lunedì 30 novembre 2015

Capire

Carlo Rovelli
La curiosità , vero motore del sapere
Una figlia, un padre: «Due intrusi nel mondo di Einstein» è il libro (Cortina) fuori dagli schemi di una giovane donna assetata di conoscenza. Le idee più audaci della fisica teorica nella scanzonata autobiografia della giornalista Amanda Gefter
La storia ha inizio nel 1995. Il papà chiede alla ragazzina: come definiresti il nulla?

Corriere della Sera, 30 novembre 2015


Alcuni anni fa mi ha chiamato per telefono dall’America una voce femminile, vivace e simpatica. Si è presentata come Amanda Gefter, giornalista scientifica, e mi ha chiesto se poteva farmi delle domande sulla fisica. Benissimo, ma nelle domande c’era qualcosa di strano. Davano l’impressione che la giornalista non fosse davvero interessata a scrivere un articolo divulgativo. Quello che le interessava sembrava essere altro: capire. Penso che molti insegnanti riconoscano questa differenza. Ci sono studenti bravi e bravissimi che fanno tutto per bene. Ce ne sono altri, purtroppo più rari, che magari prendono anche brutti voti, ma si appassionano, e provano ad andare a fondo. Penso che siano quelli che poi nella vita faranno le cose migliori. Il ragazzo che non consegna il riassunto sull’Innominato, ma poi, si scopre, si è imparato a memoria il Canto di un pastore errante dell’Asia. La studentessa che dopo aver sentito una lezione sul Sistema copernicano chiede: «Come gli è venuto in mente?» (a Copernico). Amanda Gefter dava quell’impressione. Non le interessava il riassunto, la semplificazione della scienza che suona bene in un articolo divulgativo. Sembrava curiosa del nocciolo, cosa fosse chiaro, e perché, e dove rimanesse il mistero. La telefonata è scivolata sulle domande più astruse: «Cos’è il nulla?», «Può esistere una descrizione obiettiva dell’universo?». Fra le questioni di cui mi sono occupato, miravano a quelle che sono al fondo del mistero della fisica contemporanea, come l’interpretazione della meccanica quantistica. Mi sono fatto trascinare in diverse lunghe telefonate dalla simpatia di queste domande curiose. Poi non ne ho più saputo nulla; l’articolo che immaginavo dovesse uscire non l’ho mai visto. Mi è rimasto il dubbio di cosa volesse, e chi fosse, Amanda Gefter.
La risposta è arrivata l’anno scorso in maniera più esaustiva di quanto avrei immaginato di poter avere. Amanda mi ha scritto per avvertirmi che usciva in America un suo libro. Titolo: Due intrusi nel mondo di Einstein . Sottotitolo: Un padre, sua figlia, il significato del nulla e l’inizio di tutto. Un’autobiografia, dolce, scanzonata, irriverente, appassionata, di una giovane donna assetata di capire, una panoramica, frammentaria ma profonda, delle idee più audaci che la fisica teorica attuale sta esplorando, raccontata da un non-addetto-ai-lavori che brucia di curiosità. In più, un ritratto incantevole di una commovente relazione fra una figlia e suo padre. Già la dedica è un tuffo al cuore: «A mio padre, che mi ha regalato l’universo». Un libro fuori dagli schemi, centrato sulle ricerche sulla fisica di oggi, ma sopratutto un libro sulla passione, che racconta la forza trascinante di quello che credo sia il vero motore del sapere: la curiosità.
...

http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_30/rovelli-einstein-gefter-autobiografia-6b81d440-9748-11e5-921c-1e256576138f.shtml

domenica 29 novembre 2015

Victor Hugo truculento


Victor Hugo
La légende des siècles, 1859 
...
Le soir vient, le soleil descend dans son brasier ;
Et voilà qu’au penchant des mers, sur les collines,
Partout, les milans roux, les chouettes félines,
L’autour glouton, l’orfraie horrible dont l’œil luit
Avec du sang, le jour, qui devient feu, la nuit,
Tous les tristes oiseaux mangeurs de chair humaine,
Fils de ces vieux vautours, nés de l’aigle romaine,
Que la louve d’airain aux cirques appela,
Qui suivaient Marius et connaissaient Sylla,
S’assemblent ; et les uns, laissant un crâne chauve,
Les autres, aux gibets essuyant leur bec fauve,
D’autres, d’un mât rompu quittant les noirs agrès,
D’autres, prenant leur vol du mur des lazarets,
Tous, joyeux et criant, en tumulte et sans nombre,
Ils se montrent


La sera arriva, il sole tramonta nel suo braciere;

E ora, là dove si inclina il mare, sulle colline,

Ovunque, nibbi reali, civette feline,

L'astore rapace, il falco pescatore dall'occhio lucente

Con il sangue, il giorno, che diventa fuoco, di notte,

Tutti i tristi uccelli mangiatori di carne umana,

Figli del vecchio avvoltoio, nati dall'aquila romana,

Chiamata nei circhi dalla lupa di bronzo, 


Seguaci di Mario e conoscitori di Silla,

Si radunano; e gli uni, abbandonando una testa calva,

Altri, asciugando alla forca il loro becco bruno,

Altri, di un albero [maestro] spezzato lasciando i neri appigli,

Altri, prendendo il volo dal muro dei lazzaretti,


Tutti felici e urlanti, chiassosi e senza numero,

Si mostrano

Lévi-Strauss, natura e cultura

Marino Niola 
A lezione di pensiero selvaggio
la Repubblica, 28 novembre 2015










Scandiva le parole con la precisione di un metronomo. Seguiva il filo del discorso in un labirinto di cui conosceva alla perfezione le entrate e le uscite. La sua testa piccola e affilata somigliava a quella di un uccello che punta la preda. Il resto lo facevano la solennità gnomica dei toni e l’eleganza severa dei gesti, che rendevano le lezioni di Claude Lévi-Strauss al Collège de France delle performance intellettuali. Si aveva la sensazione fisica di assistere a un’opera che si produceva davanti ai nostri occhi. E qualche volta sembrava addirittura di sentire il ronzio del pensiero al lavoro.
Lui era tutto il contrario dell’antropologo alla Indiana Jones, quello sempre vestito di avventura. Era invece il più schivo e il più inimitabile dei maestri. Smontava e rimontava mondi lontani con l’acribia di un orologiaio cosmico. Rapito dalla logica incandescente del pensiero selvaggio, passava con la facilità apparente del poeta, dai miti degli indiani d’America allo sciamanesimo siberiano. Dai cacciatori di teste agli psicanalisti, che considerava i nostri riduttori di teste. La sua erudizione, sterminata e preziosa, lo faceva volare tra Montaigne ed Erodoto, tra Baudelaire e Wagner. Ogni volta dinamitava le nostre certezze con una calma olimpica. E con il gusto sottile dell’oscurità. Che è concessa solo ai grandi.


