domenica 27 agosto 2017

Aliénor



ELEONORA D'AQUITANIA

Eliana Di Caro, Donne ribelli in cerca di libertà, Il Sole24ore, 20 luglio 2017


C'erano quelle che fuggivano nei monasteri, per sottrarsi all’oppressione e alla violenza di mariti che non sarebbero mai cambiati; e c’erano coloro che fuggivano dai monasteri, desiderose di conoscere una vita diversa da quella che avevano deciso per loro i genitori, recludendole tra quattro mura in un’atmosfera di tetra solitudine. C’erano le donne il cui tentativo andava a buon fine e quelle che venivano prese e ricondotte a un’esistenza infelice.
Leggendo l’accurato Donne in fuga (il Mulino) di Maria Serena Mazzi, ordinaria di Storia medievale, si partecipa alle traversie di queste coraggiose ribelli, di cui ci è giunta notizia attraverso atti giudiziari, documenti e resoconti redatti naturalmente da uomini, in un’epoca in cui all’altra metà del cielo non è concesso di studiare.
... È in questo panorama che si distinguono diverse figure, descritte nel libro. Due, per chi scrive, esemplari. La prima, Eleonora d’Aquitania. Cresciuta alla corte del nonno Guglielmo IX, alla morte dei suoi cari nel 1137 si ritrova ricca e potente, nella contea di Poitou e Guascogna. Sposa Luigi VII di Francia: lei ha 13 anni, lui 16. Ma in 15 anni di matrimonio, arrivano solo due femmine e la successione al trono non è garantita. La “colpa”, inutile dirlo, ricade su Eleonora. Nel 1152 viene sciolto il vincolo matrimoniale e lei, a quel punto preda non da poco, sventa ben due rapimenti e si lega a Enrico, duca di Normandia e futuro re di Inghilterra, cui dà - udite udite- cinque maschi e tre femmine. Di fronte al tradimento reiterato del consorte, Eleonora non abbassa la testa e se ne va, nonostante la Chiesa tuoni contro di lei per l’abbandono del tetto familiare. Una figura orgogliosa e indipendente come poche.
Il secondo esempio è quello di una donna di cui non ci è giunto neanche il nome, si sa solo che vive con il marito nel vicariato di Anghiari (Arezzo), nel 1416, ma la sua storia è indicativa del destino cui andavano incontro coloro che nascevano in contesti umili. Dai documenti emerge che l’uomo ha una giovane amante con cui intende trascorrere il resto dei suoi anni, e per farlo senza scatenare l’ira della comunità pensa bene di indurre la moglie a lasciarlo rendendole la vita un inferno: botte, umiliazioni, insulti. Ma i pettegolezzi (o la delazione) di un vicino gli intralciano i piani: il vicario condanna il fedifrago e anche - incredibilmente - la moglie per complicità nell’accaduto. Ma lei, nel frattempo, sfinita dalle angherie del marito, era già fuggita!
...

mercoledì 23 agosto 2017

Croce a Casamicciola, 1883


Memorie della mia vita

Nelle "Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati sostituiti dal Contributo alla critica di me stesso", alla data del 10 aprile 1902, Benedetto Croce scrive: "Nel luglio 1883 mi trovavo da pochi giorni, con mio padre, mia madre e mia sorella Maria, a Casamicciola, in una pensione chiamata Villa Verde nell'alto della città, quando la sera del 29 accadde il terribile tremoto. Ricordo che si era finito di pranzare, e stavamo raccolti tutti in una stanza che dava sulla terrazza: mio padre scriveva una lettera, io leggevo di fronte a lui, mia madre e mia sorella discorrevano in un angolo l'una accanto all'altra, quando un rombo si udì cupo e prolungato, e nell'attimo stesso l'edifizio si sgretolò su di noi. Vidi in un baleno mio padre levarsi in piedi e mia sorella gettarsi nelle braccia di mia madre; io istintivamente sbalzai sulla terrazza, che mi si aprì sotto i piedi, e perdetti ogni coscienza.

