domenica 29 marzo 2020

Baricco ottimista disinvolto



Alessandro Baricco, Virus, la Repubblica, 26 marzo 2020


Devo averla già raccontata, ma è il momento di ripeterla. Viene da un bel romanzo svedese. C’è la regina che decide di imparare ad andare a cavallo. Monta in sella. Poi chiede sprezzante al maestro d’equitazione se ci sono della regole. Ed ecco cosa risponde lui: «Prima regola, prudenza. Seconda, audacia ».
Bene, direi che con la prudenza ci stiamo dando un sacco da fare. Possiamo passare all’audacia.
Dobbiamo passare all’audacia.
Se sei un medico, non so cosa possa voler dire essere audaci in questo momento, quindi non mi permetto di dare suggerimenti. Però so esattamente cosa significhi essere audaci, in questo momento, per gli intellettuali: mettere da parte la tristezza, e pensare : cioè capire, leggere il caos, inventariare i mostri mai visti, dare nomi a fenomeni mai vissuti, guardare negli occhi verità schifose e, dopo che hai fatto tutto questo, prenderti il rischio micidiale di dare a tutti qualche certezza . Al lavoro dunque, ognuno nella misura delle sue possibilità e del suo talento. Io in questo momento non sono particolarmente in forma, ma niente mi impedirà di scrivere qui alcune cose che so. È il mio mestiere.
Il mondo non finirà. Né ci ritroveremo in una situazione di anarchia in cui comanderà quello che alle elementari stava all’ultimo banco, non capiva una fava però era grosso e ci godeva a menarti. Sveglia, quelli sono romanzi. Torniamo in noi. E noi noi umani - siamo una specie di agghiacciante pazienza, intelligenza e forza: siamo gente che è riuscita a convertire il creato nel proprio parco di divertimenti grazie a una delle operazioni più violente e ciniche che si potessero immaginare; non solo, ne siamo anche consapevoli: abbiamo dato un nome al bottino di una simile razzia, antropocene , e siamo arrivati ad essere talmente sicuri di noi stessi da iniziare a pensare recentemente di restituire a parte del creato una sua libertà. Siamo quelli lì. Da sempre combattiamo con i virus. Spesso ci hanno messo in ginocchio. Si dà il caso però che in quella posizione scomoda diventiamo ancora più pazienti, cocciuti e furbi.
Stiamo facendo pace col Game, con la civiltà digitale: l’abbiamo fondata, poi abbiamo iniziato a odiarla e adesso stiamo facendo pace con lei. La gente, a tutti i livelli, sta maturando un sensodi fiducia, consuetudine e gratitudine per gli strumenti digitali che si depositerà sul comune sentire e non se ne andrà più. Una delle utopie portanti della rivoluzione digitale era che gli strumenti digitali diventassero un’estensione quasi biologica dei nostri corpi e non delle protesi artificiali che limitavano il nostro essere umani: l’utopia sta diventando prassi quotidiana. In poche settimane copriremo un ritardo che stavamo cumulando per eccesso di nostalgia, timore, sospetto o semplice fighetteria intellettuale. Ci ritroveremo tra le mani una civiltà amica che riusciremo meglio a correggere perché lo faremo senza risentimento.
Chiunque si è accorto di come gli manchino terribilmente, in questi giorni, i rapporti umani non digitali. Capovolgete questa certezza: vuol dire che ne avevamo un sacco, di rapporti umani. Mentre dicevamo cose tipo «ormai la nostra vita passa tutta dai device digitali», quello che facevamo era ammassare una quantità indicibile di rapporti umani. Ce ne accorgiamo adesso, ed è come un risveglio da un piccolo passaggio a vuoto dell’intelligenza. Non dimenticate la lezione, per favore. Anzi, aggiungetene un’altra: tutto questo ci sta insegnando che più lasceremo srotolare la civiltà digitale più assumerà valore, bellezza, importanza e perfino valore economico tutto ciò che ci manterrà umani: corpi, voci naturali, sporcizie fisiche, imperfezioni, abilità delle mani, contatti, fatiche, vicinanze, carezze, temperature, risate e lacrime vere, parole non scritte, e potrei andare avanti per righe e righe. L’umanesimo diventerà la nostra prassi quotidiana e l’unica vera ricchezza: non sarà una disciplina di studi, sarà uno spazio del fare che non ci lasceremo mai rubare. Guardate la furia con cui lo desideriamo ora che un virus l’ha preso in ostaggio, e vi passerà ogni dubbio.
Una crepa che sembrava essersi aperta come una voragine, e che ci stava facendo soffrire, si è chiusa in una settimana: quella che aveva separato la gente dalle élites. In pochi giorni, la gente si è allineata, a prezzo di sacrifici inimmaginabili e in fondo con grande disciplina, alle indicazioni date da una classe politica in cui non riponeva alcuna fiducia e in una classe di medici a cui fino al giorno prima stentava a riconoscere una vera autorità anche su questioni più semplici, tipo quella dei vaccini. Una classe dirigente che non sarebbe mai riuscita a fare una riforma della scuola è riuscita a chiudere in casa un intero Paese. Cosa diavolo è successo? La paura, si dirà: e va bene. Ma non è solo quello. C’è qualcosa di più, qualcosa che ci aiuta a capirci meglio: nonostante le apparenze, noi crediamo nell’intelligenza e nella competenza, desideriamo qualcuno in grado di guidarci, siamo in grado di cambiare la nostra vita sulla base delle indicazioni di qualcuno che la sa più lunga di noi. La nostra rivolta contro le élites è temporaneamente sospesa, ma questo ci può aiutare a capirla meglio: noi crediamo nell’intelligenza, ma non più in quella dei padri;
