Giovanni Maria Vian
Un paradiso (terrestre) forse perduto. Il grande film di Teilhard de Chardin
Domani, 11 ottobre 2025
Dalla vita di Pierre Teilhard de Chardin, il gesuita più famoso del XX secolo, si potrebbe ricavare un’appassionante serie televisiva. Lo scienziato – geologo e paleontologo di vaglia – era già entrato nel primo romanzo vaticano di Morris West, Nei panni di Pietro, poi portato sullo schermo da Michael Anderson (L’uomo venuto dal Kremlino). Uscito il 3 giugno 1963, giorno in cui moriva Giovanni XXIII, «il papa buono», il libro immaginava l’elezione di un cardinale dell’Est europeo, l’ucraino Kiril Lakota, quindici anni prima del conclave rivoluzionario che sceglierà Karol Wojtyła.
L’anno precedente, nel 1962, il Sant’Uffizio aveva pubblicato un monitum che metteva in guardia contro «ambiguità e anche errori» in ambito filosofico e teologico presenti nell’opera di Teilhard, morto ormai da sette anni. Il punto cruciale era l’evoluzionismo. «Più risuscitiamo il Passato, e meno troviamo posto sia per Adamo che per il Paradiso terrestre» – e di conseguenza anche per il peccato originale – aveva scritto già nel 1922.
Cattolico progressista nonché buon conoscitore del Vaticano, lo scrittore australiano mette in scena Teilhard con un nome immediatamente riconoscibile al suo arrivo all’aeroporto di Fiumicino accolto dal generale dei gesuiti.
Anche le fattezze richiamano quelle del religioso francese, che però nelle fotografie autentiche è molto più affascinante della descrizione immaginaria: «Jean Télémond era un uomo che non poteva passare inosservato. Alto un metro e novanta, diritto come la canna di un fucile, scarno di viso, con i capelli grigi e gli occhi azzurri imperturbabili e arguti, portava la veste nera come una divisa; anche il colore giallo malarico della pelle e le rughe intorno alla bocca dagli angoli rivolti all’insù raccontavano la storia delle sue campagne in paesi esotici».
Superare la fantasia
Non conviene rivelare di più, ma se la vicenda immaginaria di padre Télémond attrae, la realtà a cui s’ispira supera la fantasia. Ancor più appassiona la storia dell’aristocratico gesuita, discendente per via materna da Voltaire.
Le ricostruzioni della sua vita sono almeno una trentina, ma l’ultima biografa, Mercè Prats, in un intelligente e magnifico libro (ora edito in italiano dalla Libreria editrice vaticana), non esita a parlare di un’«eclisse» di Teilhard, «per molti un perfetto sconosciuto. Eppure, tra coloro che lo leggono continua a suscitare dibattiti appassionati» aggiunge.
Prats, storica autentica che lo ha studiato a lungo scandagliando archivi prima inaccessibili, sceglie di ritrovarne la vita e di fermarsi «prima della fioritura di tutti gli “ismi” associati al suo nome». Ma non manca di accennare alle varie letture di Teilhard: nel 2015 papa Francesco lo ha fatto evocare in una nota dell’enciclica Laudato si’ a proposito di «Cristo risorto, fulcro della maturazione universale».
All’opposto, Jean-Luc Mélenchon durante la campagna presidenziale del 2022 è arrivato a dire che i testi del gesuita gli hanno permesso di «passare con facilità alla filosofia materialista».
Materia e spirito
Più di Bergoglio sono tre suoi predecessori che, pur non abrogando l’ammonizione curiale del 1962, l’hanno di fatto accantonata. Riprendendo nel 1966 una convinzione del paleontologo autore di scoperte fondamentali in Cina – «più studio la materia più trovo lo spirito» – Paolo VI afferma che Teilhard «ha saputo leggere dentro le cose un principio intelligente che deve chiamarsi Iddio». Nel tentare di conciliare fede e ragione, la sua opera è «fuori del comune» fa scrivere Wojtyła nel 1981.