Rinvenni a notte alta, e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò che era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina, fui cavato fuori da due soldati e steso su una barella all'aperto. Mio cugino fu tra i primi a recarsi da Napoli a Casamicciola, appena giunta notizia vaga del disastro. Ed egli mi fece trasportare a Napoli in casa sua. Mio padre, mia madre e mia sorella, furono rinvenuti solo nei giorni seguenti, morti sotto le macerie: mia sorella e mia madre abbracciate. Io m'ero rotto il braccio destro nel gomito, e fratturato in più punti il femore destro; ma risentivo poco o nessuna sofferenza, anzi come una certa consolazione di avere, in quel disastro, anche io ricevuto qualche danno: provavo come un rimorso di essermi salvato solo tra i miei, e l'idea di restare storpio o altrimenti offeso mi riusciva indifferente" .

martedì 22 agosto 2017

Rastignac



Honoré de Balzac, Le Père Goriot, 1834


Rastignac, rimasto solo, fece qualche passo verso la parte alta del cimitero, e vide Parigi tortuosamente distesa lungo le due rive della Senna, ove cominciavano ad accendersi i lumi.
I suoi occhi si fissarono quasi avidamente tra la colonna della piazza Vendome e la cupola degli Invalidi, là, dove viveva quel bel mondo nel quale aveva voluto penetrare. Egli gettò su quell'alveare ronzante uno sguardo che sembrava assorbirne in anticipo il miele, e pronunciò queste parole grandiose:
- E ora, a noi due!

 
Rastignac, resté seul, fit quelques pas vers le haut du cimetière et vit Paris tortueusement couché le long des deux rives de la Seine, où commençaient à briller les lumières. Ses yeux s'attachèrent presque avidement entre la colonne de la place Vendôme et le dôme des Invalides, là où vivait ce beau monde dans lequel il avait voulu pénétrer. Il lança sur cette ruche bourdonnant un regard qui semblait par avance en pomper le miel et dit ces mots grandioses : « A nous deux maintenant !

domenica 20 agosto 2017

Il buco nero della rete




Annalena Benini, Quanti amici? Ha annunciato il suo suicidio su Facebook. Scambiare la vita vera con la terra di nessuno, Il Foglio, 18 agosto 2017

Arrivi a un punto della vita che ti chiedi se restare o no… io non resto…", il messaggio bianco su sfondo nero che un uomo di cinquantasei anni, istruttore di equitazione per disabili, in lutto per la madre appena morta e padre di due figli, aveva postato su Facebook la notte di Ferragosto. Con l’intenzione di annunciare il suo suicidio, avvenuto nelle ore successive, o sperando di farsi aiutare da quei quasi quattromila amici? Quattromila amici sono una folla, un paese di persone dentro le case, ma quattromila amici di Facebook possono non sfiorare mai la realtà. Sono nomi in fila uno dopo l’altro, sono persone con i canederli nel piatto in montagna e le foto dei gatti e dei figli e l’indignazione contro i politici o contro la maleducazione sulle spiagge, ma sono capaci, in questo immenso mare di relazioni in cui ognuno sceglie i codici, il grado di passione e di aspettative, di mettere un like, o un cuore, sotto le parole di un uomo che dice: ora mi ammazzo.

Non per cattiveria, ma per distrazione, più precisamente per questo dondolarsi dentro un mondo in cui non ha molta importanza che cosa è vero e cosa è uno scherzo, un gioco, un falso. Non è la verità, è la vita di Facebook, adatta a raccontare le vacanze e i ristoranti e ad arrabbiarsi tutti insieme per un cane abbandonato e per Matteo Salvini. Non è il rapporto fra due persone che si chiedono: come ti senti oggi? E’ tutto ingigantito, ma allo stesso tempo attutito, reso pallido, dalla sensazione di stare soli su un palco. Il pubblico in platea applaude a volte, ma forse sono solo manichini. Gli amici sono altrove. Quindi è insensato scandalizzarsi perché nessuno dei quattromila amici abbia pensato di dare l’allarme o di telefonare a quest’uomo di cinquantasei anni e dirgli: fermati, sto arrivando. Perché il massimo della personalizzazione, la domanda dello status di Facebook: a cosa stai pensando?, rende tutto impersonale ed evanescente. Sto pensando di farla finita. Forse è una battuta, forse è il preludio di un nuovo status sui risultati della partita di calcio, forse è una citazione colta e io non l’ho capita, forse è un altro proverbio cherokee, forse è niente, è solo Facebook.