vogliamo la competenza ma non quella novecentesca ; abbiamo bisogno di qualcuno che decida per noi, ma ci siamo immaginati che non venga da una casta imbambolata da se stessa, stanca e incapace di rigenerarsi .
Riassumo. Volevamo una nuova classe dirigente, continuiamo a volerla: possiamo aspettare, adesso non è il momento di fare casino. Ma ricominceremo a volerla il giorno stesso in cui questa emergenza si ricomporrà.
È probabile che l’emergenza Covid 19 finirà per rivelarsi come un crinale storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza planetaria generata dall’epoca del Game, della rivoluzione digitale, e l’ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un’élite e da un’intelligenza di tipo novecentesco. Lo vedete il crinale? La vedete la contraddizione? Capite perché in questo momento capiamo poco, fatichiamo molto, ci smarriamo facilmente? Ci hanno sfidato a un videogame, e noi abbiamo mandato a combattere degli scacchisti. Siamo esattamente in bilico tra un mondo e l’altro. È una posizione scomodissima. Dovete rendervi conto che anche solo senza smartphone, l’ottanta per cento di quello che vi vedete accadere attorno non sarebbe successo (flusso di informazioni, costruzione di storytelling, maree di paura che vanno e vengono, sopravvivenza in situazione di lockdown quasi totale, velocità delle decisioni…): e tuttavia la gestione di tutto questo è in mano, inevitabilmente, a una razionalità novecentesca. Faccio un caso pratico, così ci capiamo. Il Novecento aveva il culto dello specialista. Un uomo che, dopo una vita di studi, sa moltissimo di una cosa. L’intelligenza del Game è diversa: dato che sa di avere a che fare con una realtà molto fluida e complessa, privilegia un altro tipo di sapiente: quello che sa abbastanza di tutto. Oppure fa lavorare insieme competenze diverse. Non lascerebbe mai dei medici, da soli, a dettare la linea di una risposta a un’emergenza medica: gli metterebbe di fianco, subito, un matematico, un ingegnere, un mercante, uno psicologo e tutto quello che sembrerà opportuno. Anche un clown, se serve. Probabilmente agirebbero con un solo imperativo: velocità. E con una singolare metodologia: sbagliare in fretta, fermarsi mai, provare tutto. Attualmente, invece, il nostro procedere segue altre strade. Ci guida, nel modo migliore possibile, un’élite che, per preparazione e appartenenza generazionale, usa la tecnologia digitale ma non la razionalità digitale. Non possiamo certo fargliene una colpa. Ma questo è il momento di capire che se molto di quello che vi circonda stamattina vi sembra assurdo, una delle ragioni è questa. Grandi Maestri di scacchi che giocano a Fortnite (vinceranno, ma capite che lo stile di gioco alle volte vi sembrerà piuttosto surreale).
Rimanete a casa, perdìo. Lo devo ripetere? Ok, lo ripeto.
Rimanete a casa, perdìo. Con tutto quel che c’è da leggere… L’emergenza Covid 19 ha reso di un’evidenza solare un fenomeno che vagamente intuivamo, ma non sempre accettavamo: da tempo, ormai, a dettare l’agenda degli umani è la paura. Abbiamo bisogno di una quota giornaliera di paura per entrare in azione. Adesso il virus copre il nostro intero fabbisogno, e infatti chi è più spaventato dagli immigrati o dal terrorismo o da Salvini o dagli effetti dei videogames sui figli o dal glutine? Ma anche solo venti giorni fa ne avevamo un gran bisogno,di quelle paure. Le coltivavamo come orchidee. In alcuni momenti di carestia ci siamo fatti bastare un’emergenzameteo o una possibile crisi di governo (capirai). Sappiamo ormai giocare solo coi pezzi neri: se prima la paura non muove, noi non abbiamo strategia. Volevo invece ricordare – e farlo proprio in questi giorni - che noi siamo vivi per realizzare delle idee, costruire qualche paradiso, migliorare i nostri gesti, capire una cosa di più al giorno, e completare, con un certo gusto magari, la creazione. Cosa c’entra la paura? La nostra agenda dovrebbe essere dettata dalla voglia, non dalla paura. Dai desideri. Dalle visioni, santo cielo, non dagli incubi.