IL BELLO COME STRUTTURA

In un oggetto che troviamo bello - e il giudizio in materia può variare da persona a persona - c’è qualcosa di particolare, che lo distingue dagli altri, dagli oggetti dell’esperienza ordinaria? Dal mio punto di vista - ma credo di non far altro che seguire infedelmente il pensiero di Kant - gli oggetti ordinari, come il libro o il portapenne sulla mia scrivania, costituiscono un sistema di relazioni. Il quale è dello stesso grado, dello stesso livello, dei sistemi di relazioni di tutti gli altri oggetti che costituiscono l’esperienza ordinaria. In un oggetto che troviamo bello - e ne ho uno proprio tra le mani, ecco, per esempio questo, anche se non è di eccezionale fattura [una piccola dea Kali in ottone, ndr] - c’è qualcosa che lo rende tale per noi. Oltre alle relazioni che ha con gli altri oggetti dell’esperienza in quanto oggetto ordinario, c’è anche tutto un insieme di relazioni interne che lo rendono più «denso», per così dire, degli altri oggetti che gli stanno intorno. [...] È un po’ quello che tempo fa avevo cercato di fare, insieme a Jakobson, per il sonetto di Baudelaire I gatti: mostrare che si trattava di un oggetto più denso, più pesante, dal momento che vi si potevano cogliere molte più relazioni di quelle che possiamo cogliere in un semplice oggetto empirico.

(dal colloquio con Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, alla fine del 1997, pubblicato nel libro-intervista Cristi di oscure speranze, ed. Nottetempo)

http://www.treccani.it/enciclopedia/claude-levi-strauss_%28Dizionario-di-filosofia%29/

venerdì 27 novembre 2015

Pasolini: Roma, il benessere, il moralismo



Roma sta diventando una città orribile (molto peggio di quel che appaia dagli articoli di Cederna): sulle vecchie borgate sopravvissute come un'indelebile città di sogno, arcaica, nella città, sorgono nuovi strati periferici, ancora più orrendi, se possibile. Questo è lo spettacolo che mi si presenta ogni giorno davanti agli occhi.
Tu sai benissimo come il vostro “benessere” (e mi fai rabbia, anche tu, che ne accetti la realtà, con tanto slancio ottimistico, come chi, mettendosi addosso una giacca di nuovo taglio, rende crudelmente antiquati coloro che ne hanno una dell'anno precedente) implica “malessere”, ossia il neocapitalismo rende più profonda la divisione tra Nord e Sud, man mano che il Nord arricchisce, il Sud impoverisce. Io sono nelle condizioni di percepire questo regresso (tu sai bene che il Sud comincia alla periferia di Roma): è l'impoverimento dell'Italia che è, per me, l'attualità, il fatto "di moda".
... Il ridicolo è dovuto al moralismo. [...] Questo è l'ultimo colpo per la vita associata e civile italiana.



Risposte scritte a domande di Alberto Arbasino, ora in A. A., Ritratti italiani, Adelphi, Milano, 2014, pp. 380-381.



http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/ritratti-italiani-pasolini-secondo-arbasino/
http://www.pierpaolopasolini.eu/saggistica_borgateRoma-cambiate.htm











giovedì 26 novembre 2015

La Repubblica non piace agli snob


Matteo Marchesini

Nell’ultimo ventennio, Ezio Mauro è riuscito forse a erigere il più sfacciato monumento alla falsa coscienza – cioè alla sproporzione tra pretese ideologiche e verità stilistica, morale, materiale – della stampa italiana postfascista. Lo ha fatto, del resto, limitandosi a portare alle estreme conseguenze quell’ethos della Repubblica scalfariana già perfettamente descritto a fine anni ’80 da Piergiorgio Bellocchio in un sintetico confronto col Corriere:
“Il «Corriere della Sera» è un vecchio palazzo che nell'arco di un secolo ha subito innumerevoli interventi nelle strutture, negli impianti, nell'arredamento. Demolizioni, ristrutturazioni, sostituzioni, aggiunte, restauri... Per quanto quest'opera di continuo aggiustamento e ammodernamento sia stata sempre condotta con larghezza di mezzi, il passato non si può cancellare ed è evidente nelle forzature e nella mescolanza degli stili, quando non trova modo di rispuntare fuori attraverso la crepa traditora, la maligna macchia d'umidità...
«La Repubblica» nasce invece tutta nuova, ostentando la sua modernità di vetro, plastica e truciolato come un valore e un merito. Con qualche soprassalto di vergogna: ecco allora il nuovo ricco che cerca goffamente di fabbricarsi degli antenati, delle case avite, senza però poter andare più indietro del già improbabile e abusatissimo «Mondo» di Pannunzio; o magari azzarda la citazione latina o francese, fidandosi a torto delle sue reminiscenze liceali.
Il «Corriere» è una vecchia famiglia, ricca e prestigiosa, con una parentela estesissima e complicata, dove, come in ogni grande famiglia, è capitato di tutto: anche tanti episodi mediocri e disonorevoli, fallimenti, mésalliances, scandali, imbrogli... Il personale di servizio viene mantenuto nelle sue funzioni anche quando il rendimento, per l'età, lascia alquanto a desiderare, e bisogna pur sempre provvedere a limitare i danni e gli imbarazzi del parente povero, dello zio alcolista, della nonna arteriosclerotica...
Alla «Repubblica» il fesso e il cialtrone non sono passività ereditarie, ma vengono scelti ad hoc, acquistati al mercato, disputandoli alla concorrenza, sulla base di rigorosi calcoli. E naturalmente, se venisse di moda la crepa o la macchia, «la Repubblica» se la farebbe subito decorare sul gesso delle pareti, e se fosse «in» avere uno zio alcolista o una nonna demente, ne affitterebbe subito un paio di esemplari”.


Peppino Caldarola

 In verità si può anche dire che Ezio Mauro sia stato il vero capo della sinistra. Se fosse stato anche personalmente simpatico - forse lo è, ma non appare così - avrebbe goduto di un carisma che lo avrebbe proiettato nelle alte sfere della politica.
Non ha voluto, forse non avrebbe neppure potuto, tuttavia il capo della sinistra è stato lui.
Nelle sue stanze si sono fatte e disfatte alleanze, si sono cementate e rotte amicizie politiche, sono nate candidature per il Quirinale, si è cercato di spezzare le gambe a qualche leader (Massimo D’Alema ne sa qualcosa) e si sono allevati veri mostri come il populismo e il giustizialismo di sinistra. ...
Suo figlio, uscito male, è quel Marco Travaglio che si reclama discendente di Indro Montanelli, ma esce dai lombi culturali del direttore de la Repubblica e di Giancarlo Caselli, e il giornale fiancheggiatore dei grillini - Il Fatto Quotidiano - è stato l’unico a insidiare per poco tempo il dominio assoluto del quotidiano edito da Carlo De Benedetti.
Non è un caso che Mauro lasci quando più forte si fa l’impressione che la sinistra sia finita.
Non so se con Mario Calabresi il giornale fondato da Scalfari diventerà renziano.
Non lo auguro né ai colleghi di largo Fochetti né al Paese.
So che Ezio Mauro viene a far parte di quel vasto mondo di apolidi della sinistra che si portano appresso la loro patria, ciascuna distinta da quella degli altri, perché a dominare ormai sono nuovi personaggi.

