martedì 31 gennaio 2023

I tempi lunghi dell'Ucraina

 


 

 

 

Marco Di Giovanni

Una nota di sintesi, dopo tempo e doveroso silenzio
La guerra che cambia e le sue nuove asimmetrie

Il tempo disegna quello che appare un consolidamento della guerra di aggressione in Ucraina. Eppure, quasi diventando pienamente “guerra” anche ad occhi russi, questa transizione materializza un “senso” dal quale emergono nuove e insidiose asimmetrie per coloro che si difendono e per i popoli e i paesi che li sostengono. Divergenti posizionamenti tra gli attori, intorno all’economia della morte e della distruzione
La Russia mantiene le modalità operative di combattimento che privilegiano il fuoco dell’artiglieria e la battaglia di usura con metodica erosione delle posizioni, letteralmente distruggendo e svuotando gli spazi urbani. A questo si accompagna la continuità dell’azione dal cielo (ma a basso tasso di presenza aerea) sulle infrastrutture civili e il terrore continuo che deve esaurire la popolazione, tra gli stenti e la morte.
Cambia però il passo del contesto, con una propaganda decisamente più spinta all’interno della Federazione. Significativo appare così persino il dilagare di falsità aperte per coprire alcuni colpi subiti (la distruzione della caserma Wagner nell’oblast di Lugansk a dicembre) e il parallelo crescere dei toni all’interno.
Chi ci parla delle trasmissioni televisive ne sottolinea la truculenta rabbiosità antioccidentale, il recupero pieno di una superba inimicizia, l’enfasi sulla solennità della situazione e della tenuta russa.
La mobilitazione resta ancora “parziale” ma si enfatizzano aspetti che sanno proprio di inclusione della popolazione nella guerra: enfasi sulla minaccia al territorio che riapre il tema della protezione aerea delle città interne: più una sollecitazione “alle armi” che constatazione effettiva di una minaccia. Retoriche della mobilitazione come schieramento prima che come fatica e missione.
Sul terreno, difficile computare successi e perdite ma il dato è quello proprio di uno scenario di erosione senza rotture significative e con guadagni limitati russi.
La fase è però cambiata: alla rabbiosa presenza “alternativa” di Wagner, che si è accollata a lungo il lavoro sporco e prosegue sacrificando uomini reclutati in ogni maniera (dunque un soggetto parallelo all’Armata e politicamente meno costoso), si affianca però, dal nuovo anno, il comando affidato apertamente a Gerasimov con una catena di comando che, dalla ritirata da Kherson gestita dalla figura di Surovikin, si è fatta più chiara.
L’enfasi sul ruolo di Gerasimov significa due cose: da un lato, lo sforzo sarà, per quanto “speciale” sia l’operazione, pienamente “nazionale” ed affidato all’Armata come garante di un’azione che ormai ha tempi lunghi e che viene rideclinata con un approccio sistematico e tradizionale: numeri, masse, fuoco distruttivo industriale se non tecnologico.
Gerasimov, secondo aspetto, ha spalle larghe per assumere, di fronte alla nazione, il ruolo di Responsabile gestore della crisi, sgravando in parte Putin dalle ricadute negative di parziali insuccessi sul campo.
Gerasimov vuol dire allora la strada della mobilitazione e della guerra in profondità.
Anche qui, dunque, un passaggio. La riorganizzazione logistica e produttiva che scava nelle possibilità lasciate aperte dalla politica delle sanzioni e dalle sue falle. Inclusi in questo tanto il recupero di una capacità produttiva nazionale che, sia pure con diseguali livelli qualitativi e tecnologici per la carenza di forniture, mette definitivamente in moto l’industria nazionale.
Ma inclusa in particolare la disponibilità di forniture esterne, sia in termini di magazzino (forse il ruolo principale della Korea del Nord) sia in termini di produzione (Iran).
Certo, il ricorso di emergenza a forniture di fabbrica iraniane non depone a favore della retorica putiniana intorno alla potenza tecnologica di prima grandezza della Federazione. Questi apporti però risultano pienamente fungibili nello scenario, come anche le montagne di proietti d’artiglieria, depositi di magazzino, o la rifunzionalizzazione in vesti trasformate e con ruolo di supplenza di tutti gli strumenti di fuoco disponibili (i missili navali convertiti in tomahawk da lanciare contro infrastrutture e città).
Ma tutto questo apre la strada ad una riflessione più profonda sul riplasmarsi delle asimmetrie di questa guerra.
Gli esordi vedevano la resistenza disperata e tellurica di un esercito “territorializzato” in funzione delle riforme del 2018 (il nuovo ROC Resistance Operating Concept), intrecciando all’azione delle unità regolari addestrate quella di una milizia capace di proteggere in varie forme il territorio. Il tutto integrando efficaci armamenti leggeri, comunicazione in rete e intelligence occidentale per mettere in crisi profonda l’originaria ambizione putiniana. Il colpo di mano è fallito nell’arco di 72 ore e si è aperto lo spazio per il completo ingolfamento operativo di un dispositivo troppo ambizioso in termini di ampiezza e ipotesi di occupazione e disperatamente goffo nella logistica, oltre che carente di forniture di base, soluzioni tecnologiche, comando e controllo.