(Questa è delicata. Astenersi perditempo). A nessuno sfugge, in questi giorni, il dubbio di una certa sproporzione tra il rischio reale e le misure per affrontarlo. Ce la possono spiegare come vogliono, ma la sensazione resta: una certa sproporzione. Non voglio infilarmi in quei paragoni che poi ti portano a raffrontare i morti di Covid 19 con quelli causati dal diabete o dalla scivolosità della cera da pavimenti. Ma resta, ineliminabile, il dubbio che da qualche parte stiamo scontando una certa incapacità a trovare una proporzione aurea tra l’entità del rischio e l’entità delle contromisure. In parte la possiamo sicuramente mettere in conto a quell’intelligenza là, quella novecentesca, alle sue logiche, alla sua scarsa flessibilità, alla sua adorazione per lo specialismo. Tuttavia la faccenda non si risolve lì. Se io cerco di guardare dentro quella sproporzione che tanto ci infastidisce e interroga, alla fine trovo qualcosa che adesso è dura da dire, ma come dicevo è il momento dell’audacia, quindi bisogna dirla. C’è un’inerzia collettiva, dentro a quella apparente sproporzione, un sentimento collettivo che tutti contribuiamo a costruire: abbiamo troppa paura di morire. È come se il diritto alla salute (una fantastica conquista) si fosse irrigidito in un impossibile diritto a una vita perenne, che d’altronde nessuno ci può assicurare. Ora, il rapporto con la morte, e con la paura della morte, è una cosa innanzitutto individuale, una faccenda che ognuno si gestisce da sé (io per esempio me la cavo da schifo). Ma in seconda battuta la paura della morte è anche un sentimento collettivo che le comunità degli umani sono da sempre attente a edificare, limare, correggere, controllare. Per dire, la civiltà di mio nonno, che ancora aveva bisogno delle guerre per mantenersi in vita, stava attenta a tenere alta una certa “capacità di morte”. Noi siamo una civiltà che ha scelto la pace (in linea di massima) e dunque abbiamo smesso di coltivare una collettiva abitudine a pensare la morte. Come comunità la combattiamo, ma non la pensiamo. Invece, la meraviglia di una civiltà di pacesarebbe proprio riuscire a pensare la morte di nuovo, e accettarla, non con coraggio, con saggezza; non come un’offesa indicibile ma come un movimento del nostro respiro, una semplice inflessione del nostro andare, forse la cresta di un’onda che siamo e chenon smetteremo maidi essere. Non è che un individuo da solo, possa arrivare spesso a certe leggerezza di sentire: ma una comunità sì, lo può fare. Delle comunità, in passato, sono state capaci di portare a morire milioni dei loro figli per un ideale, bello o aberrante che fosse: perché una comunità non dovrebbe essere capace di portare tutti i suoi figli a capire che il primo modo di morire è avere troppa paura di farlo?
10 Molti si chiedono cosa accadrà dopo. Una cosa possibile, mi tocca registrarlo, è che non ci sarà un dopo. Non nel senso che moriremo tutti, no, ovviamente no, l’ho già detto. Ma in questo senso: ci stiamo accorgendo che solo nelle situazioni di emergenza il sistema torna a funzionare bene. Il patto tra gente e le élites si rinsalda, una certa disciplina sociale viene ristabilita, ogni individuo si sente responsabilizzato, si forma una solidarietà diffusa, cala il livello di litigiosità, ecc., ecc. Insomma, per quanto possa sembrare assurdo, la macchina smette di perdere i pezzi quando supera i duecento chilometri orari. Quindi è possibile che si scelga, in effetti, di non scendere più sotto quella velocità: l’emergenza come scenario cronico di tutto il nostro futuro. In questo senso il caso Covid 19 ha tutta l’aria di essere la grande prova generale per il prossimo livello del gioco, la missione finale: salvare il pianeta. L’emergenza totale, cronica, lunghissima, in cui tutto tornerà a funzionare. Non so dire francamente se sia uno scenarioaugurabile, manonpossonegare che una sua razionalità ce l’ha. E anche abbastanza coerente con l’intelligenza del Game, che resta un’intelligenza vagamente tossica, che ha bisogno di stimoli ripetuti e intensi, che dà il meglio di sé in un clima di sfida, e che tutto sommato è stato inventata da dei problem solver, non da dei poeti.
Ultima. Non me ne intendo, ma ci vuol poco a capire che tutto quello che sta succedendo ci costerà un mucchio di soldi. Molto peggio della crisi economica del 2009, a fiuto. Vorrei dire una cosa: sarà un’opportunità enorme, storica. Se c’è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo, ma non lo è. E’ un problema che mina alla base la salute del nostro sistema, che sbugiarda qualsiasi nostra ipotetica felicità e che si divora qualsiasi nostra credibilità, come un cancro. La difficoltà è che certe cose non si riformano, non si ottengono con un graduale, farmaceutico miglioramento, non si migliorano un tantino al giorno, a piccole dosi. Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare. Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c’è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla.