Giuliano Ferrara

Ezio Mauro non è il mio tipo, nel senso che è un vero e colossale esempio di giornalismo, e io ho la vanità di considerarmi uno stronzo, un politico, un faccendiere del pensiero forte, ma non un cronista. Ma come sempre, in caso di diversità, e di quelle talvolta acuminate, dolenti, perverse, Mauro è anche il mio tipo.

mercoledì 25 novembre 2015

Guida al divorzio per donne

Aldo Grasso
«Girlfriends’ Guide to Divorce»,una serie pensata per le donne
Il divorzio e le fragilità maschili nella serie su Premium Stories 
Corriere della Sera, 23 novembre 2015 






In un’epoca di relazioni liquide (per usare un eufemismo), come ci si riprende dalla fine di un matrimonio? Come si affronta la delusione sentimentale, ma soprattutto la negoziazione su tutti gli aspetti pratici che una separazione si porta dietro?
La situazione si fa ancora più complicata quando uno dei componenti della coppia è una scrittrice di successo che ha pubblicato un’intera serie di bestseller, libri di autoaiuto su come far funzionare al meglio le relazioni di coppia e le famiglie con figli. Nel momento in cui il matrimonio di Abby (Lisa Edelstein, la mitica dottoressa Lisa Cuddy in «Dr. House») finisce e anche in pubblico volano gli stracci, la sua credibilità editoriale subisce uno smacco non da poco e le vendite calano a picco. Sono queste le premesse di «Girlfriends’ Guide to Divorce», iniziata sabato su Premium Stories (ore 21.15).
Per affrontare le sofferenze del divorzio, Abby si affida ai consigli delle sue amiche che hanno attraversato la stessa esperienza e cercano di tenerla a galla, riabituandola passo passo alla vita da single tra le insidie di Los Angeles, dove per salvare le apparenze si è disposti a quasi tutto. Inutile dire che gli uomini fanno una pessima figura nella serie, come testimonia il personaggio di Jake (Paul Adelstein), l’ex marito di Abby: sono fragili, narcisi, più infantili dei loro figli e spesso bisognosi di essere mantenuti dalle ex mogli che hanno fatto carriera molto più di loro.
La serie è stata realizzata dal canale americano Bravo, pensato per un pubblico femminile, ma le donne non subiscono un trattamento di favore nel racconto: tra nevrosi assortite, crisi di mezz’età combattute a suon di frequenti ritocchini estetici, eufemismi consolatori («i quaranta sono i nuovi venti») e frequentazioni con vari toy boy, i tempi dell’autoaffermazione femminile delle quattro amiche di «Sex and The City» sembrano molto lontani.


martedì 24 novembre 2015

La mostra di Hayez a Milano

In collaborazione con l’Accademia di Belle Arti e la Pinacoteca di Brera, di Milano, e le Gallerie dell’Accademia di Venezia, la mostra, curata da Fernando Mazzocca e con il coordinamento generale di Gianfranco Brunelli, raccoglie circa 120 opere dell’artista.
Il percorso espositivo segue una successione cronologica, che rievoca insieme la vita e il percorso creativo del grande pittore: dagli anni della formazione tra Venezia e Roma, ancora nell’ambito del Neoclassicismo, sino all’affermazione, a Milano, come protagonista del movimento Romantico e del Risorgimento accanto a Verdi e Manzoni, con i quali ha contribuito all’unità culturale dell’Italia.
La sequenza di opere, tra cui capolavori più noti accanto ad altri presentati al pubblico per la prima volta – inedito l’accostamento delle tre versioni del Bacio, rivela la grandezza di Hayez nel padroneggiare generi diversi come la pittura storica e il ritratto, la mitologia, la pittura sacra e un ambito allora di gran moda come l’orientalismo, sino a giungere alle composizioni dove trionfa il nudo femminile, declinato in una potente sensualità che lo rende unico nel panorama del Romanticismo italiano e europeo. 




 

 




lunedì 23 novembre 2015

Donna felicemente sposata


 Renato Minore
 Erica Jong e il suo nuovo romanzo: «La vecchiaia è il tabù di oggi» 
Il Messaggero, 21 novembre 2015 










Sono passati più di quarant’anni, la zipless fuck è ora un sito di appuntamenti on-line, zipless.com. Lo contatta spesso Vanessa, l’eroina del nuovo romanzo di Erica Jong “Donna felicemente sposata cerca uomo felicemente sposato” (Bompiani), nella copertina una cerniera lampo chiusa che invece (è storia nota) era pronta, prontissima ad aprirsi in quella statunitense di “Paura di volare” nel 1973, il romanzo che ha resa famosa, quasi trenta milioni di copie vendute nel mondo.

Vanessa è una sessantenne ancora molto vitale che però, arrivata alla sua età, si trova di fronte al pensiero della morte che si avvicina. I genitori novantenni se ne stanno andando, il marito di molti anni più grande di lei, è stato colpito da aneurisma.

Lei allora cerca incontri casuali via web che non la soddisfano molto, come ben sa la sua amica fidata Isadora Wing, la protagonista di “Paura di volare” che nel frattempo è diventata molto saggia e piena di consigli. La Jong, che è a Roma per presentare il libro (sabato sarà a Bookcity a Milano) dice di sentirsi «sempre felice quando le donne dicono che la lettura di "Ho paura di volare" le ha aiutate a cercare i loro sogni, a renderle in grado di parlare in modo più sincero dei loro sentimenti e capaci di esigere onestà e sincerità dai loro partner».

Ma ora il quadro è profondamente mutato e la sua Vanessa, con dietro il controcanto di Isadora sorniona e piena di buon senso e di esperienza, è l’immagine coraggiosa, piena di humour e ferocemente onesta, di una donna matura del ventunesimo secolo. Ama la vita e ama sentirsi amata, non rinnega il suo passato e pensa che il futuro in fondo sia una carta ancora da giocare.

Lei ha detto che “Paura di volare” la segue ovunque. Non si è sentita oppressa dall’essere sempre così strettamente associata allo sfacciato immaginario del suo alter ego, Isadora, che torna anche, con un espediente narrativo, anche in quest’ultimo romanzo?
«Mi sono spesso bloccata nei dieci anni, dieci lunghissimi anni in cui l’ho scritto. Invidio gli scrittori che non si fermano mai. Non sono una di loro. Ho dovuto ricorrere all’ipnosi per liberarmi dall’impasse. Poi ho trovato la voce di Vanessa, una donna non più giovane con gli anni dei suoi successi come attrice alle spalle. Che ha i genitori anziani che moriranno, una figlia incinta da accompagnare alle visite mediche, un marito con i suoi problemi di età, con i suoi deludenti incontri sessuali via web. Isadora compare ancora quasi come un cammeo».

"Paura di volare" ha colpito i lettori con la sua rappresentazione franca della sessualità e per l'indipendenza della sua protagonista, "Paura di morire" (questo il titolo originario del romanzo) affronta ora un altro tabù ancora persistente, anche se abbastanza oscurato, defilato. Il sesso tra anziani.

«Alle donne non è permesso avere passioni dopo i sessanta. Devono farsi da parte sia nella vita privata che pubblica. Molte donne adulte sentono di non aver più un posto nella società. Ma l’indifferenza alla sessualità è un’infermità, è la perdita di un senso. E’ un sentimento che rende ciechi ai bisogni, ai dolori, alle gioie Se hai vent'anni cerchi l'avventura con lo sconosciuto. Le persone più mature invece cercano emozioni, legami, qualcuno con cui parlare, che abbia il tuo stesso senso dell'umorismo, che abbia letto i tuoi stessi libri, che ami gli stessi spettacoli».

Che cosa pensa del fatto che il titolo, “Paura di morire”, è cambiato nell’edizione italiana? La morte fa paura anche a nominarla, allontana il lettore?

«Il titolo originale del romanzo era "Happily Married Woman" (Donna felicemente sposata). Ovviamente, era inteso in senso ironico, c’era una certa leggerezza ironica senza rinunziare alla profondità dello sguardo sciolta nelle storie raccontate nel romanzo. Ho sempre amato Isaac Bashevis Singer, esperto nel far ridere e piangere simultaneamente. La cosa sorprendente degli scrittori ebrei è come sanno vedere la tristezza e l’umorismo simultaneamente. Poi "Paura di morire" è diventato il sottotitolo e infine è diventato il titolo. Non sono in grado però di valutare l’impatto dell’opzione italiana: conosco l’Italia, ma non tanto da comprendere la sua società e capire che effetto ha un titolo invece di un altro».