Lo scenario lasciava spazio alla speranza che la resistenza ucraina, sempre più determinata e convinta, e i suoi colpi, definissero una economia delle perdite e delle spese inaccettabile per Putin.
La rimodulazione dell’Operazione speciale, tra la tarda primavera e l’estate, ha misurato il ridimensionamento forzoso, sino ad agosto apparso solo provvisorio, delle ambizioni territoriali, poi alla fine fissate con l’annessione delle quattro zone del sud-est. Un passaggio in apparenza paradossale perchè coincidente con una ritirata, ma intrecciato anche alla “mobilitazione parziale”
Le spallate subite con il recupero offensivo ucraino di settembre-ottobre hanno così definito un nuovo scenario, dopo gli assestamenti nella responsabilità di comando (Surovikin).
Un processo di consolidamento, anche a rassicurazione degli attori esterni e interlocutori del vertice di Samarkand: garantirsi gli strumenti per mantenere il controllo dell’impero anche nelle periferie, scricchiolanti, con una presenza militare adeguata. Aprire la strada a una seconda fase “profonda” che superasse gli errori e i limiti dell’approccio iniziale e associasse agli strumenti “di eccezione” – peculiarmente coloniali - attivati a primavera, Kadirov e Wagner, logiche e mezzi della tradizione. Declinando la guerra come usura, della popolazione con l’attacco devastante alle sue condizioni di vita invernali, e dell’apparato militare avversario affrontato con un dispositivo che assuma il respiro necessario e punti sulla “eterna” determinante dei numeri e sulla tollerabilità di costi e perdite.
La scommessa di Putin è ancora quella sul futuro cedimento dell’Occidente, giocata però sulla lunghezza degli anni (potenziale e certo non priva di difficoltà anche per la Federazione) e non più sul cedimento immediato sognato con il colpo di mano e, subito dopo, con la prima offensiva a sud (Mariupol, il Mar d’Azov, Odessa) e ad est (area di Kharkiv).
Agli esordi, sosteneva la causa ucraina l’originario paradigma asimmetrico, con l’occupante che si consumava, con costi e perdite impreviste, di fronte a un avversario e a un territorio incontrollabile. Reincanalare lo scenario nella prospettiva della guerra di usura per l’acquisizione di territori, ancorchè devastati e svuotati di popolazione – in parte letteralmente deportata nelle prime settimane - è stata la via per mantenere accesa una operazione che è diventata una guerra per il regime.
Sotto questo segno muta la scala dei costi accettabili, progredisce con cautela ma con intensità crescente il coinvolgimento solenne della popolazione russa nella prova, si trasforma anche la posizione relativa degli attori contrapposti.
L’Ucraina è totalmente mobilitata ma costretta a subire sofferenze terribili in ogni settore: dovrà misurare – reciprocamente alla Federazione – la capacità di assorbire colpi e perdite con un dispendio più alto determinato dalla esigenze di proteggere per quanto possibile la popolazione (problema che manca ai russi) e di rispettare la vita e il coraggio dei propri soldati (aspetto che per ora viene “contenuto” dai russi arruolando soprattutto nelle aree periferiche della Federazione e drenando risorse mercenarie di ogni tipo per i compiti più ingrati o feroci). La determinazione distruttiva, priva di ogni argine e discrimine, fissa una polarità etica che diventa asimmetria operativa.
Proteggere costa e l’impiego indiscriminato di mezzi a basso tasso di tecnologia e costo ma distruttivi ed efficaci se impiegati in massa, esalta l’asimmetria tra l’aggressore e chi si difende. I missili antiaerei costano anche 50 volte più dei droni iraniani che abbattono. Sbilanciamenti economici che insidiano la possibilità di proseguire senza cedere.
In fondo, a questo punto, i tempi lunghi di Putin scommettono sulla critica possibilità delle democrazie, plurali tra loro e negoziali al loro interno, di reggere una mobilitazione crescente. Sin qui ripartita tra più attori ma ora chiamata a un salto di qualità.
Asimmetria di fronte alla sofferenza, asimmetria di fronte ai costi e al tempo. Dati di fatto e certamente anche una scommessa politica interna per Putin che si presenta come disposto a tutto. E apparentemente incurante di sanzioni e indebolimento imminente degli equilibri finanziari di bilancio.
Un calcolo che può sbriciolarsi, ma solo se i mezzi per l’Ucraina arriveranno finalmente per tempo, e tali da intaccare con i loro effetti paralizzanti e in profondità, la sicumera e gli ingranaggi della macchina di distruzione. Non contare solo sulla formidabile agency resistenziale ucraina, ma restituire alla superiorità tecnologica, anche a questi più elevati livelli di strutturazione del conflitto, la sua virtualità di rigenerare una panoptica e vincente asimmetria.



domenica 29 gennaio 2023

Zelensky a Sanremo

 


 