Giuseppe Pellegrin è stato trovato impiccato davanti al maneggio di cui era presidente, a Galliera Veneta in provincia di Padova. E allora qualcuno degli amici di Facebook è corso a scrivere sotto quell’annuncio di poche ore prima: riposa in pace, la terra ti sia lieve, vola per questo lungo viaggio, qualche faccina che piange, qualche pollice alzato, sempre in pubblico, sempre sul palco di una recita di scarso successo. Giuseppe Pellegrin ha messo in quelle parole il senso e il valore delle cose che aveva dentro (il dolore, la stanchezza, il lutto, la speranza), ma ha creduto di lanciare quelle parole nel suo mondo, e Facebook non è il mondo di nessuno. E’ un posto che ci riguarda, che conosciamo, che a volte ci gratifica e ci tiene compagnia, ci informa e ci fa credere in una specie di notorietà, ci fa sentire vicino anche chi vicino non è, ci fa ricordare o scoprire i compleanni, ma è un attimo e vola via leggero come è arrivato, uno status dopo l’altro, un selfie in bikini, un tuffo dalla barca, guarda Gianluca Vacchi che combina, ecco qualcuno sta festeggiando una cresima, un premio, un anniversario, mettiamo un cuore a tutti, anche alla mia compagna di liceo e a Giuseppe Pellegrin che dice: io non resto. Non è cinismo, è una circonfusione di irrealtà che ci fa entusiasmare per tutto e stupirci di niente. Non è casa nostra, ma a volte dà conforto. Non è la vita vera, ma ci assomiglia così tanto.

martedì 15 agosto 2017

Paura di volare


Erica Jong, Paura di volare, Bompiani, Milano 1975. Un libro che ha lasciato un segno nella storia della sensibilità maschile.

Incipit

C’erano 117 psicanalisti sul volo della Pan American per Vienna e io ero stata in analisi da almeno sei di loro. E ne avevo sposato un settimo. Dio solo sa se dovevo ringraziare l’inettitudine degli spremicervelli in generale o la mia splendida, irriducibile resistenza all’analisi, ma sta di fatto che avevo ancora paura di volare, più di quando erano cominciate le mie avventure psicanalitiche, qualcosa come tredici anni prima.
Mio marito mi afferrò terapeuticamente la mano al momento del decollo.
“Cristo… è di ghiaccio,” disse. Eppure dovrebbe conoscere i sintomi alla perfezione, visto che m’ha tenuto la mano un mucchio di volte in circostanze analoghe. Le dita delle mani (e anche quelle dei piedi) mi diventano di ghiaccio, lo stomaco fa le capriole nella gabbia toracica, la temperatura della punta del naso scende allo stesso livello di quella delle dita, i capezzoli si drizzano sull’attenti contro la stoffa del reggiseno (in questo caso del vestito, visto che non porto reggiseno) …

Quarta di copertina

Pubblicato negli Stati Uniti nel 1973, “Paura di volare” assunse immediatamente le fattezze del caso letterario, tanto che Henry Miller lo salutò come l’equivalente femminile di “Tropico del cancro”. Il romanzo narra le vicende di Isadora Wing, una donna di quasi trent’anni che comincia a intravedere i segni inesorabili del tempo che passa e si ritrova per la prima volta a fare un bilancio della sua vita. È una donna bella, appassionata e sensuale, ma con una tremenda paura di se stessa. Paura di fuggire dalle convenzioni di una vita matrimoniale ormai in crisi, ma che la pone al riparo dalle ombre della solitudine. Sarà l’incontro con Adrian, psicanalista lainghiano e anticonformista, a scuoterla dal torpore delle sue sicurezze. Con humour, grazia e leggerezza Erica Jong ci racconta la New York radical degli anni 70 alle prese con il femminismo e la psicanalisi, mentre Isadora, pagina dopo pagina, acquista sempre più consapevolezza di se stessa insieme alla libertà di vivere lontana da ogni pregiudizio.