giovedì 26 marzo 2020

Il mappamondo di Giacomo




Massimo NataleIl canto di Leopardi è un campo lungo
il manifesto 1 marzo 2020

L’ultimo lavoro di Gilberto Lonardi, Il mappamondo di Giacomo Leopardi, l’antico, un filosofo indiano, il sublime del qualunque (Marsilio «saggi», pp. 267, € 25,00) corona il lunghissimo corpo a corpo del suo autore con la poesia leopardiana, e arriva al culmine di una trilogia aperta da L’oro di Omero (Marsilio, 2005), e proseguita più di recente con L’Achille dei ‘Canti’ (Le Lettere, 2017). È piuttosto chiaro sin dai titoli citati che un tale, continuo confronto si imperniava, fin qui, sull’amore incontrastato che Leopardi nutre da subito per la Grecia antichissima («Cosa terribile: non aver conosciuto Omero» scriveva per esempio Giacomo, introducendo la Titanomachia di Esiodo da lui tradotta nel 1817, mostrandosi a tutti i costi come un graeculus). Ma ora Lonardi, oltre a risalire di nuovo con Leopardi verso l’Antico – vedi per esempio la splendida lettura della canzone Alla sua Donna (1823), segnata dall’attenzione di Giacomo per un lirico come Anacreonte – sposta il suo sguardo verso un altro epicentro profondo della scrittura leopardiana, ovvero l’Oriente. In questa indagine alla dimensione-tempo si sostituisce dunque – o meglio si affianca – una dimensione decisiva per l’impulso immaginativo di Leopardi, cioè lo spazio: ecco il motivo di quel mappamondo scelto allora per il titolo. Ed eccoci, d’altra parte, davanti a un’altra «lunga durata» leopardiana, cioè l’interesse che Giacomo riserva al mondo orientale, che comincia almeno con un’opera di compilazione erudita come la Storia dell’astronomia – scritta a soli quindici anni, nel 1813 – e arriva fino a uno dei capolavori del Leopardi poeta, cioè il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: una lirica che è, infatti, il nucleo principale di queste pagine, e a cui è dedicato il capitolo più cospicuo del volume.
Che l’immaginazione di Leopardi si dedichi con forza all’Oriente lo si capisce in effetti da vari momenti, anche a stare al solo Zibaldone di pensieri, nel quale Giacomo si appunta l’ipotesi – nell’aprile del 1826 – di far pronunciare un discorso sul Male proprio a un «filosofo antico, indiano». Ma è il pastore del Canto notturno a coniugare perfettamente questa sincronia fra Grecia originaria e Oriente: il pastore canta come un antichissimo aedo, addirittura mimando la formularità delle omeriche ‘parole alate’ (questo, per Lonardi, il segreto della ritornante rima in –ale, che attraversa l’intera lirica). E, al contempo, lo stesso pastore torna proprio al problema filosofico del Male («A me la vita è male», dice un verso memorabile del Canto notturno), affrontato con l’aiuto di alcuni grandi nomi o figure del mondo orientale: da Arimane – dio malvagio cui Leopardi vorrebbe dedicare addirittura un inno, del quale resterà poi soltanto un abbozzo – fino a Buddha, le cui verità sembrano stingere su alcune conquiste della riflessione leopardiana, come l’idea che l’intera realtà sia malvagia («Tutto è male», si legge in una vertiginosa pagina dello Zibaldone, nel 1826). O che lo stesso «principio delle cose, e di Dio stesso» sia «il nulla» (così Leopardi, di nuovo nello Zibaldone, già nel 1821): fra letture e scorribande nelle stanze silenziose della biblioteca paterna ci troviamo di fronte ad alcune acquisizioni e ad alcuni percorsi davvero nuovi, pur nel mare magnum di una critica sempre in movimento come quella leopardiana. Ma più di tutto conta che questa forte attrazione per l’Oriente abbia infine bisogno, per inverarsi, di quell’oggetto ricco e strano che è la poesia: abbia bisogno di un canto.