Ecco un evento televisivo che ha trovato molti oppositori. Come mai? Guardiamo alla composizione del fronte contrario a un intervento destinato a durare due minuti in tutto. Questo fronte è composto da personaggi che hanno qualcosa in comune. Hanno tutti, in qualche occasione o sempre, votato a favore di un aiuto militare all'Ucraina. E tutti vogliono rendere nota una riserva mentale. Hanno votato per l'invio di armi all'Ucraina, ma non erano del tutto convinti. Queste persone continuano a cosiderarsi dei pacifisti, in realtà. La presenza di Zelensky è per loro intollerabile in quanto fa emergere una contraddizione. Sostenendo l'invio delle armi all'Ucraina, questi sedicenti pacifisti si sono schierati da una parte sola in un conflitto militare. Zelensky richiama una scelta ai loro occhi discutibile. Vade retro Satana! Ma questa non è gente cha resistito a Satana.  È gente che ha ceduto alla tentazione e ora mostra un qualche pentimento. A questo punto è utile introdurre nel discorso un altro elemento. I sondaggi. Ci sono stati dei sondaggi riguardo all'invio delle armi all'Ucraina. Un sondaggio di Euromedia Research illustrato da Alessandra Ghisleri su La Stampa dice che la maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi all’Ucraina. Il campione si schiera anche contro un eventuale intervento della Nato nel conflitto. E la maggioranza relativa pensa che la guerra finirà con un cessate-il-fuoco negoziato con la Russia che poi sarà imposto a Kiev. Gli italiani sentono il conflitto lontano. Tranne i giovani: il 15,8% sente vicine le ostilità della guerra, il 51% le sente addirittura prossime. Ghisleri spiega che la percentuale di contrari all’invio di armi è aumentata rispetto a dicembre. Mentre i favorevoli sono leggermente in calo. Tra questi ci sono gli elettori di Partito Democratico, Azione e Italia Viva. Ora l'enigma trova la sua soluzione. Che cosa accomuna Carlo Calenda, Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Gianni Cuperlo? La volontà di ostentare un certo pacifismo. Dove sta il crimine di Zelensky? Lasciamo parlare gli intellettuali (Carlo Freccero, Franco Cardini, Moni Ovadia e altri) contrari alla esibizione di Zelensky a Sanremo: "l'Italia ha rinunciato a svolgere l'importante ruolo di mediazione geopolitica che corrisponde alla sua vocazione storica, abdicando al contempo al proprio interesse nazionale e al proprio ruolo di fondatrice del processo di unificazione europea, come struttura per assicurare la pace fra le nazioni". Ecco il crimine: l'Italia avrebbe dovuto svolgere un ruolo di mediazione, tenendosi fuori della guerra. Questo non è avvenuto. Si è scelta l'Ucraina. Siamo un paese cattolico. Zelensky rappresenta la mela che, nel racconto biblico, ha fatto crollare la resistenza di Eva al peccato. C'è sempre posto per un pentimento.
Tutto molto semplice, alla fine. Tutto molto penoso, anche. La politica si fa spettacolo a buon mercato. Non c'è un voto parlamentare di mezzo. C'è una esibizione televisiva. Chi è contrario e strepita spera di guadagnare consensi. Scordiamoci il passato, diceva una vecchia canzone canzone napoletana: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.


venerdì 20 gennaio 2023

Soumahoro

 

 

Alessandro Ferretti 

A mio parere, a fare la figura peggiore nella vicenda Soumahoro non è Soumahoro stesso, ma i dirigenti nazionali di Sinistra Italiana e Verdi che lo hanno candidato.
Erano anni che l'operato di Soumahoro veniva messo in discussione da più parti, e si sapeva che le sue risposte alle accuse erano state evasive e insoddisfacenti. Ora sappiamo che Fratoianni era stato messo sull'avviso esplicitamente da più persone, anche interne al suo partito, e che oggi si giustifica dicendo nientemeno che "non c'erano ipotesi di reato".
Caro Fratoianni, perdonami la domanda ma davvero non capisco: ci sei o ci fai? Davvero pensi che un politico che cerca incessantemente visibilità proponendosi con grande prosopopea come simbolo vivente delle lotte degli ultimi, e che si ostina per anni a non spiegare come ha speso centinaia di migliaia di euro raccolti in beneficenza, nonostante ripetute richieste pubbliche, non finisca sotto la lente di ingrandimento mediatica subito dopo la sua elezione? Ma davvero davvero ritieni, come hai affermato, che non ci sarebbe stato alcun problema perché erano solo "voci" e "non c'erano ipotesi di reato"? Ma dove vivi, Fratoianni? Sul pianeta Marte?
Un simile clamoroso errore sarebbe stato difficile da perdonare anche nel caso che nessuno ti avesse avvisato.. ma a fronte di espliciti e molteplici avvertimenti, la stupidità di voler insistere con la candidatura è talmente colossale da risultare imperdonabile.
Io credo che di fronte a un simile errore, che mina alla radice la credibilità della dirigenza nazionale, l'unica possibilità per il partito di recuperare almeno un livello minimo di decenza passi dalla cacciata immediata di Fratoianni dal ruolo di segretario. Troppo comodo scaricare tutte le colpe su Soumahoro: viste come si sono svolte le cose, accettare le giustificazioni risibili di Fratoianni significherebbe posare una pietra tombale su un partito che già ha sofferto una terribile perdita di credibilità a causa del suo precedente segretario.
In politica, chi sbaglia paga: e se non arrivano le dimissioni del segretario, dev'essere il partito a cacciarlo via. Mi auguro che le tante persone che conosco e che militano o gravitano a vario titolo in SI si rendano conto che una netta soluzione di continuità sia indispensabile e operino urgentemente in tal senso.

