Sara Ricotta Voza
Gianni Vattimo: "La filosofia? A ottantacinque anni forse ho più bisogno della religione"
La Stampa Tuttolibri, 18 ottobre 2025
L'appuntamento a casa di Gianni Vattimo è all’ora del demone meridiano, sul citofono d’ottone sotto i portici c’è il cognome ma nessuno gli ha mai dato fastidio, a parte una signora salita fin sul pianerottolo perché voleva assolutamente conoscerlo. Siamo in via Po, a Torino, cuore della cittadella universitaria e dei suoi palazzi, da quello antico della Regia Università a Palazzo Campana in una via vicina, sede delle facoltà umanistiche che poi traslocarono a Palazzo Nuovo, dietro la Mole Antonelliana. Casa e bottega per il professor Vattimo, che negli anni ’50 in quelle vie studiò e insegnò fino a diventare, nei ’70, preside della facoltà di Lettere e Filosofia. [...] A celebrare una straordinaria carriera di docente-filosofo è ora uscita la sua opera omnia - Scritti filosofici e politici - pubblicata dalla Nave di Teseo. Un «volumazzo» come dice lui di quelli dei suoi maestri, 2640 pagine con i testi fondamentali del suo percorso filosofico. Un “libro di libri” che contiene tutti i suoi titoli più importanti divisi in tre sezioni: Filosofi, Ermeneutica, Pensiero debole. Siamo venuti a casa sua per parlarne con lui, entrando nel grande appartamento dall’ingresso di servizio perché una serratura non funziona, così passiamo per la veranda luminosa davanti alla cucina che sa ancora di caffè, poi per stanze e stanzette foderate di libri fino a una sala dove lui ci aspetta in poltrona, col gatto sulle ginocchia. [...]
Professore come sta?
«Bene, solamente sono un po’ vecchietto e quel che ne consegue... ma visti i tempi potrei stare peggio».
Come ha vissuto questo tempo del Covid?
«Sostanzialmente non c’è stata una grande differenza, stavo molto in casa prima, continuo a stare molto in casa dopo, non me ne sono accorto tanto».
Secondo lei la pandemia ha riportato un bisogno di metafisica?
«No, semmai una riconsiderazione della propria finitezza, della provvisorietà dell’esistenza; come minaccia incombente ha cambiato l’abitudine del rapporto con gli altri, con la solitudine. Uno si sente un po’ più creatura e assume un atteggiamento un po’ più religioso, è più cosciente della sua esistenza».
Di sicuro ha riportato al centro il tema della morte, che il suo Heidegger definiva “lo scrigno dell’essere”. Anche lei ci ha pensato di più?
«Chi fa professione di filosofia non dico non prenda sul serio la morte, ma la affronta in termini di riferimenti ad autori, concetti, e immediatamente la cosa non dico che non mi faccia né caldo né freddo, ma non mi riguarda direttamente. Quindi no, non mi sembra di aver vissuto questa cosa del Covid come una meditatio mortis».
Esce la sua opera omnia, un volume celebrativo dalla casa editrice fondata dal suo amico Umberto Eco. Con che “tonalità affettiva” l’ha accolta?
«Con curiosità, per l’idea che sia messo insieme sotto gli occhi di un possibile lettore - speriamo poi che il lettore ci sia - tutto il lavoro che ho fatto». [...]
Costa 50 euro, abbordabile per un volume che ne contiene tanti. Secondo lei che pubblico avrà oggi?
«In generale mi sembra che oggi la filosofia sia meno popolare di qualche anno fa, io credo di avere dei fan, molti che sono piuttosto invecchiati - come me - ma tanti anche fra i giovani che mi scrivono via social. Benché meno popolare oggi la filosofia, dicevo, ci sono nel libro ragioni di tipo oggettivo a renderlo interessante, per esempio gli autori di cui mi sono principalmente occupato (Nietzsche e Heidegger) che continuano ad avere una loro attualità indipendentemente da me e dal mercato. A persone che sono curiose di quel tipo di autore consiglierei di comprarlo e leggerselo, perché è utile».
Se dovesse fare una lezione su se stesso come quelle che registrava per la Rai, una guida alle sue opere per chi compra il libro, da dove direbbe di cominciare?
«Da Essere, storia e linguaggio in Heidegger, la mia prima opera “grossa” e creativa. Nasce perché io comincio a interessarmi di Nietzsche, leggo il libro Sull’utilità e il danno della storia per la vita, che è uno dei primi di Nietzsche stesso. Lo leggo un’estate al Rifugio del Teodulo davanti al Cervino, leggo Nietzsche e intanto penso a Heidegger, perché a lui si interessava maggiormente il mio maestro Pareyson, che era soprattutto un esistenzialista. Poi Heidegger pubblica i suoi due titoli su Nietzsche - due volumazzi giganteschi e per giunta difficili. E Pareyson mi dice “se studi Nietzsche devi leggere Heidegger”. Io avevo fatto il corso di tedesco al Goethe Institut di Torino e poi un mese a Heidelberg, quindi mi metto a leggere col vocabolario, il Langensheidt...».[...]
Il pensiero debole è la sua teoria più famosa e famigerata, la più nota e più malintesa, e in fondo era un titolo provvisorio di un suo capitolo in un’opera collettiva. Col senno di poi…
«Col senno di poi sono convinto di aver fatto un’operazione sacrosanta. Cioè sono ancora fondamentalmente un debolista anche con quel “soprattono” di cristianesimo. Era un titolo provvisorio perché al pensiero debole avevano collaborato Rovatti, Eco, Maurizio Ferraris e altri. Nei giochi accademici di Torino da cui io credo di aver tratto ispirazione per parlare di pensiero debole c’è Carlo Augusto Viano, che scrisse subito dopo un libretto intitolato “Va’ pensiero”, al quale io risposi con un quasi scanzonato “Ma va là pensiero” su TuttoLibri. Perché l’argomento fondamentale di Viano e anche di Pietro Rossi era “cosa credi tu, di venire a proporre una teoria?”. L’unica cosa che si poteva fare era studiare la storia della filosofia, credo pensassero così perché loro erano i titolari di quella disciplina. Per me “Ma va là pensiero” era dire: “Perché togliere legittimità a ogni impresa filosofica originale o comunque non ripetitiva?”».
Ma che voleva dire “pensiero debole”?
«Innanzitutto la rinuncia al dogmatismo metafisico, che implicava una serie di cose anche politicamente. C’era una serie di liberazioni che passavano attraverso la negazione della metafisica e il pensiero debole era fondamentalmente questo, una filosofia non legata alla metafisica cioè all’idea dell’oggettività del darsi dell’essere come oggetto davanti agli occhi, che non puoi negare, una sorta di filosofia dell’evidenza ontologica».
Lei non crede nel genio ma nella volontà di superare i propri limiti. E li ha superati attraverso lo studio, che è stato straordinario ascensore sociale. Lo è ancora?
«Per me lo è stato, senza lo studio non sarei diventato quel che ero: “Ecce homo: come si diventa ciò che si è”, Nietzsche. Ora non saprei...».[...]
Il narcisismo è nel physique du rôle del filosofo?
«Secondo alcuni sì, ma non so come si manifestasse questa cosa in me, non mi davo arie. Io sono sempre stato molto umile. Modestamente».

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