Ciò che soprattutto contraddistingue il lavoro di Lonardi è, di conseguenza, l’assoluta priorità che qui viene accordata al fatto poetico, anche al di là del tema orientale. Basterà considerare, per intendersi, queste poche righe: «I grandi poeti è appunto nell’atto del fare poesia che spesso ‘afferrano’ un di più: vedono oltre la loro vista (…). La loro poesia riconosce, sa oltre quanto loro stessi sanno; sa qualcosa o molto che lei solo afferra e manifesta». Al lettore si mostra presto un’evidenza: per Lonardi non c’è alcun possibile incontro con il pensiero di Leopardi se non ci si misura anche con la trama dei versi e delle rime, insomma con l’ambiguità della poesia. È significativo, in tal senso, che questo studio si chiuda con un capitolo dedicato proprio al titolo del libro di liriche leopardiano, cioè Canti: un titolo assolutamente nuovo per la tradizione italiana, eppure – insieme – potentemente antico, in debito con quell’oralità arcaica di cui Leopardi sente forte la seduzione, e proprio nel giro di tempo – teste lo Zibaldone, grosso modo fra il 1828 e il 1830 – in cui nascono i cosiddetti canti pisano-recanatesi, e dunque lo stesso Canto notturno.
Tenere al centro il Leopardi poeta non significa qui, tuttavia, fare di Leopardi soltanto un grande classico della tradizione lirica italiana. Significa, piuttosto, rendersi conto che proprio all’altezza dell’esperienza leopardiana la tradizione nostrana si estingue e comincia qualcos’altro. Si potrebbe dire che il libro dei Canti è fra i primi campioni della modernità poetica a interiorizzare un’impossibilità, una sorta di scacco della poesia, incapace di dire fino in fondo la realtà (e infatti, in una delle ultime pagine del libro, Lonardi ricorda proprio l’impuissance della poesia moderna per come la diagnosticava fra gli altri Mallarmé). Leopardi è insomma la vetta ultima di una tradizione – che guarda in realtà fino alla lirica greca, ben oltre le sue origini romanze – e che al contempo segna un corso diverso, «fa» lui stesso tradizione. Per questo è importante leggere Leopardi, per così dire, in campo lungo: tenendo conto delle sue radici, e insieme di quanto è venuto dopo di lui e è nato dalla sua stessa svolta. Ed ecco Lonardi ricorrere allora al Montale di Notizie dall’Amiata per La sera del dì di festa, oppure spendere il nome di Caproni per rileggere con piena ammirazione – e non come un idillio in ritardo o non riuscito, come è stato erroneamente fatto – il grande Tramonto della luna, scritto quando Leopardi è ormai vicino al congedo dall’esistenza.
L’ultimo Leopardi è anche il poeta che, all’ombra del Vesuvio, scrive la monumentale Ginestra, che i lettori hanno interpretato, in diversi modi, come una lirica-testamento, il cuore pulsante della fase finale della parabola leopardiana. Un indizio importante dell’originalità dell’atteggiamento critico che si incontra fra queste pagine è il fatto che Lonardi, quando guarda all’ultimo Leopardi, si scelga come punto elettivo non il più lungo e imponente fra i Canti, dedicato al fiore del deserto, ma una breve poesia, apparentemente marginale – che è peraltro la traduzione di una lirica francese di Antoine-Vincent Arnault – ovvero Imitazione, che nel libro leopardiano segue immediatamente la Ginestra, come un suo contraltare. Qui una foglia che cade dal proprio ramo – dunque un altro agente vegetale, come la ginestra, e ancora più in basso di lei nella scala dell’essere – pronuncia poche parole sapienziali sull’inesorabilità del ciclo naturale e sul mistero del reale («vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro», dice la foglia). Nell’immagine povera della foglia che cade Lonardi ritrova quel che lui stesso chiama – sfruttando un passo zibaldoniano – il ‘sublime del qualunque’: cioè l’idea che anche elementi periferici della realtà – una foglia, una pastore senza nome che innalza canti alla luna, il canto stesso di una filatrice – possano sprigionare il pathos della grandezza. Passa anche da qui la differenza di Leopardi, sempre valorizzata da Lonardi, diciamo pure la sua eccezionalità nel panorama della prima modernità italiana: dalla sua capacità di abbassare l’io, di mettergli la sordina, rendendo così la poesia il luogo di una creaturalità dolente e fraterna.