giovedì 19 gennaio 2023

La Bersagliera

Gina Lollobrigida, la diva che diede speranza all’Italia che usciva dalla guerra

di Walter Veltroni

Il ricordo dell’attrice scomparsa a 95 anni, uno dei volti italiani del mondo del cinema: girò molti film negli Usa, al fianco dei più importanti attori americani. Ma i suoi personaggi, più di altri, raccontano il tempo in cui gli italiani tornavano a gustare la vita

Gina Lollobrigida, la diva che diede speranza all’Italia che usciva dalla guerra

Il primo film interpretato da Gina Lollobrigida è del 1946. Recitava il ruolo della cortigiana in «Aquila nera» di Riccardo Freda.

Bisogna soffermarsi sulla data, più che sul ruolo, per comprendere cosa abbia rappresentato l’attrice per il senso comune di generazioni di italiani. Suo padre era un ricco produttore di mobili ma perse tutto per un bombardamento alleato. E così, nella grande confusione di quel tempo la sua famiglia si trasferì da Subiaco a Roma, dalla provincia alla città, secondo il flusso migratorio delle povertà antiche e repentine di quei giorni.

La sua famiglia perse quello che aveva ma Gina aveva quello che l’Italia aveva perso: la bellezza. Partecipò a vari concorsi per miss e arrivò sempre nelle prime posizioni, ma mai ne vinse uno. Le gare di bellezza nell’Italia squarciata dalle bombe e dalla divisione possono apparire un ossimoro. Ma non è così.

Il paese che aveva pianto i figli e i mariti morti al fonte, contemplato le case distrutte dalle bombe e sofferto la dittatura, la fame e l’occupazione straniera aveva finalmente voglia di luce e di sorriso. Alla pesantezza della morte e del nero voleva opporre l’allegria del sorriso e la gioia della leggerezza. La bellezza contro il dolore. L’allegria contro la paura. Gina Lollobrigida incarnò, il verbo non è scelto a caso, questo desiderio di rinascita. Era esageratamente bella, trasmetteva una gioia di vivere che era estranea al lungo inverno italiano. Era a colori, in un mondo in bianco e nero.

L’Italia, finito il mito dell’impero, si riscopriva piccola, ritrovava il fascino delle storie minute come rifugio alle promesse fallaci di grandezza. Il piccolo comune di Sagliena, luogo immaginario, somigliava al paese intero. È lì che Luigi Comencini decise di ambientare «Pane amore e fantasia» che diventerà uno dei primi prodotti seriali della nostra cinematografia. La Lollobrigida e De Sica costituirono una coppia irresistibile. Lui ha cinquantadue anni, lei ventisei. Lui è un mondo che declina, lei il nuovo che avanza.

La Lollobrigida sarà poi uno dei volti italiani nel mondo. Girerà molti film negli Usa, al fianco dei più importanti attori americani: Burt Lancaster, Humphrey Bogart, Frank Sinatra, Steve Mc Queen, Tony Curtis. In un paese abituato agli antagonismi, da Romolo e Remo a Coppi e Bartali, la Lollobrigida venne immediatamente messa in competizione con l’altra star mondiale del nostro cinema: Sophia Loren. E nonostante anche la «Bersagliera» avesse avuto la fortuna di essere diretta da maestri come Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Luigi Zampa, negli Usa, da King Vidor o John Houston e in Francia da Jules Dassin o Agnès Varda le restò sempre la sensazione che alla Loren fosse riconosciuto, dal cinema italiano di qualità, un peso diverso.

La Lollo era una bravissima attrice. Io la ricordo così in un film della fine degli anni sessanta, «Un bellissimo novembre» di Bolognini e, soprattutto, nella magnifica interpretazione della Fata Turchina nel «Pinocchio» di Comencini. I suoi personaggi, più di altri, raccontano l’incanto di quel tempo, la seconda metà degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta, in cui gli italiani tornavano a vivere una vita normale, a sperare, a gustare la vita. La vita normale. Senza guerre, dittature, fame. La vita normale, fatta di pane, di amore e di fantasia.

 

martedì 17 gennaio 2023

Dante strattonato

 

 

 


Dante né di destra né di sinistra? Intanto si dovrebbero usare le parole destra e sinistra in senso lato. Poi si può anche scoprire che Dante è stato l'una e l'altra cosa. Per certi aspetti anticipa addirittura la Costituzione americana. Il governo per il popolo e non il popolo per il governo. Il diritto alla felicità. E poi l'esule che paga per la sua contrarietà alpartito dominante. I suoi modelli politici sono invece di tipo conservatore, senza dubbio. Questo è il Dante reale, a nostro avviso.