http://machiave.blogspot.it/2015/11/donna-felicemente-sposata.html
http://machiave.blogspot.it/2017/08/la-pittrice-e-la-regina.html
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La pittrice e la regina


Che Vigée Lebrun fosse monarchica, non è un fatto che dovrebbe offrire motivo di scandalo. La bella e giovane pittrice a cui vanno le preferenze della regina sua coetanea si identifica con il mondo dei suoi quadri. Ma la sintonia di fondo non spiega tutto. C’è tutta una evoluzione nel modo di rappresentare la regina da parte della pittrice. All’inizio prevale la distanza. Maria Antonietta ha la testa incipriata con i capelli che si colorano di un grigio azzurro. Poi ci fu il quadro con la regina che, ricoperta da una stoffa leggera, teneva in mano una rosa. Era più vero, ma parve scandaloso e ne fu prodotta una versione più accettabile (vedi sotto). I pennacchi sul cappello o l’immagine della madre rappresentano il ricorso a motivi scontati nella ricerca del prestigio e della popolarità. Stupefacente invece è il ritratto dipinto a memoria del 1800. Lì compare una Maria Antonietta per nulla conforme alla sua immagine regale. Abbiamo a che fare con una donna che sembra aver riscoperto se stessa in un’altra vita, finalmente. L’acconciatura e la camicia appartengono a un tempo successivo, era quello lo stile adottato dalle grandi dame al tempo del Direttorio e poi dell’Impero. Compaiono in altri dipinti di quel tempo infatti, si pensi alla Madame Hamelin di Appiani (1798) o alla Madame de Staël, raffigurata come Corinna (1808), della stessa Vigée Lebrun.


Vigée-Lebrunviˇʃé lbrö̃´›, Élisabeth-Louise. – Pittrice (Parigi 1755 – ivi 1842). Figlia e allieva del pittore Louis Vigée (17151767), ritrattista e autore di pastelli, professore all’Accademia, ebbe proficui contatti con J.-B. Greuze e J. Vernet. Ebbe un rapido successo come ritrattista dell’alta società, grazie alla naturalezza e alla vitalità dei suoi ritratti. Divenuta ritrattista ufficiale di Maria Antonietta, grazie alla sua protezione fu accolta nell’Academie royale de peinture, presentando un dipinto di storia, La Pace riporta l’Abbondanza (Louvre). A causa dei suoi legami con la nobiltà, nel 1789 lasciò la Francia: fu in Italia, in Austria e in Russia, dove proseguì la sua attività artistica e fu accolta in diverse accademie. Tornata per breve tempo a Parigi (180205), partì poi per l’Inghilterra, i Paesi Bassi, la Svizzera. Pittrice aggiornata e alla moda, trattò con grazia e destrezza varie tipologie di ritratto nel gusto del tempo (Hubert Robert, 1788, e Autoritratto con la figlia, 1789, Louvre; M.me de Staël come Corinna, 1808, Ginevra, Musée d’art et d’histoire). (Treccani)
Elisabeth Vigée-Lebrun ritrasse Maria Antonietta una trentina di volte. Ecco alcune delle opere in questione.