sabato 14 marzo 2020

Angoscia





Edoardo Camurri, Il Foglio, 12 marzo 2020


ANGOSCIA. L’angoscia è il sentimento che si sta diffondendo ovunque a causa della pandemia, ed è il sentimento principale capace di comprendere in sé tutti gli altri sentimenti e fenomeni che ci stanno possedendo: incertezza, disorientamento, oscurità, fantasmi, panico. Si prova angoscia quando si ha paura dell’indefinito e dell’inafferrabile, del non riconoscibile e dell’ignoto. Si ha angoscia quando si ha la sensazione che ciò che è normale e familiare sia come infettato da un fantasma e che questo fantasma stia mutando impercettibilmente ma rigorosamente i connotati di ciò che progressivamente sta svanendo sotto i nostri occhi. Angoscia è paura del nulla, ma è un nulla attivo e dissolutore, di cui ignoriamo ogni cosa e di cui arriviamo persino, nei rari momenti di ottimismo che la logica sadica dell’angoscia ci lascia, a dubitare della sua effettiva consistenza. Come nel romanzo di fantascienza L’occhio del purgatorio di quello strano e meraviglioso scrittore francese della prima metà del Novecento, Jacques Spitz, in cui il protagonista usa un collirio che fa svanire il mondo esterno; il collirio agisce gradualmente: prima ti fa vedere il mondo con qualche secondo di anticipo, poi di qualche ora, di qualche giorno, di qualche mese e così via, fino a percepire, in questa corsa verso il futuro, gli altri già come dei cadaveri semoventi e parlanti, degli scheletri, culminando infine nella scomparsa definitiva del mondo esterno, in un noumenico nulla attivo. L’angoscia di questo tempo rende irriconoscibile e imprevedibile ciò che ci circonda.


La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
(Inferno, V, 31-33)

Il turbine infernale, che non si ferma mai,
trascina gli spiriti con la sua violenza:
li rivolta, li colpisce e li inquieta.

domenica 8 marzo 2020

Hemingway e Stendhal

Hemingway con Fernanda Pivano
Gian Luca Favetto racconta Ernest Hemingway, Gribaudo, Torino 1997