Giuseppe Sciara

Consiglio di lettura alla luce della recente polemica e dell'ondata di indignazione per le parole di Sangiuliano. Certi autori non sono né di destra né di sinistra, ma vengono usati politicamente e strumentalizzati nelle maniere più diverse. Vale per Dante, come per Machiavelli, Alfieri e altri. Nel bel libro di Fabio Di Giannatale, "Specchi danteschi" (ETS, 2020) troverete un Dante riformatore, uno "giacobino", uno nazionalista, uno "esoterico". E ancora: precursore di Mazzini, cattolico per eccellenza, profeta del primato italiano... E questo solo per l'Ottocento italiano.

domenica 15 gennaio 2023

Mariolina Bertini, Su Liala

 


Mariolina Bertini, Su Liala, sl, Nuova editrice Berti 2022, 80 pp.

Questo piccolo libro è per me una sorpresa. Conoscevo in parte gli scritti di Mariolina Bertini su Liala e, francamente, mi ero fatto un'idea diversa. A una lettura più attenta e completa, la rivalutazione o l'apologia di Liala si rivela un aspetto secondario. Per me questa doveva essere una irruzione nel dominio della letteratura rosa, una stravaganza proveniente dalla natura birichina dell'autrice, abitata da uno spiritello diabolico che non si arrende e che, anzi, si manifesta volentieri, in modo gioioso e noncurante. Illustrare il fascino di Liala poteva essere un modo per andare contro corrente. E l'autrice va contro corrente quando mette in luce il lato frivolo dei romanzi scritti da Liala e al tempo stesso vede nello splendore del culto riservato agli oggetti che simboleggiano la riuscita un fattore di fascino: fascino quasi ipnotico, fascino irresistibile, scrive. Camilla Cederna introduce nel testo il tema del kitsch. Questa è una prima particolarità che va oltre il repertorio delle stranezze. Alla fine l'opera di Liala mostra la persistenza del kitsch nell'epoca del disincanto. Una seconda particolarità è legata all'attenzione per il perturbante. Pur tra tante cianfrusaglie colpisce il mutamento nel ruolo della donna. Cambia il rapporto della donna con il desiderio. Parola chiave per Lacan, come è noto. Parola antica, che percorre l'intero episodio di Paolo e Francesca nella Commedia. Desiderio condiviso in quel caso. Qui invece siamo al tempo di lady Chatterley. Liala approda a un riconoscimento e a una esaltazione del desiderio femminile. Intanto nello spazio attribuito all'attesa e all'idoleggiamento del corpo maschile. E poi c'è l'esplosione: le donne diventano macchine desideranti di inaudita potenza. Siamo ben lontani dalla banalità dilagante nel romanzo rosa.

 

martedì 10 gennaio 2023

Cgil e pentastellati, parassiti di una sinistra che affonda


Gianluca De Rosa, Non solo nel Lazio, le affinità elettive tra Conte e la Cgil di Landini, Il Foglio, 10 gennaio 2023

Roma. La decisione Tina Balì, membra della segreteria nazionale della Flai Cgil, un passato dentro alla federazione laziale del sindacato, l’ha presa all’ultimo momento, ma non per questo con meno convinzione. “Alle ultime elezioni regionali – ricorda – ho sempre sostenuto Nicola Zingaretti, penso sia stato un bravo presidente, ma oggi mi trovo più con il M5s, sono gli unici che nel merito stanno seguendo le istanze che arrivano dal sindacato”. Balì sarà la capolista del Coordinamento 2050, la lista di sinistra creata da Stefano Fassina, Paolo Cento e Loredana De Petris che in Lazio affiancherà quella del M5s in appoggio a Donatella Bianchi contro il candidato di Pd e Terzo polo Alessio D’amato.

La Cgil, insomma, si sposta. Pensare che per cinque anni, il ruolo di assessore al Lavoro nella giunta Zingaretti lo ha svolto Claudio Di Berardino, uno che della Cgil è stato segretario regionale. Ma, si sa, le cose cambiano. D’altronde non sono più in tempi in cui Beppe Grillo liquidava il sindacato a “struttura vecchia come i partiti politici”, né quelli in cui Roberta Lombardi, in trattativa con Bersani per un governo che non nacque mai, teorizzava l’inutilità del sindacato: “Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo quelle parti sociali”, diceva l’uscente assessore all’ambiente della giunta rossogialla del Lazio, riducendo i sindacati a “grumi di potere che mercanteggiano soldi”. E non è neanche il 2019, quando sul Blog delle stelle apparve un articolo che annoverava Landini tra quell’”élite di privilegiati” che “guadagnano migliaia di euro al mese” senza fare davvero “l’interesse dei lavoratori”. Non è passato poi così tanto tempo, eppure oggi a quello stesso Landini, ex nababbo sindacalista, Conte sta facendo una corte spietata. Tutto è iniziato lo scorso 8 ottobre quando il fu avvocato del popolo, ospite ad una manifestazione disse: “Nel rispetto dei ruoli la nostra agenda sociale ha molti temi in comune con quella della Cgil: contro le buste paga da fame, contro il precariato selvaggio e per restituire dignità al lavoro”. Due mesi più tardi, il 6 dicembre, Landini è stato ospite di Conte nella sede del M5s in via di Campo marzio per un confronto sulla legge di bilancio del governo Meloni. “Su molte nostre richieste c’è un terreno importante e comune di iniziative”, disse uscendo il segretario della Cgil. L’ufficializzazione di un patto, nuove convergenze dopo quelle già sancite sul tema della pace a qualsiasi costo in Ucraina.