 
Ritratto postumo, 1800
La dernière reine de France, très mise en valeur par son époux Louis XVI, fut également la plus représentée de toutes les souveraines. Ces tableaux ont beaucoup fait pour la légende posthume de Marie-Antoinette. Ils la représentent non pas comme la femme futile que la légende révolutionnaire s’est plu à donner d’elle, mais comme une femme majestueuse et humaine à la fois, parfaitement à sa place dans son rôle de reine et de mère, même si le portrait à la rose la montre occupée à des activités plus futiles. Cependant, de son vivant, la multiplication des portraits contribua en partie à alimenter sa grande impopularité. Elisabeth Vigée-Lebrun elle-même paya le fait d’avoir représenté la reine et dut s’exiler à travers l’Europe, où elle poursuivit sa brillante carrière de portraitiste.
Jérémie  Benoît
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C'est en l'année 1779, ma chère amie, 
que j'ai fait pour la première fois le por- 
trait de la reine, alors dans tout l'éclat 
de sa jeunesse et de sa beauté. Marie- 
Antoinette était grande, admirablement 
bien faite, assez grasse sans l'être trop. 
Ses bras étaient superbes, ses mains peti- 
tes, parfaites de forme, et ses pieds char- 
mants. Elle était la femme de France qui 
marchait le mieux ; portant la tète fort 
élevée, avec une majesté qui faisait recon- 
naître la souveraine au milieu de toute sa 
Cour, sans pourtant que cette majesté nui- 
sit en rien à tout ce que son aspect avait de 
doux et de bienveillant. Enfin il est très 
difficile de donner, à qui n'a pas vu la 
Reine, une idée de tant de grâces et de 
tant de noblesse réunies. Ses traits n'étaient 
point réguliers; elle tenait de sa famille cet 
ovale long et étroit particulier à la nation 
autrichienne. Elle n'avait point de grands 
yeux; leur couleur était presque bleue; 
son regard était spirituel et doux, son nez 
fin et joli et sa bouche pas trop grande, 
quoique les lèvres fussent un peu fortes. 
Mais ce qu'il y avait de plus remarquable 
dans son visage, c'était l'éclat de son 
teint.
Je n'en ai jamais vu d'aussi brillant, et 
brillant est le mot: car sa peau était si 
transparente qu'elle ne prenait point d'om- 
bre. Aussi ne pouvais-je en rendre l'effet 
à mon gré : les couleuis me manquaient 
pour peindre cette fraîcheur, ces tons si 
fins qui n'appartenaient qu'à cette charmante 
figure et que je n'ai retrouvés chez 
aucune autre femme.
 Souvenirs de Madame Vigée-Le Brun
°°°
 
Elisabeth Vigée-Lebrun ha anche lasciato una traccia nei romanzi di Erica Jong. Ricorre in Paura di volare e in Ballata di ogni donna. Ecco un estratto dal primo romanzo:
“I was in Provence, and we were staying in a tiny town called Grillon, and it was right near the castle of Grignan. And that’s where Mme. de Sevigny’s daughter lived with her husband, and that’s where her mother came and wrote many of those famous letters. Since the first thing we did was go to the castle, I picked up a Penguin edition of the letters of Mme. De Sevigny and I read them. And they’re pretty juicy. And they’re letters by a woman of a certain age, giving advice to her married daughter and a ton of other people. She knew Voltaire. She seems to have had flirtations with all the great men of her age. She had a famous salon in Paris. She was also a bitchy mother, I think, who wanted her daughter to do absolutely everything she said. And of course her daughter wouldn’t.
And then I started reading the memoir of Elisabeth Vigée-Lebrun. Elisabeth Vigée-Lebrun was the court painter to Marie Antoinette. And when Marie Antoinette lost her head to the guillotine, somehow Elisabeth Vigée-Lebrun managed to escape to the court of Russia. I keep thinking her life would make an incredible musical comedy or movie”.
E ora veniamo al secondo:
« Eccoti di nuovo a Parigi, a dipingere alla corte napoleonica, pubblichi i tuoi Souvenirs e muori a ottantasette anni. Che vita! Se Vigée-Lebrun è riuscita a cavarsela durante la Rivoluzione francese, perché dovrei gettarmi alla cieca tra le braccia di Danny Doland?
“Caro,” dissi, “hai mai letto le memorie di Elisabeth Vigée-Lebrun?”
“Lebrun? Lebrun? E chi era costei, tesoro? [= Who was she, sugar?]
“La pittrice di corte di Maria Antonietta, e poi alla corte di Napoleone… una pittrice che visse del suo pennello e riuscì a sopravvivere in tempi molto difficili.”
“Non faceva quei ritratti femminili tanto carini?”
“Mmm,” risposi io»