sabato 25 ottobre 2025

La riabilitazione letteraria di Céline




Massimo Raffaeli
Céline nel sottosuolo di parole e invenzioni

il manifesto, 24 ottobre 2025

Il giorno dopo la morte di Louis-Ferdinand Céline, 1° luglio del ’61, i giornali si occuparono pressoché in esclusiva del suicidio di Ernest Hemingway: per Céline poche righe in cronaca, un arido regesto biobibliografico dove lo si incolpava di essere sopravvissuto all’infamia dei libelli antisemiti, come Bagatelle per un massacro (1937), e della collaborazione con gli occupanti nazisti.

L’Italia non faceva eccezione ma già nel pieno degli anni sessanta più di un segnale lasciava presagire la fine dell’interdetto e, contemporaneamente, la progressiva valorizzazione di uno dei maggiori romanzieri del secolo (e qui va ricordato che la prima traduzione del Viaggio al termine della notte era uscita nel ’33 a cura di Alex Alexis, pseudonimo di Alessio Alessi).

A decenni di distanza e a sorpresa, nel 1964, Garzanti aveva mandato in libreria la versione del capolavoro céliniano, Morte a credito (’36), a cura di un grande poeta, Giorgio Caproni, ma con la prefazione-paracadute a firma di Carlo Bo dove si riconosceva l’altezza dello scrittore (speleologo dei bassi dell’esistenza, inventore di uno stile sincopato e jazzistico) ma pure si rammentava la sostanziale malvagità dell’individuo. Da questa prima breccia sarebbero passati nel ‘68 un numero monografico del Verri, rivista ufficiosa della neoavanguardia, poi la versione da Bompiani nel ’70 del romanzo postumo Rigodon a cura di Ginevra Bompiani.

UN ALTRO TEMPO per la ricezione di Céline stava dunque maturando perché il 1970 è anche l’anno in cui Einaudi, cioè l’emblema della intelligenza di sinistra, decide di accogliere in catalogo lo scrittore maledetto. Promotore è un consulente di eccezionale caratura, il francesista Guido Neri, cui fanno da sponda in casa editrice due redattori, il critico letterario Guido Davico Bonino e lo storico dell’arte Paolo Fossati, ma chi, sia pure silenziosamente, avalla l’iniziativa è Italo Calvino che infatti si rivolge a un giovanissimo studioso bolognese suo corrispondente e scrittore di Comiche (’71), Gianni Celati (1937-2022), il quale associa all’impresa l’amico Lino Gabellone (1943-2015), francesista poi attivo all’Università di Montpellier e firmatario di un volumetto, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton (’77), molto interessante per Calvino che al momento sta scrivendo Le città invisibili.

Va aggiunto che Einaudi commissiona la versione di due testi per così dire laterali, prima i Colloqui con il professor Y, che esce nel febbraio del ’71, lunga dichiarazione di poetica dove Céline si ritrae dalla scabrosità della propria materia per presentarsi come puro stilista e inventore della «resa emotiva», poi nell’ottobre dello stesso anno Il ponte di Londra, seconda parte incompiuta e postuma di Guignol’s band di cui oggi conosciamo il palinsesto riemerso a distanza di ottanta anni e uscito di recente da Adelphi con il semplice titolo di Londra (ne ha scritto Pasquale Di Palmo in Alias-D dello scorso 19 ottobre).

Si tratta di una opzione singolare che se evita il contenzioso ideologico-politico d’altro lato mette in primo piano un Céline anni Quaranta poco conosciuto, intermedio fra i romanzi anni Trenta, Voyage e Mort à crédit, e il ciclo terminale, riparatorio e autoassolutorio, che va sotto il titolo di Trilogie allemande.

A PREPARARE IL TERRENO, nella rivista aziendale di Einaudi («Libri Nuovi», luglio 1971), è Cesare Cases con un articolo, Illusioni illuministiche e paranoia antisemita, dall’incipit eloquente: «Ancora pochi anni fa ci si assicurava che senza una buona ideologia non si potesse fare una buona letteratura. Adesso pare sia il contrario». Di carattere evidentemente autobiografico, Il ponte di Londra, è un romanzo picaresco dove, al tempo dei bombardamenti del 1915-’16, formicola un’umanità marginale e elementare nel suo vitalismo (ladri, prosseneti, prostitute) che arriva in pagina con tutti gli estri dell’epica grandguignolesca. Chi oggi ne recupera l’intera vicenda editoriale, proponendo una eccellente analisi linguistico-stilistica della versione italiana del romanzo, è Giacomo Micheletti con L’anarchia della ribellione permanente. Gianni Celati e Lino Gabellone traduttori di Céline (Quodlibet, «Studio», pp. 232, euro 22).