Ma è da tempo che un pezzo consistente del sindacato rosso guarda con maggior favore ai grillini che agli ex riferimenti politici del Pd. Alle scorse elezioni politiche uno storico volto della Cgil bolognese, Danilo Gruppi, annunciò il suo voto al Movimento: “E’ la prima volta che non scelgo un partito derivato dal Pci, ma ormai i 5 stelle sono più a sinistra del Pd che ormai è il partito dell’establishment, solo gente come Lepore o Provenzano ha in mente una prospettiva laburista che, però, resta nei loro sogni”, spiegò al Corriere della Sera. E Balì oggi al Foglio sostiene cose non affatto distanti. “Dentro al Pd – dice – c’è tanta gente di valore, ma soprattutto a livello nazionale è mancato il coraggio, l’audacia di fare e dire cose radicali, dalla parte dei lavoratori, con Conte invece c’è sintonia, l’ho sentito anche in occasione della legge di bilancio, si è impegnato con noi contro i voucher, ci ha ascoltato, come d’altronde ha sempre fatto anche negli anni in cui era a palazzo Chigi”.

 

domenica 8 gennaio 2023

Ucraina: la pace si allontana


 
Francesco Strazzari, Ucraina, lo stallo non ferma la guerra che alimenta crisi sociali e nuovi conflitti, il manifesto, 6 gennaio 2023

«Mi piace la strada su cui ci troviamo: con armi e denaro dall’America, l’Ucraina combatterà la Russia fino all’ultimo uomo». A parlare è stato il senatore repubblicano Usa Linsdey Graham, il quale ha poi ha precisato che la vittoria ucraina sulla Russia è «un reset dell’ordine mondiale che va nel senso giusto».

Arrivati a gennaio, freddo e gelo non hanno rallentato sostanzialmente le ostilità: droni e missili restano più che mai protagonisti, anche se non si registrano sfondamenti del fronte – che assomiglia sempre più al tritacarne evocato dal boss dei mercenari russi, Prigozhin. Nulla oggi lascia pensare che la guerra rallenterà la sua corsa. Mobilitando nuove reclute, mostrandosi pronto a reggere ed imporre un costo insostenibile di vite umane, il Cremlino alterna riferimenti al negoziato con massicci bombardamenti.

PUTIN PUNTA a guadagnare tempo e forzare un accordo che legittimi le conquiste, portando divisioni in campo ucraino e scardinando il principio di intoccabilità dei confini internazionali. Gli ucraini dichiarano che Putin è vicino alla morte per malattia. Dispongono di uno degli eserciti più rodati al mondo e sono appoggiati da un Occidente che ha tutto l’interesse a non vedere scalfita, davanti alla Cina e alle potenze emergenti, l’immagine di efficacia ed unità di cui, dopo il disastro afghano, ha dato prova. L’invasione russa ha turbo-caricato il nazionalismo ucraino, che autoproclama la benigna inclusività dei propri miti: ha celebrato il compleanno di Stepan Bandera, senza troppo preoccuparsi per critiche suscitate fra i sostenitori ad Ovest, a partire dai polacchi.

Più in generale, la guerra in Ucraina proietta una lunga e densa ombra sulle relazioni internazionali. Essa ha dato corda all’aggressività militare di Erdogan, l’alleato Nato che ama scagliarsi contro Washington e fare affari con Mosca. Piagata da un’inflazione oltre l’80%, la Turchia affronta nel 2023 elezioni incerte, mentre è impegnata non solo ad invadere il nord della Siria in chiave anti-curda, ma anche a rafforzare la propria influenza militare in Africa (Libia e Somalia) e a sostenere il regime azerbaijano nella guerra agli armeni. Mentre soffiano i venti della recessione economica, la guerra in Ucraina si è rivelata una manna per l’Arabia Saudita, che ha allargato le proprie quote sul mercato del petrolio, opponendo un netto rifiuto alla richiesta americana di aumentare la produzione per calmare la corsa dei prezzi. Lontano dai riflettori mediatici, il conflitto fra Etiopia e tigrini ha mietuto mezzo milione di vittime. Al di là degli scenari di crisi (Iran e Pakistan, ma anche Libano, Yemen e Haiti) inflazione, insicurezza alimentare, pandemia e variabilità climatica (eventi estremi) restano fattori che non solo destabilizzano il sud del mondo, ma premono in misura crescente anche su un paese come l’Italia che – reso fragile da un crescente divario sociale – si qualifica (per poco) fra le prima dieci economie del mondo.