Di Hemingway, Pavese condivide l'idea della letteratura come vita, ama la "miracolosa immediatezza espressiva, quel nativo senso della terra e della realtà, quella cruda saggezza". Lo considera, ancora vivente, un classico. Il 14 marzo 1947 annota: "Hemingway è lo Stendhal del nostro tempo". E cinque giorni dopo: "Stendhal-Hemingway. Non raccontano il mondo, la società, non danno il senso di attingere a una larga realtà interpretando a scelta, a, volontà - come Balzac, come Tolstoj, come ecc... Hanno una costante di tensione umana che si risolve in situazioni sensorio-ambientali rese con assoluta immediatezza. Altre non ne saprebbero rendere, come invece i suddetti. Su questa costante hanno costruito un'ideologia, che è poi il loro mestiere di narratori: l'energia, la chiarezza, la non-letteratura... Sono i tipici narratori in prima persona". Il 22 marzo, definendo il Moby Dick di Melville puro ritmo, chiosa: "Narrerà ora non chi 'conasce la natura umana' e ha fatto scoperta di psicologie significative e profonde, ma chi possiede blocchi di realtà, esperienze angolari che gli ritmano e cadenzano e ricamano il discorso. Hemingway ha la morte violenta...".

sabato 7 marzo 2020

Apollinaire, la contessina e il lupo






















Prima di tutto ci sono questi "mirabili versi" (Mario Richter, Apollinaire, Il Mulino, Bologna 1990, p. 255):

LA CHIAMAVANO LOU

Ci sono lupi di ogni sorta
Io conosco il più inumano
Il cuor mio il diavolo una volta
Se lo trascini alla sua porta
Come un trastullo ce l'ha in mano.

I lupi un dì eran pecorelle
Fedeli come cuccioloni
E vagheggiando le lor belle donne
Anche i soldati grazie a quelle
Non eran meno giuggioloni.

Ma i tempi sono peggiorati
I lupi sono tigri in genere
E Imperi e Cesari e Soldati
Oggi Vampiri diventati
Non men crudeli son di Venere.

Così Rouveyre mi son deciso
E in groppa al mio destriero op là
Vo a guerreggiar casto e nel viso
Senza pietà e senza un sorriso
Come i guerrieri che Epinal

Vendeva Legni popolari
Che Georgin incise con forza
Dove sono i più bei militari
Quei soldaton Dove le guerre
Dove le guerre d'una volta
(traduzione di Giorgio Caproni)

C'EST LOU QU'ON LA NOMMAIT

Il est des loups de toute sorte
Je connais le plus inhumain
Mon cœur que le diable l'emporte
Et qu'il le dépose à sa porte
N'est plus qu'un jouet dans sa main.

Les loups jadis étaient fidèles
Comme sont les petits toutous
Et les soldats amants des belles
Galamment en souvenir d'elles
Ainsi que les loups étaient doux

Mais aujourd'hui les temps sont pires
Les loups sont tigres devenus
Et les Soldats et les Empires
Les Césars devenus Vampires
Sont aussi cruels que Vénus

J'en ai pris mon parti Rouveyre
Et monté sur mon grand cheval
Je vais bientôt partir en guerre
Sans pitié chaste et l'œil sévère
Comme ces guerriers qu'Épinal

Vendait Images populaires
Que Georgin gravait dans le bois
Où sont-ils ces beaux militaires
Soldats passés Où sont les guerres
Où sont les guerres d'autrefois
Guillaume Apollinaire (1880 - 1918)

Sul poeta ci sarebbe molto da dire, e sulla sua visione della donna. Quello che ogni lettore è in grado di cogliere senza tante mediazioni è la naturalezza del testo. Come spesso accade in Apollinaire a dominare è una apparente noncuranza o leggerezza che dir si voglia. Per questo il riferimento quasi ossessivo al lupo nel testo può stupire il lettore italiano. La spiegazione è semplice, anche se molte volte manca nelle note dei traduttori. Come è noto Lou era il nomignolo con il quale veniva chiamata la contessina Geneviève-Marguerite-Marie-Louise de Pillot de Coligny-Châtillon: sfilza di appellativi tra i quali spicca Coligny, sì, proprio lui, Coligny, l'ammiraglio protestante ucciso nella notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572). Si chiamava Gaspard e sua figlia Louise andò sposa in seconde nozze a Guglielmo d'Orange (di lei si è occupata Eliana Bouchard in un romanzo, Louise. Canzone senza pause, Bollati Boringhieri 2008). Chiusa la lunga parentesi, veniamo al punto: Lou in francese ha lo stesso suono di «loup», cioè «lupo». Ora il lupo di Apollinaire nella poesia non è esattamente un lupacchiotto, è diventato addirittura una tigre. Un certo sadismo vendicativo scorre in effetti tra i versi. Vendicativo e ironico, affettuoso in fondo. Magico.

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