“Paura di volare” nel 1973, “Paura dei cinquanta” la sua autobiografia del 1993, ora "Paura di morire". C’è una sua paura che ricorre attraverso gli anni e oggi qual è la sua più grande paura?

«Il volo è una metafora della libertà. Penso che al giorno d'oggi abbiamo paura della solitudine. Abbiamo paura di quello che lasceremo ai nostri figli in un mondo che stiamo distruggendo. Penso ai miei nipoti, ai problemi ambientali, ai ghiacciai che si stanno sciogliendo e sono preoccupata perché abbiamo solo quest'unico pianeta e non ne stiamo avendo cura».

“Paura di volare” diventa presto un film per la regia di Muccino. Dopo tanti anni ci saranno le immagini di quella storia che l’ha resa un’icona del femminismo e della scoperta di sé. Non è un po’ tardi, come vede l’idea?

«Un libro e un film non osservano il mondo nello stesso modo. Ma io condivido, amo la visione che ha del cinema Muccino. Lui, con Johanna Cross, ha scritto una bellissima sceneggiatura, divertentissima, tutta da leggere. Ha fatto la storia, il ritratto di una generazione, quella dei baby boomers, mai intenzionati a invecchiare, con il diritto al sesso, al successo, a tutto».

°°°

Paola Mazzocchin

Quarant'anni dopo "Paura di volare", Erica Jong torna a destare le coscienze con un altro argomento tabù: la paura di morire, esorcizzata attraverso la ricerca di avventure erotiche online: incontri senza un vero contatto umano, con uomini che una "donna felicemente sposata" spera di poter usare per tornare giovane a sessant'anni, quando il corpo inizia a cedere all'incombere del tempo, ma si rifiuta ancora di rinunciare al desiderio, nonostante tutto intorno cominci a perire.
Dalla liberazione del corpo femminile alla liberazione dell'essere umano dalle sue pretese di immortalità e di eterna giovinezza, un libro di cui avevamo bisogno.

domenica 22 novembre 2015

Mata Hari, un'invenzione

Greta Garbo nel ruolo di Mata Hari
Elena Stancanelli 
Mata Hari, principessa e spia
Ma soprattutto un’invenzione

la Repubblica, 21 novembre 2015
















Margaretha Geertruida Zelle era nata nel 1876 in Olanda. Oppure in India, da una famiglia della casta sacra dei bramini. Era figlia di una bajadera morta a quattordici anni nel partorirla, o anche bisnipote del reggente di Madura. Principessa, sacerdotessa, puttana... Qualunque cosa fosse stata in vita, quando morì, fucilata all’alba del 15 ottobre 1917 a Parigi, era ormai per tutti Mata Hari. “Occhio dell’alba”, sole, nella lingua che aveva imparato a Giava.
Mata Hari aveva capelli neri e lunghi, occhi grandi e il seno piccolo. Danzava in modo seducente e si esibiva nei salotti. Dove poteva eludere il giudizio degli esperti e creare quella intimità, quella prossimità nella quale sapeva esprimersi alla perfezione. Femme fatale, ballerina di scarso talento, e infine spia. Un po’ per soldi un po’ per avventura, Mata Hari iniziò a fare il doppio gioco tra i servizi segreti francesi e quelli tedeschi. Probabilmente. Ma se la sua condanna fu opinabile, di certo la sua morte volle essere esemplare. «Il suo processo diventò il palcoscenico su cui il nuovo secolo giudicava e giustiziava la Belle Époque», scrive Giuseppe Scaraffia, scrittore e francesista, nei Gli ultimi giorni di Mata Hari (Utet). Colto e divertente, il libro è costruito intorno a un’intuizione: Mata Hari è un impostore, un sogno, una bugia e non sarebbe mai esistita senza il pubblico specialissimo che la inventò. Intorno a lei, nella Parigi di inizio secolo, pascolano e si pasciono infatti intellettuali e visionari, stupefacenti mentitori e vendidori di leggende. Che importa se Ernest Hemingway arrivò a Parigi solo due anni più tardi la fucilazione di Mata Hari? «Una notte me la sono scopata ben due volte, anche se francamente trovavo che avesse la vita larga e aveva più voglia di farsi fare delle cose che di dare quel che si può dare a un uomo». Anzi meglio: tanti particolari si sanno solo di qualcuno che non si è mai conosciuto.
E Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti la incontrarono davvero? O semplicemente avrebbero potuto, cosa che renderebbe perfetto il loro incontro. E tutte quelle magnifiche donne, Colette, Virginia Wolf, la marchesa Luisa Casati, Misia Sert, Natalie Clifford Barney, Isadora Duncan. Ognuna di loro, come i colleghi maschi, al guinzaglio del proprio talento e dei propri desideri. I più specializzati, e anche un po’ disgustosi, sono senz’altro quelli di Marcel Proust, che frequentava un bordello gay e si eccitava guardando due... Non ve lo dico. Leggetelo.
Biografie e bibliografie precise e fascinose, brevi racconti con uomini straordinari rincorsi dal rancore della Storia. D.H. Lawrence e sua moglie Frieda in fuga dalla Cornovaglia, Lawrence d’Arabia e quel suo strano incidente in motocicletta... Mata Hari ebbe moltissimi uomini, qualche donna e un solo amore. E con quanta meravigliosa crudeltà il raffinato Scaraffia, nelle note finali, spiega che quello, il capitano Klingham, l’uomo che non l’aveva tradita neanche al processo, è l’unico personaggio inventato.



















sabato 21 novembre 2015

Il Presidente della Repubblica su Islam e terrorismo fondamentalista



E' un momento tragico per l'Europa e il mondo. Un fanatismo barbaro e disumano ha colpito Parigi, nel cuore del nostro continente e della nostra civiltà. Quella del terrorismo fondamentalista è una minaccia ai valori di libertà, democrazia, solidarietà e convivenza civile. La strategia, folle e lucida allo stesso tempo, dell'estremismo è chiara: cercare di insinuare nella nostra società sentimenti come la paura, la disgregazione, la tentazione di chiudersi, l'odio. E la strage dei ragazzi di Parigi ha posto in modo brutale l'opinione pubblica davanti alla questione, drammatica e cruciale, della violenza a sfondo integralista che mira a cancellare la nostra cultura, la nostra storia, i nostri valori.