NÉ RUSSIA NÉ UCRAINA sembrano in alcun modo vicini a concepire colloqui di pace. La scommessa di Mosca sullo sgretolamento del consenso occidentale per l’Ucraina nel corso dell’inverno sta in larga parte mostrandosi perduta. La proposta del Patriarca russo Kirill- accolta e rilanciata da Putin – di una «tregua bilaterale» per il Natale ortodosso suona assai controversa, essendo premessa su un’idea di unità religiosa fra russi e ucraini che il Patriarcato di Mosca ha minato.
Se guardiamo alle linee di tendenza che caratterizzano i conflitti armati nell’era successiva alla Guerra Fredda, notiamo il vacillare di quella logica strumentale di controllo che possiamo in qualche modo ricondurre alla tradizione del pensiero realista, da Machiavelli a Clausewitz: un’idea di stati sovrani funzionanti, incommensurabilmente più capaci, in termini coercitivi, economici ed ideologici, rispetto a qualsiasi altro attore. Le guerre di oggi sono attraversate da nozioni di soft power, diffusione tecnologica, disintermediazione dell’informazione, milizie paramilitari e compagnie di sicurezza private. L’unicità dello stato, per quanto sbandierata dagli slogan nazionalisti di volta in volta riesumati, appare sempre più problematica. In questo quadro, emerge in modo piuttosto netto come la violenza (più combattimento verso una vittoria rapida) non fermi le guerre: molti conflitti armati mostrano invece propensione a protrarsi nel tempo e nello spazio.

RARAMENTE IL RICORSO alla forza da parte degli stati è risultato determinante per gli esiti, e tantomeno capace di risolvere i conflitti. In altre parole, la guerra come strumento della volontà politica sembra funzionare sempre meno rispetto al conseguimento degli obiettivi dichiarati. Questo dato obbliga a porsi domande sul nazionalismo e su come la guerra (la spesa militare crescente, così come la guerra guerreggiata) accompagni la trasformazione della società. Da ultimo, pone l’esigenza di ripensare con urgenza la pace e la prassi pacifista.

venerdì 6 gennaio 2023

La battaglia di Ratzinger contro il relativismo

 


Vito Mancuso, Papa Ratzinger, Dio, la fede e la battaglia al relativismo, La Stampa 5 gennaio 2023
 
