinese sovrano accanto a quello di Israele e determinando la struttura di una confederazione cooperativa come la comunità europea ai suoi inizi: Gerusalemme diventerebbe la capitale di entrambi gli stati, una città parzialmente aperta.

“Il fatto che un’opinione sia stata ampiamente condivisa - disse Bertrand Russel - non prova affatto che non sia del tutto assurda. Il mondo è pieno di eventi magici che aspettano pazientemente che il nostro ingegno diventi più acuto”.

Dedicato a tutti coloro che seguono da lontano il reality show della morte degli ultimi mesi, stando a tifare a volte per uno e a volte per l’altro, ma mai per entrambi. Che invece sarebbe la cosa giusta da fare.