Il problema, in realtà, è purtroppo molto più antico. E riguarda strettamente il rispetto, nella comunità internazionale, dei diritti universali dell'uomo, oscurati, oltraggiati e negati in tante parti del globo. La persecuzione a carattere religioso, infatti, non è mai a se stante, ma è parte della violazione, feroce e sistematica, delle libertà fondamentali dell'uomo, di cui il diritto a professare, a predicare, persino a cambiare la propria fede religiosa, senza dover subire discriminazioni o addirittura violenze, è elemento fondamentale. La strage di Parigi, sarebbe irragionevole non ammetterlo, è il diretto risultato della predicazione dell'odio contro il diverso e delle persecuzioni che le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, soffrono nel mondo. Certo, non sono solo i cristiani, nelle loro diverse articolazioni, a patire oppressione e soprusi, ma tanti altri gruppi religiosi, culturali ed etnici. Vittime di pregiudizi, di ostilità, di discriminazioni, di vere e proprie violenze, da parte di gruppi terroristici, maggioranze aggressive o di stati e legislazioni totalitari. Ma il fondamentalismo e il radicalismo di matrice islamista, esplosi di recente e alimentati all'interno di vaste regioni dell'Africa e del Medioriente, hanno tragicamente accresciuto le dimensioni di questa vera e propria emergenza planetaria. E spicca, tra tutti, il dato numerico che riguarda le comunità cristiane, in termini assoluti le più perseguitate e con il maggior numero di vittime. Comunità fiorenti, antiche e radicate, abituate alla convivenza, al dialogo e alla pace, sono state completamente cancellate in diverse aree del mondo o ridotte a sparuti gruppi, minacciati e vessati. Cristiani in ogni latitudine decapitati, crocefissi, bmciati vivi, interpellano la coscienza di ogni uomo. Papa Francesco ha lanciato alto il suo grido di dolore, parlando di un martirio enormemente più grave ed esteso di quello dei primi anni del Cristianesimo. E una denuncia che non può lasciare indifferenti. La comunità internazionale, dopo anni di disattenzione e di silenzi, sta finalmente cominciando a prendere coscienza della gravità del fenomeno che è una minaccia non solo alla libertà religiosa dei singoli, ma - come ci insegnano i due attentati di Parigi - alla democrazia e alla convivenza per tutta la comunità internazionale. La pace religiosa, la tolleranza, la collaborazione tra le diverse fedi è, di converso, un fattore determinante di benessere, di equilibrio sociale e di sviluppo economico. Sono appena tornato da un viaggio in oriente, che mi ha portato anche in Indonesia. In quel paese, che sta conoscendo una grande crescita economica e d'influenza politica, vige fin dalla sua fondazione una Costituzione democratica che riconosce l'eguaglianza, il rispetto, la libertà per tutte le religioni. L'Indonesia, con 205 milioni di fedeli musulmani, è il più grande stato del mondo a maggioranza islamica, hi quel paese, il cui modello dovrebbe essere conosciuto e promosso, gli esponenti delle diverse religioni non solo collaborano tra loro, contribuendo allo sviluppo sociale, culturale ed economico dello stato, ma hanno rapporti di vera e fraterna amicizia. I leader delle comunità musulmane che ho incontrato hanno sempre tenuto a sottolineare la natura liberale e moderata dell'islam indonesiano e la ferma condanna dell'estremismo e della violenza religiosa. Nel considerare ogni uomo come figlio di Dio, si riconosce in lui la comune radice e, per questo, diventa portatore di uguali diritti e di pari dignità.

Sono, questi, princìpi universali, gli unici che possono condurre la comunità internazionale verso un futuro di pace, sviluppo e benessere. Per questo va respinta con decisione la sfida del terrorismo fondamentalista che spesso maschera con pretesti religiosi la sua voglia di dominio e di sopraffazione.

Scendere sul loro terreno, che è quello dello scontro di civiltà o di religione, sarebbe un grave errore, dalle conseguenze difficilmente valutabili. Quella contro il terrorismo fondamentalista - che rappresenta oggi e probabilmente negli anni a venire la più grave minaccia alla pace del mondo - sarà una lotta impegnativa e complessa che va condotta in ogni luogo e senza quartiere non solo con le necessarie azioni di forza e con il rafforzamento della sicurezza, a cui ogni cittadino ha diritto, ma anche con le armi della cultura, del dialogo, del diritto. E con un dispiego d'intelligenza e di lungimiranza che devono essere almeno pari alla indispensabile intransigenza. Molti errori di valutazione sono stati compiuti nel nostro recente passato. Ora non si può più sbagliare.

http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=187

venerdì 20 novembre 2015

Giacometti tra il nulla e l'essere

Giacometti: Pure Presence 
15 ottobre 2015 – 10 gennaio 2016 National Portrait Gallery, Londra www.npg.org.uk/giacometti di Nicol Degli Innocenti, Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2015 










... Giacometti voleva cogliere una realtà sempre sfuggente e per questo torna sempre agli stessi visi conosciuti, in un processo di riduzione progressiva fino a scoprire l'essenziale. Le sue figure ieratiche, immobili, dallo sguardo fisso, sono come dèi primitivi, come le statue etrusche che Giacometti tanto ammirava. Come le più grandi opere d'arte, sono eterne e fuori dal tempo. Jean-Paul Sartre, che aveva arruolato l'artista tra gli esistenzialisti, scrisse che la sua opera era “una mediazione continua tra il nulla e l'essere”. 

Giacométti, Alberto. - Scultore e pittore svizzero (Stampa, Grigioni, 1901 - Coira 1966), figlio di Giovanni. Frequentò la scuola d'arte di Ginevra; nel 1920-21 fu a Roma; nel 1922 si stabilì a Parigi, ove frequentò Bourdelle e s'iscrisse all'Académie de la Grande-Chaumière. Dal 1925 al 1928 eseguiva sculture di carattere decisamente cubista. Nel 1929 aderì al movimento surrealista, realizzando degli objets e delle constructions-cages (Boccia sospesa, 1930, Zurigo, Kunsthaus) e dall'esperienza surrealista trasse un senso magico dello spazio, talvolta definito per mezzo di fragili strutture lineari (Palazzo alle 4 del mattino, 1932-33, New York, Museum of modern art). Ciò si osserva nel successivo ritorno alla figura umana, nella quale le relazioni tra spazio e ambiente sono suggerite dall'esile, sensibile plastica delle figure, che talvolta rievocano le forme dei bronzetti preistorici; il tema prediletto della sua scultura è la solitudine, la vulnerabilità dell'uomo nell'infinita vacuità dello spazio (Uomo indicante, 1947, Londra, Tate Gallery). Restò a Ginevra durante tutta la seconda guerra mondiale. Nel 1947 riprese a dipingere e a disegnare dal vero, come negli anni della giovinezza, coltivando tuttavia nello stesso tempo la scultura. Il senso angoscioso dell'esistenza che definisce l'opera di G. è stato particolarmente avvertito da J.-P. Sartre. Nel 1962 ottenne il gran premio alla Biennale di Venezia e nel 1965 il Grand prix des arts de la ville de Paris. Un gruppo cospicuo delle sue opere si trova a Zurigo (Kunsthaus), dove è stata istituita una fondazione a lui intitolata. (Treccani.it)

la sorella Ottilia
la madre
Annette
Annette

Caroline
Caroline
      

giovedì 19 novembre 2015

Le capriole di Silvia Ronchey: il Califfato occidentale

la Quarta crociata
La fiction occidentale del Califfato
La natura dell’antico regime musulmano non ha nulla a che fare con quella del sedicente Stato islamico di oggi
Quella di Parigi è una narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di orientale. È una proiezione mediatica della nostra idea dell’infedele

Perché l’Is descrive e oggettiva la nostra stessa demonizzazione dell’islam
la Repubblica, 19 novembre 2015