Non esistevano modelli allora per voltare in italiano la petite musique céliniana: vero che si era dato l’esempio, recentissimo, di Giorgio Caproni e però rimaneva discutibile la sua scelta di rendere l’argot con espressioni toscaneggianti e specie livornesi, così proiettando sulla geografia un linguaggio che pertiene invece alla storia delle società e delle classi sociali. A proposito della lingua coniata da Celati e Gabellone, Micheletti parla invece di un pastiche dove si fondono molteplici reperti, «dall’italiano furbesco al gergo degli ambulanti moderno, dai sali della commedia e della novellistica toscana fino al parlato regionale e ai nuovi slang di piazza di fine anni sessanta».

PER CÉLINE i due traduttori trovano un particolare timbro linguistico, basico e balbettato, con una voce che ha immediate risonanze psichiche prolungandosi nella fisica gesticolazione, né va dimenticato che negli stessi anni Celati, allievo del glottologo Luigi Heilmann, prepara i saggi di Finzioni occidentali (’75) lungo una sequenza di riferimenti che da Swift procede verso Joyce, Gadda, il Beckett di Molloy e le sfrenate disarticolazioni della slapstick comedy. Dirà che l’esempio fondamentale gli era venuto al cinema, una sera, vedendo Jean Gabin parlare in argot, ma del gusto suo e di Gabellone per la pantomima è comunque testimonianza un fotolibro di Carlo Gajani, La bottega dei mimi (’77), che entrambi li ritrae in un domestico palio dei buffi. Né può essere rimosso il fatto che, subito dopo Comiche, Celati scrive un romanzo, Le avventure di Guizzardi (’73), dove il pallido profilo del protagonista subisce di continuo le insorgenze del suo sottosuolo emotivo.

Di una simile koinè Micheletti propone un’analisi organica, dalla morfosintassi (non un dialetto ma una parlata, semmai, con echi padaneggianti) a un lessico in cui si ibridano i gerghi dei malavitosi (qui c’era il bellissimo precedente delle Autobiografie della leggera, ’61, trascritte da Danilo Montaldi), dei ciarlatani e dei girovaghi (l’esempio era stavoltsa nelle ricerche del collega, a Bologna, Piero Camporesi poi confluite ne Il libro dei vagabondi, ’73), con le invenzioni maccheroniche (Celati amava Teofilo Folengo) e gli slogan giovanilistici, verso una perfetta equazione di repertorio comico, nel senso della retorica classica, e di lingua parlata. Il ponte di Londra dev’essere stata tuttavia per entrambi i traduttori un’esperienza esaustiva (anche se, con molta cautela, Celati tornerà dieci anni dopo alla prima parte di Guignol’s band) ed è lo stesso Celati scrivendo all’editore da piazza San Domenico a suggerire il nome del poeta Giuseppe Guglielmi che abita a pochi passi da lui in via Santo Stefano, così che la rossa Bologna, già wagneriana, diviene negli anni Settanta e a tutti gli effetti una città céliniana.

Guglielmi inizia con la versione di Nord (’75) per divenire via via la voce italiana di Céline e pur riconoscendo il fondamentale precedente di Celati e Gabellone («traduzioni brillanti ma non perfettamente fedeli», dirà in un’intervista) il suo proposito non è tanto quello di italianizzare Céline quanto di «célinizzare l’italiano».
Sul suo lavoro c’è una recensione di pieno consenso scritta da Maria Luisa Altieri Biagi («Archivio glottologico italiano», 1-2, 1976) nonché un’efferata stroncatura di Pierluigi Pellini (in appendice a La guerra al buio. Céline e la tradizione del romanzo bellico, Quodlibet 2020) e però la storia di Giuseppe Guglielmi poeta e traduttore di Céline è ancora da scrivere.

Nessun commento:

Posta un commento