Più volte Ratzinger, come teologo e come papa, ha scritto dello scienziato, con sottili ragionamenti e puntualizzazioni, ma con un sostanziale apprezzamento. L’ultima volta, nel 2009, ribadisce l’affermazione, risalente all’antichità cristiana, che l’intero mondo «diventi liturgia» e non resti una realtà separata: «È la grande visione che poi ha avuto anche Teilhard de Chardin: alla fine avremo una vera liturgia cosmica». La frase di Benedetto XVI coglie il punto centrale del pensiero teilhardiano che immagina l’universo evolvere verso un punto finale, «il punto omega», che è Cristo.
Per arrivare a questa grandiosa costruzione Teilhard è protagonista di una vera e propria «mistica della traversata». Così scrive Edith de la Héronnière, trascinante come gli innumerevoli scritti dello scienziato, in un libro edito in Italia da L’Ippocampo e intessuto appunto di citazioni: in particolare dal diario e dalle moltissime lettere di questo «evoluzionista cristiano» soprattutto con mezza dozzina di amiche innamorate di lui, a iniziare da una cugina. Testimoniando di rapporti sentimentali profondi durante i quali, pur suscitando sconcerto, mai il gesuita – appassionato e nello stesso tempo rigoroso con sé stesso – venne meno al suo voto di castità.
Quarto di undici figli, Pierre nasce nel 1881. Bimbo timido e sognatore, entra undicenne nella Compagnia di Gesù. Tra i suoi professori c’è Henri Brémond, studioso di Newman che dovrà abbandonare i gesuiti (ma non il sacerdozio) e – autore della monumentale Histoire littéraire du sentiment religieux en France – diverrà accademico di Francia. Una trentina d’anni più tardi ricorderà quell’allievo «molto intelligente, il primo in tutto ma di una disperante compostezza», posseduto da «un’altra passione, avida, totalizzante che lo faceva vivere lontano da noi: le pietre».
Il destino del giovane religioso è racchiuso in quella frase di Brémond. Trascorsa anche in Inghilterra la sapiente formazione che un tempo era prerogativa ineguagliabile dei gesuiti, viene mandato a insegnare fisica e chimica nel loro liceo al Cairo.
Profumi d’Oriente
Dell’Oriente ricorderà la «predilezione per quelle regioni calde e desertiche dell’Arabia, cariche di profumi d’incenso e di caffè», ben «consapevole di come le mie simpatie e la mia indole – incapace di prescindere dal cristianesimo – inclinino indiscutibilmente per quella parte del mondo non ancora cristianizzata». Dove intesse anche una profonda amicizia con una sorta di pirata, Henri de Monfreid.
Non attirato da filosofia e teologia ma appunto dalle «pietre», Teilhard diventa un missionario, dopo la fondamentale e rimpianta esperienza della prima guerra mondiale, dov’è audace portaferiti. I viaggi si moltiplicano soprattutto in Cina, scenario delle sue principali scoperte, in Africa, in America. Anche per allontanarsi e ripararsi dal controllo di Roma – che pure descrive come «il polo cristianico della terra» da cui passa «l’asse ascensionale dell’ominizzazione» – e del suo ordine, in stagioni di dura repressione antimodernista, tra la metà degli anni venti all’inizio degli anni cinquanta, difeso però dai più importanti gesuiti del secolo: Henri de Lubac e Jean Daniélou.
Teilhard muore all’improvviso a New York il 10 aprile 1955, a casa dell’amica Rhoda de Terra dove con altri amici stava prendendo il tè dopo aver partecipato, nella cattedrale di San Patrizio alla messa più solenne, quella di Pasqua. «Dio tutto in tutti» sono le ultime parole trascritte (da san Paolo) sul suo diario.

Nessun commento:
Posta un commento