«Se guardi ciò che Maometto ha portato di nuovo, troverai solo cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che predicava». La radice dell’idea tanto distorta quanto ormai vulgata sulla natura intrinsecamente violenta della religione islamica e sulla barbarie della sua tradizione bellica, che trapela dalla pubblicistica specialmente americana, sta forse nelle parole che Benedetto XVI citò nel 2006 a Ratisbona, chiamando tendenziosamente in causa l’imperatore bizantino Manuele II, rappresentante dell’impero che nel medioevo più a lungo e più da vicino aveva conosciuto l’ecumenismo egualitario, ispirato alla predicazione di Maometto e a espliciti brani del Corano, che contraddistingueva il califfato ommayade, abbaside, fatimida, poi il sultanato selgiuchide e osmano. Nel pacifico dialogo con il direttore della madrasa di Ankara, nel 1391, il basileus Manuele affermava che «la conversione mediante violenza è cosa irragionevole e contraria alla natura di Dio», ma si riferiva sottilmente alla Quarta Crociata, che nel 1204 aveva “deviato” su Costantinopoli scagliando sul ricco impero una razzia ben più vandalica e rovinosa di quella portata due secoli e mezzo dopo dalla conquista turca. Un modello di guerra santa cristiana perpetrata da eserciti cristiani che portavano nel nome di Dio devastazioni e massacri di massa.
Non solo la natura dell’antico califfato – cui la propaganda dell’Is oggi rinvia con la stessa tendenziosa attualizzazione ideologica con cui poteva rifarsi Mussolini alla Roma di Augusto – non ha nulla a che fare con quella del sedicente stato islamico di al-Baghdadi. Non solo la sovrastruttura religiosa che invoca non rispecchia quella dell’antico islam a livello scritturale, dottrinale, storico. Ma il comportamento dell’islam nelle sue guerre califfali è il contrario esatto di quello che abbiamo visto, in una sorta di aberrante trailer, nell’atroce regia degli attentati di Parigi. L’immagine del barbaro musulmano che il copione vuole offrirci, coerente con le sanguinarie performance con cui l’Is ha scandito la sua avanzata in oriente, mirante a indurre nell’occidente un delirio collettivo, porta le nostre più profonde paure al parossismo nel momento in cui ci restituisce non tanto un’immagine di sé quanto quella sedimentata dal tempo nel nostro inconscio sociale: un’immagine propagandistica creata nel medioevo, nella sua storiografia confessionale in particolare papista, e ripresa acriticamente a partire dall’11 settembre da una propaganda globale che ha insinuato l’”intrinseca negatività” della religione musulmana. Quella di Parigi è una narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di fondatamente orientale, ma è essenzialmente costruita con materiali occidentali. È una riverberazione mediatica della nostra idea dell’infedele islamico come barbaro sterminatore storicamente ancora meno legittima di quella del cristiano come crociato specularmente propalata nel 2001 dal fanatico proclama urbi et orbi di Osama Bin Laden, quando, pochi giorni dopo l’11 settembre, lanciò attraverso al-Jazeera il suo storico appello “contro i crociati americani”. Lo spettacolo sacrificale di Parigi è un uso mistificato di una narrazione fittizia dell’islam: della sua fiction, concepita per produrre orrore mettendo in scena un dramma che ha l’insensatezza incalzante dell’horror occidentale, che coinvolge il giovane pubblico dello stadio e del teatro, che avvera nel sangue il suo plot e lo amplifica riecheggiandolo nell’utenza mediatica totale.
Quella di Parigi è un’autentica autodemonizzazione. Più che riuscita, se ha spinto Obama a proclamare che l’Is è il diavolo. Affermazione giusta e perfino salutare se intesa a livello psicologico, perché è appunto questo, il male assoluto, che l’Is vuole rappresentare.
Molto pericolosa e ingiusta se rischia di immedesimare quel diavolo nella religione e nella tradizione che falsamente l’Is sostiene di rappresentare. Nella fantasia di sé come incarnazione dell’islam che con la sua strategia comunicativa vuole diffondere è deviante, accecante, ambiguo, delusivo e già in questo autenticamente diabolico, secondo la tradizionale accezione patristica cristiana del diavolo, in greco diabolos, l’obliquo, il mistificatore, il tentatore che nel deserto usa le nostre stesse visioni e fantasie. Contro l’entificazione del diavolo, la sua identificazione nell’uno o nell’altro ente reale, si sono battuti due millenni di teologia cristiana, da Agostino in poi. Nel discorso più profondo di ogni religione, il demonio, il maligno, è l’ingannatore che agisce in noi. Se l’Is descrive e oggettiva la nostra stessa demonizzazione dell’islam, il fanatismo dell’Is realmente rappresenta il diavolo, ma attraverso lo specchio capovolto della nostra fragilità: la vulnerabilità all’ideologia, la semplificazione della verità storica, la censura, o autocensura, della sua e nostra complessità.

mercoledì 18 novembre 2015

Dimensioni psicologiche del terrore

Corrado De Rosa
l'Espresso, 18 novembre 2015










Psicologia del terrorista islamico

La letteratura scientifica è concorde nel ritenere che i terroristi non siano “matti”. L’arruolamento predilige gente affidabile, scarta chi dà segni di squilibrio. Non esistono criteri universali per definire la psicologia di un terrorista, ma si possono identificare alcune caratteristiche e meccanismi di pensiero comuni.

Si tratta di giovani, single, astuti e ambiziosi, non sempre provenienti da famiglie disagiate, spesso di media cultura (come Mohamed Atta, il terrorista dell’11 settembre), indottrinati nelle scuole che insegnano il Jihad, con traumi alle spalle come la morte o il ferimento di familiari, mimetizzati nell’odiata cultura occidentale. Il terrorista è motivato, disciplinato, tollera lo stress, ha capacità di concentrazione sull’obiettivo prefissato e forti aspettative di riscatto e crescita sociale.

Hannah Arendt diceva che l’azione morale nasce dal dialogo interiore, e che l’assenza di questo dialogo trasforma le persone normali in agenti del male. L’assenza di dialogo interiore mescolata al bisogno di sicurezza e identità spiegano, almeno in parte, l’alienazione del terrorista nel suo gruppo di iniziati. Un gruppo che giustifica tutto in nome di un ideale più elevato secondo il principio: “Qualsiasi cosa noi facciamo, voi fate molto peggio”.

L’estremista accetta le responsabilità: le ritiene necessarie, minimizza la sofferenza delle vittime, disumanizza il nemico, reprime scrupoli morali e freni inibitori creandosi giustificazioni in cui crede ciecamente. Ha una fede incondizionata nel Corano che accetta senza critica: il fondamentalista islamico non pensa, perché i precetti del Corano pensano per lui. È ossessionato da un’idea, influenzato da figure carismatiche, non scende a compromessi: ha un’organizzazione di pensiero fanatica, che si estremizza in chi sceglie di farsi saltare in aria.

Il commando di Parigi si è mosso secondo strategie pianificate, incompatibili con disturbi mentali gravi. Il kamikaze esaspera pensieri che non sono esclusivi di un malato, ad esempio la capacità di visualizzare il Paradiso. Annulla la sua vita: è certo che quello sia il sistema più nobile per raggiungere l’aldilà, fede e nazione sono l’unica strada di salvezza e si immola in loro nome perché li considera valori più alti della vita stessa. Riconduce il suo suicidio al martirio per la fede islamica. Per prepararsi all’operazione militare si concentra sugli aspetti operativi in modo da evitare quelli emotivi, neutralizza i sentimenti negativi con la dissimulazione.

Psicologia delle vittime

Gli attentati di Parigi hanno conseguenze psicologiche sui familiari delle vittime, su chi era presente al Bataclan e nelle altre sedi degli agguati, sulla popolazione generale. Devono creare ansia, paura e insicurezza, e avranno ripercussioni sull’assetto delle famiglie, sui contatti sociali, sul senso di appartenenza. Il venerdì 13 dell’Occidente incrina la capacità di fare previsioni, compromette le certezze sulla possibilità di controllare il mondo esterno, determina vissuti d’impotenza.