Oggi viene celebrato il funerale di Joseph Ratzinger e con questo articolo io vorrei rendergli omaggio. Lo posso fare solo in prospettiva critica, perché non mi sono mai riconosciuto nella sua teologia e perché considero il suo papato un momento più negativo che positivo per la Chiesa e per la società contemporanee. Tuttavia riconosco di aver spesso avvertito che egli aveva il grande merito di richiamare con chiarezza i temi fondamentali della fede. Quali sono? Non i migranti, non l'ecologia, non la sessualità, non l'omosessualità, non la bioetica, non il celibato ecclesiastico, non il sacerdozio femminile, non in genere tutti i temi per così dire orizzontali che riguardano il nostro essere parte del mondo, compreso quel particolare pezzo di mondo che è la Chiesa cattolica. Non che essi non siano importanti, lo sono, eccome. Tuttavia non sono essenziali, non rappresentano cioè l'essenza specifica che fa esistere la peculiare disposizione della mente e del cuore che si chiama "fede"; anzi, fede in "Dio" in quanto intelligenza creatrice, causa e finalità dell'essere, alfa e omega.
Ratzinger ha avuto il grande merito di richiamare di continuo la mente ai temi fondamentali della fede di cui chiarisco la natura tramite una pagina di Agostino, il suo teologo più amato (insieme a Bonaventura e a Newman). Agostino immagina di ricevere la visita della Ragione in persona, la quale gli chiede di riassumere in poche parole il suo desiderio. Lui risponde: «Dio e l'anima: questo desidero conoscere». La Ragione: «Nulla di più?». Lui: «Assolutamente nulla di più» (Soliloqui 1,2). Ecco i temi fondamentali della fede: Dio e l'anima. Da essi dipende tutto il resto, compreso Gesù Cristo, la Bibbia, i Sacramenti, la Chiesa e gli altri elementi del cristianesimo, perché questi hanno senso per un essere umano solo alla luce dell'esistenza di Dio, dell'esistenza dell'anima e della loro possibile unione.
L'unione di Dio e anima giunge a formare il concetto decisivo della teologia di Ratzinger: quello di verità. La verità non è una dottrina o una formula o uno stato di cose; non coincide con l'esattezza. La verità è l'unione di Dio e anima: cioè di senso oggettivo e di senso soggettivo, di esattezza e di convinzione, di logica e di fervore, di dottrina e di conversione, di ortodossia e di ortoprassi. La verità è come uno spartito musicale: ha una sua oggettività, ma rimane muta per chi non ne conosce il linguaggio e non ne sente le vibrazioni dentro di sé. Il motto che Ratzinger scelse per lo stemma episcopale è "Cooperatores veritatis", "Collaboratori della verità". Nessun altro concetto aveva per lui tanta importanza. Ovviamente anche altri concetti strutturano la sua teologia, soprattutto fede, ragione, coscienza, amore, ma è il concetto di verità a fare la differenza perché, diceva, è solo a una ragione, a una fede, a una coscienza, a un amore "veri" che va attribuito credito.
Fu questo a fargli intraprendere la sua battaglia più aspra, quella contro il relativismo. Egli denunciava incessantemente la sua massiccia presenza nella nostra società parlando al proposito addirittura di «dittatura del relativismo», con un concetto in realtà un po' curioso perché il relativismo per definizione relativizza e quindi elimina in radice l'assolutismo alla base della dittatura, per cui se c'è relativismo non può esserci dittatura. Egli però in questo modo intendeva denunciare un persistente uso della ragione teso a minare sistematicamente l'assolutezza della verità: e per lui, se non c'è assolutezza, non c'è neppure verità. Non c'è quell'incontro esistenziale così coinvolgente ed esigente con l'alterità che si può anche chiamare amore.
Questi discorsi possono sembrare astratti, ma invece hanno una ricaduta politica quanto mai concreta che riguarda tutti, credenti e non-credenti. Dico anche non-credenti, perché alcuni di loro tra i pensatori e i politici proprio durante il pontificato di Ratzinger presero a definirsi "atei devoti". In che senso? Nel senso che, pur senza fede personale, aderiscono ai tradizionali orientamenti cattolici su bioetica, sessualità, demografia, famiglia, istruzione, "radici cristiane" o "giudaico-cristiane" dell'Europa, assegnando alla rinascita del cristianesimo la stessa sopravvivenza della civiltà occidentale e delle singole identità nazionali. Dio può anche non esistere, affermano, ma bisogna agire come se esistesse e su questa base difendere la patria e la famiglia tradizionale. Ratzinger sintetizzava la prospettiva parlando di «principi non negoziabili», da lui concretamente individuati nella triade «vita, famiglia, scuola». Il concetto di verità, in questo modo, da unione intima dell'anima con Dio si trasforma in una bandiera di militanza politica e di prassi legislativa.
A mio avviso, però, in questa impostazione c'è qualcosa che non va: mi riferisco al corto circuito provocato da un'assenza decisiva, quella del concetto di laicità. Cosa intendo con laicità? Intendo il metodo che governa il rapporto tra la dimensione interiore e la dimensione esteriore della vita umana. La dimensione interiore è espressa dalla spiritualità e dall'etica, la dimensione esteriore dal diritto e dalla politica. Ognuno di noi ha una sua spiritualità e una sua etica personali, le quali però non possono essere trasferite così come sono nella dimensione pubblica dell'esistenza rappresentata dal diritto e dalla politica, ma devono essere mediate con le altre diverse spiritualità ed etiche esistenti, e tale mediazione necessaria si chiama laicità. La laicità indica il metodo che sa trovare il punto di equilibrio tra le molteplici sfere interiori dei singoli e la necessariamente unica sfera esteriore del diritto, e che lo fa tramite la politica.
Tenere presente questa distinzione è essenziale per comprendere come agire rispetto ai «principi non negoziabili» di cui parlava Ratzinger. Tale non-negoziabilità dei principi è legittima e necessaria a livello di foro interiore, nel senso che ognuno non deve mai tradire le proprie convinzioni quando ad agire è lui in prima persona, ma non può essere tradotta tale e quale nella sfera pubblica così ricca di differenze: il foro interiore della prima persona singolare non è mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale. Ne consegue che a livello politico non c'è nulla che non sia negoziabile, dato che la negoziazione, ben lungi dall'essere relativismo, è l'anima stessa della politica democratica e della sua prassi legislativa. Non ha quindi senso parlare in ambito politico di «principi non negoziabili», e continuare a farlo comporta il grave rischio di rendere "orizzontale" la costitutiva verticalità del cristianesimo facendone un'ideologia politicamente spendibile, un instrumentum regni assai gradito a quelle forze politiche che oggi si definiscono "sovraniste" (e non è certo un caso che oggi ai suoi funerali vi sia il premier ungherese Viktor Orbán, il simbolo del sovranismo europeo). Nell'insufficiente considerazione del principio di laicità l'impostazione ratzingeriana, non a caso tanto gradita all'integralismo cattolico, mostra le sue maggiori lacune. E si tratta di lacune "teologicamente" pericolose, perché se è vero che i temi fondamentali della fede non sono i migranti e l'ecologia, è altrettanto vero che non lo sono neppure la patria, la famiglia, la vita fisica, per cui legare a queste istanze il cristianesimo significa fargli perdere la sua essenza specifica, il suo "sale" avrebbe detto Gesù.
Vorrei però concludere ricordando l'amore per Dio di Joseph Ratzinger. Sembra che le sue ultime parole, pronunciate in italiano, siano state «Signore ti amo» e per questo do ancora la parola al suo Agostino la cui opera ricordata sopra si conclude con questo messaggio di speranza da parte della personificazione della Ragione: «Fatti coraggio: Dio sarà vicino a noi che cerchiamo, già lo sentiamo. Lui promette la felicità più grande e la pienezza della verità, senza più alcuna menzogna, dopo questa vita». —