Guido Rampoldi
Chi vince e chi perde nell'orrore di Gaza
Domani, 10 ottobre 2025
Nella trattativa che ha condotto al precario cessate il fuoco di Gaza sarebbe facile leggere l’exploit finale dell’Impero americano, ancora capace di imporsi con benefica, imperiale efficacia sul caos planetario. E così Trump presenta l’accordo finale, intestandosi il successo e prenotando il Nobel. Ma a ben vedere proprio quel negoziato potrebbe rappresentare, al contrario, il commiato della Superpotenza, protagonista assoluta del vecchio ordine cominciato settant’anni fa.
A Sharm el Sheikh forse è cominciata in sordina la transizione verso un nuovo ordine nel quale potenze regionali e organizzazioni non statuali eserciteranno un ruolo ad esse finora precluso dalle grandi potenze. I tempi sono istruttivi. Con una certa ubris neo-coloniale Trump aveva intimato ad Hamas di accettare entro domenica il suo piano di pace: ma è stato ignorato.
Ed adesso è chiaro che i suoi 20 punti sono il canovaccio di un negoziato al quale lavorerà, e ha cominciato a lavorare, una schiera di potenze, regionali e non. Per sbloccare lo stallo sul cessato il fuoco è stata decisiva la mediazione di Qatar, Egitto e Turchia, regimi che accusano Israele di condurre un genocidio a Gaza e lasciano filtrare disprezzo per il piano Trump («Una farsa», secondo un diplomatico egiziano citato dal sito Mada Masr).
Adiacenti alle trattative al Cairo erano in corso riunioni tra Hamas, l’Autorità nazionale palestinese e la principale formazione dell’Olp, Fatah. Infine a Sharm el Sheikh operavano, in veste di osservatori, delegazioni di servizi segreti e diplomazie di Gran, Bretagna, Francia, Arabia saudita, Emirati, Giordania.
Significative le assenze: l’Onu, il cui futuro va reinventato; la Cina, che pure nell’area ha un peso; l’Unione europea, che paga due anni di stolte divisioni. Assente anche l’Italia, non citata nella lista delle delegazioni pubblicata dalla stampa egiziana. Vent’anni fa eravamo ancora un interlocutore ascoltato in Medio Oriente, ora siamo i volenterosi che si precipitano ad offrire soldati ad una possibile “Forza multinazionale di pace” senza sapere se e con quale mandato sarà schierata.
Rispettando il copione dell’ipocrisia diplomatica tutti i governi mediorientali hanno allisciato l’ego di Trump attribuendo al presidente il merito del cessate il fuoco con lo stesso entusiasmo col quale, nell’ultima assemblea generale dell’Onu, avevano lodato in pubblico il suo intervento torrenziale e poi avevano sghignazzato alle sue spalle.
Ma a tutti è chiaro che Trump non potrà decidere da solo la partita di Gaza e le due questioni cui essa è collegata: se e come l’esercito israeliano si ritirerà dalla Striscia, chi avrà sovranità in futuro su quel territorio. Nelle prossime giornate gli israeliani dovrebbero attestarsi nella metà settentrionale della Striscia, così da liberare aree che attualmente occupano e dare modo ad Hamas di recuperare le salme degli ostaggi uccisi dai bombardamenti o scannati dai carcerieri nell’approssimarsi dei soldati. Ma non c’è accordo sulle tappe di ritiri ulteriori.
Soprattutto se nascessero contrasti sul disarmo di Hamas, condizione al momento vaga (quali armi andranno consegnate? A chi?), il governo Netanyahu potrebbe rifiutarsi di abbandonare la Striscia. Mancando un accordo di pace. In quel caso, non comincerebbe la ricostruzione delle città distrutte e tanti palestinesi accampati tra le rovine sarebbero sospinti verso l’esilio. La destra israeliana coglierebbe il risultato che si era prefissa: tenersi parte della Striscia, spopolarla con una pulizia etnica per così dire “volontaria” e sventare la possibilità che una Gaza liberata (dagli israeliani e da Hamas) diventi il nucleo di una Palestina indipendente, inclusiva di parte del West Bank. Se questa consecuzione di manovre non riuscisse, il governo israeliano mancherebbe l’obiettivo cui ha sacrificato le vite di oltre mille soldati: impedire la nascita della Palestina.
Di sicuro un conflitto combattuto non più con le armi ma con la diplomazia priva Israele del suo vantaggio strategico. Tanto più perché l’atmosfera sta cambiando anche negli Stati Uniti, dove influenti opinionmaker della destra americana, come Tucker Carlson o Elon Musk, si chiedono perché mai Washington dovrebbe continuare a sostenere un alleato che ora raccontano come sleale e prepotente, Israele.
Inoltre e soprattutto: non solo Israele ha perso definitivamente il monopolio della verità, ma i tormenti inflitti ai palestinesi, documentati da filmati nel web e non più invisibili, hanno reso l’umanità di una popolazione, i palestinesi, che finora non entrava nell’orizzonte delle opinioni pubbliche occidentali se non nei panni del terrorista.
Questo lato "emozionale” del conflitto spesso è ignorato, eppure il cammino verso la pace diventerà possibile solo quando palestinesi e israeliani riusciranno a provare empatia per le sofferenze dell’Altro. Forse è meno difficile di quanto si ricavi dall’astio non negoziabile tra i loro vertici politici.

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