Nonostante la maggior parte delle persone non subisca gravi conseguenze psicologiche, la popolazione può avere reazioni emotive (rabbia, ansia, panico, terrore, tristezza, depressione, ecc.), cognitive (disorientamento, confusione, ridotta capacità di concentrazione, ecc.), somatiche (insonnia, affaticabilità, cefalea e altri disturbi), comportamentali (facilità al pianto, reazioni di allarme e altro).

Sono più spesso lievi e transitorie: risposte normali a eventi straordinari che si riducono in pochi giorni anche senza interventi specialistici ma che interferiscono con la capacità di fronteggiare il trauma. Circa 1/3 di chi è direttamente esposto a eventi come quello di Parigi, però, può sviluppare un disturbo psichiatrico (più spesso dello spettro dello stress) che, a differenza dei problemi fisici, rimane generalmente sconosciuto, viene diagnosticato con difficoltà e non è adeguatamente trattato. Forse i problemi psicologici non saranno l’aspetto principale da affrontare dopo la strage di Parigi, ma bisognerà tenerli in grande considerazione per ridurre la percezione di vulnerabilità e restituire il senso della quotidianità a una civiltà colpita nella mente.

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Carlo Freccero 
Daniela Strumia
Strategia del caos made in Usa
Guerra e media. La strategia è disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza
Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale
Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Ma qualcosa ormai è sfuggita di mano

il manifesto, 18 novembre 2015


... Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un mandarino per Teo. Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti questi paesi governati antidemocraticamente hanno un elemento in comune: la presenza di risorse energetiche, gas, petrolio, altre materie prime. E’ normale schiacciare il bottone che ci permette di annetterci tutte queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi.
Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la famosa affermazione di Hillary Clinton: «l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano».
Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta la nostra ora di sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni caso vi invitiamo a riflettere. Se si applica la strategia del caos, come possiamo poi pretendere che questo caos non ci travolga? 

martedì 17 novembre 2015

Lucio Caracciolo sul terrore

Molenbeek (Bruxelles), un mercato
Lucio Caracciolo
Scacco al terrore in quattro mosse
la Repubblica, 17 novembre 2015












IN QUESTA battaglia la vittoria non dipende dai carnefici ma dalle vittime. I terroristi non possono vincere. Non hanno i mezzi per sopraffarci, per governarci. La bandiera nera non sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla “guerra santa”.
SE CI FAREMO ipnotizzare dal nemico non perderemo solo la guerra. Molto peggio: perderemo noi stessi, ovvero quel che resta delle nostre libertà. Se invece sapremo leggere la cifra di questa sfida e reggere nel tempo agli attacchi con cui i jihadisti cercheranno di convertirci alla loro barbarie, finiremo per averne ragione.
Conviene perciò chiedersi chi siano e quali progetti abbiano i nostri nemici.
I jihadisti sono umani. Certo, usano tecniche disumane. Molti (non tutti) paiono ubriachi di fanatismo. Ma non sono insensibili alla fama, al denaro e al potere. Si occupano anzi di accumularne. In attesa di farsi trovare dalla parte giusta allo scoccare dell’Apocalisse. L’ideologia da fine del mondo è un formidabile magnete, capace di attrarre non solo islamisti radicali emarginati nelle nostre periferie estreme, ma anche figli della buona borghesia europea in cerca di avventura. Persino atei, cristiani, ebrei. A ricordarci quanto fragili e sempre revocabili siano le fondamenta della nostra civiltà.
Sarebbe ingenuo scambiare la propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi per strategia. Il califfato universale è un riferimento metapolitico evocato a fini seduttivi da chi sa di non poterlo avvicinare.
L’obiettivo dello Stato Islamico non è la conquista di Roma, di Parigi o di Washington. È anzitutto di radicarsi nel territorio a cavallo dell’ormai inesistente frontiera fra due Stati defunti — Siria ed Iraq — espellendone o liquidandone le minoranze refrattarie al proprio dominio. A cominciare dagli arcinemici: i musulmani sciiti. Da questo Stato in fieri e grazie al suo marchio vincente il “califfato” mira ad espandere la propria influenza nel mondo sunnita.
Nel loro territorio i jihadisti
di al-Baghdadi si dedicano a gestire traffici d’ogni genere — dagli idrocarburi ai reperti archeologici, dalle armi alle droghe e agli esseri umani — i cui mercati di sbocco sono tutti in Occidente. Quando ci interroghiamo sui loro finanziatori, alla lunga lista di entità islamiste e petromonarchie sunnite dobbiamo aggiungere noi stessi.
Di qui alcune conseguenze operative per evitare di suicidarci in questo scontro di lungo periodo, che ci impone pazienza, freddezza, capacità di assorbire attacchi e provocazioni.
Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità. Ma non abbiamo mezzi, uomini e volontà per ingaggiare una grande guerra “stivali per terra” nei deserti mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio.
Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare. Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno alimentato i seguaci del “califfo”. Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi — americani e britannici su tutti — hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano contribuito a nutrire. Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga con l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista. Infine, è ovvio che su questo scacchiere russi e iraniani sono risorse, non avversari. Fare la guerra fredda a Putin e la guerra calda al “califfo”, insieme trattando i persiani da appestati, è poco intelligente.
Terzo. Serrare le file fra tutti gli alleati sul fronte dell’intelligence e delle polizie. Siamo lontani da un’effettiva cooperazione. Un esempio per tutti. Il giorno prima della catena di attentati a Parigi i carabinieri del Ros, insieme alle polizie britannica, norvegese, finlandese, tedesca e svizzera, avevano messo le mani su una rete di sedici jihadisti curdi e un kosovaro, dopo un’indagine di cinque anni condotta soprattutto sulla Rete (“Operazione Jweb”). A coordinare i terroristi era il famigerato mullah Krekar. Non da chissà quale anfratto mediorientale, ma dal suo carcere norvegese. Appartamento di tre stanze e servizi, dal quale — grazie ai laschi standard norvegesi — era in costante contatto in codice via Internet con i suoi diciassette apostoli, e chissà quanti altri. Finché i partner europei e atlantici continueranno a muoversi ciascuno per suo conto e con i suoi metodi, sarà arduo prevenire gli attacchi terroristici.
Quarto, ma non ultimo per rilievo. Resistere alle tentazioni razziste, rilanciate da media in cerca di visibilità. Le equazioni arabo musulmano=terrorista e (peggio) rifugiato=jihadista oltre che false sono pericolose. Manna per la propaganda “califfale”. E conferma che sul decisivo fronte della comunicazione spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi.

lunedì 16 novembre 2015

Cime tempestose, l'amore che tutto travolge

Emily Brontë
Cime tempestose
Traduzione di Rosina Binetti
Garzanti, Milano 1965 [1847]

… tutto è per amore di uno solo che riunisce nella sua persona i miei sentimenti verso Edgardo e verso me stessa. Non so spiegarmi: ma certamente tu pure hai un’idea; sai come chiunque altro che c’è o ci dovrebbe essere un’esistenza al di là di noi stessi? A che scopo sarei stata io creata se fossi interamente contenuta in me stessa? Le mie grandi pene in questo mondo sono state le pene di Heathcliff, e io le ho conosciute e le ho sentite tutte una a una dal principio; la sola ragione di vivere per me è lui. Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l'universo si cambierebbe per me in un’immensa cosa estranea: non mi parrebbe più di essere una parte di esso. Il mio amore per Linton è simile al fogliame del bosco: il tempo lo muterà, ne sono consapevole, come l'inverno muta gli alberi. Il mio amore per Heathcliff somiglia alle eterne rocce che stanno sottoterra: una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre sempre, sempre nella mia mente: non come un piacere, come neppur io sono un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Quindi non parlare più della nostra  separazione: è impossibile, e… (cap. IX)



http://www.homolaicus.com/letteratura/bataille-leiris.htm

Bataille analizza la presenza del male e della sovversione nel romanzo di E. Bronte, Cime Tempestose, che narra dell’amore tragico di Heathcliff e Catherine. Heathcliff è un trovatello, che il signor Earnshaw, proprietario della tenuta di campagna, Wuthering Heights, si porta dietro da un viaggio di lavoro a Liverpool. Egli ha altri figli piccoli, Hindley e Catherine; quest’ultima, pur inizialmente disprezzando il fratellastro, arriva ad avere con lui un rapporto di profonda comunione, una sintonia assoluta, una passione travolgente, che verrà spezzata dalla morte del vecchio signor Earnshaw. Questa morte porterà il fratellastro più grande di Heathcliff, Hindley, a diventare il proprietario di Wuthering Heights. Hindley ha sempre disprezzato Heathcliff e lo ridurrà al ruolo di garzone, riuscirà a separarlo, inoltre, dall’amata Catherine.
Ciò che interessa Bataille è il particolare rapporto che s’instaura tra Catherine e Heathcliff. Compagni di giochi nella brughiera, persi nella passione d’infanzia. Per tutta la vita adulta, nonostante la separazione, conserveranno un amore svincolato dalle regole sociali, libero. "E forse quest’amore non era altro che la decisione di non rinunciare alla libertà d’un infanzia selvaggia, non corretta dalle norme di socievolezza e dell’educazione tradizionale".
Un amore sovversivo, che si oppone al mondo borghese del calcolo, della ragionevolezza, del primato del futuro sul presente. Questo sentimento travolgente rompe le convenzioni ed è un attentato alle regole sociali. "La costrizione sociale avrebbe richiesto a quei giovani liberi […] di piegarsi alle convenzioni ragionate degli adulti, cioè calcolate in modo tale che ne risulti l’utile della collettività". Per Bataille il tema del libro è la rivolta di Heathcliff, che scacciato dal suo regno sovrano d’infanzia, cerca di riconquistarlo.
Egli è il maledetto, colui che è stato scacciato. La sua vita è rivolta. Heathcliff esprime la rivolta del male contro il bene, se accettiamo che il bene venga identificato con la società, con l’interesse del gruppo a dispetto dell’individuo, con il primato del differimento rispetto alla soddisfazione immediata. "Egli incarna una verità primordiale, quella del bambino che si rivolta contro il mondo del bene, contro il mondo degli adulti e, con la sua rivolta senza riserve, si consacra al male".
La dimensione del romanzo è paragonata da Bataille a quella della tragedia greca. L’autrice conosce la legge, si pone dalla sua parte, mostra la trasgressione e i suoi effetti, ma non è scevra dal dare "vita all’emozione, con la simpatia che provava e comunicava per i trasgressori della legge". Ciò che esprime è l’interdizione a qualcosa, ma questo interdetto è magnificato ed esercita una certa attrazione. Così era anche per la tragedia greca.
Per Bataille, Wuthering Heights ci mostra una divina ebbrezza, una trasgressione che si oppone al Bene, che rappresenta una preoccupazione per la dimensione collettiva piuttosto che individuale. Necessario è differire, rimandare quella che Freud chiamerebbe pulsione, per salvaguardare la società. Differire le proprie pulsioni istintive, immediate, in modo che non danneggino gli altri individui e di conseguenza il nostro ruolo nella dimensione collettiva. L’influenza dell’antropologia freudiana è molto forte in questa concezione.
"La divina ebbrezza, che è imparentata con lo 'slancio primordiale' dell’infanzia, è invece tutta nel presente. Nell’educazione che si dà comunemente ai bambini, la preferenza per l’attimo presente coincide per definizione con il Male, e gli adulti interdicono il divino regno dell’infanzia a coloro che devono pervenire alla 'maturità'". 
In questo senso Heathcliff si schiera col male, con la divina ebbrezza, nella ricerca spasmodica del regno perduto dell’infanzia, rompe tutte le interdizioni, rompe con la morale e con la società. Egli si fa maledetto.



domenica 15 novembre 2015

Claudio Magris, la Quarta guerra mondiale

 
Gli attentati di Parigi e quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista
La violenza va repressa con la violenza ma anche, e sperabilmente, esorcizzata con l’insegnamento del rispetto reciproco, instillando la banale ma sacrosanta verità che dire Dio anziché Allah o viceversa non può offendere nessuno





Siamo in piena Quarta guerra mondiale. Le tre precedenti avevano almeno schieramenti nettamente contrapposti; anche la Terza, cosiddetta Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989 nei più diversi Paesi della terra, per nostra fortuna da noi lontani. In questa Quarta, che poche ore fa ha fatto strage a Parigi dopo averne fatte molte altre, non si sa bene chi combatta contro chi; nel caos che infuria nel Medio Oriente, ad esempio, è spesso difficile capire chi sia nostro alleato o nemico. Assad, ad esempio, è stato indicato ora quale tiranno da abbattere ora quale possibile alleato.
In questo enorme pulviscolo sanguinoso è difficile combattere chi semina stragi, ovvero l’Isis. Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio - precario e odioso, ma pur sempre equilibrio - di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati.
Ma l’Isis non è Al Qaeda, non è una società segreta inafferrabile; si proclama uno Stato, seppur sedicente e non ben definito. Dovrebbe quindi essere più facile colpirlo in modo sostanziale. Certo la strategia perdente è quella adottata sinora, soprattutto dagli Stati Uniti, con quei bombardamenti a singhiozzo che non bastano a togliere di mezzo quel cosiddetto Stato e magari, con le perdite non sempre precisamente mirate che infliggono, feriscono e irritano altre forze e compagini politiche. È inutile -- anche inutilmente violento - dare uno schiaffo; o si colpisce a fondo, per mettere knock out, oppure ci si astiene.
È ovvia l’esecrazione per le stragi compiute a Parigi e altrove, con la destabilizzazione generale della vita sociale e collettiva che esse provocano. Si può pure deprecare la scarsa efficacia dei Servizi segreti dinanzi a nemici così sfuggenti, anche se bisogna riconoscere che è più difficile scoprire le trame dell’Isis che quelle della Cia o del Kgb.
A questa inaudita violenza si collegano, indirettamente, il nostro rapporto col mondo islamico in generale e la convivenza con gli islamici che risiedono in Occidente. A chiusure xenofobe e a barbari rifiuti razzisti si affiancano timorose cautele e quasi complessi di colpa o ansie di dimostrarsi politicamente ipercorretti, che rivelano un inconscio pregiudizio razziale altrettanto inaccettabile. È doveroso distinguere il fanatismo omicida dell’Isis dalla cultura islamica, che ha dato capolavori di umanità, di arte, di filosofia, di scienza, di poesia, di mistica che continueremo a leggere con amore e profitto. Ma abbiamo continuato ad ascoltare Beethoven e Wagner e a leggere Goethe e Kant anche quando la melma sanguinosa nazista stava sommergendo il mondo, però è stato necessario distruggere quella melma. Le pudibonde cautele rivelano un represso disprezzo razzista ossia la negazione della pari dignità e responsabilità delle culture camuffata da buonismo.
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