lunedì 30 dicembre 2013

Hannah Arendt: la politica, il nuovo, la libertà

Laura Boella
La politica ha senso in se stessa: il mito della polis ateniese
Europa, 13 agosto 2013
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Meritano una rilettura le pagine di Vita activa in cui alla «condizione umana» viene restituita la sua massima prerogativa, quella di «dare inizio», di introdurre il «miracolo» del nuovo nel mondo. L’attuale crisi della politica ha dei tratti inconfondibilmente nuovi, e non si tratta semplicemente di rileggere un “classico”. Occorre piuttosto cogliere fino in fondo l’effetto straniante (Arendt fu acuta lettrice di Brecht), lucido e per nulla idealizzante, della concezione arendtiana di politica.
Vita activa si propone di ridefinire il concetto di azione. Dopo averla distinta dal “lavoro” – l’attività dell’animal laborans che corrisponde allo scambio organico tra uomo e natura necessario per la riproduzione della vita biologica – e dall’«opera» – l’attività di fabbricazione attraverso cui l’uomo crea una «seconda natura», producendo beni durevoli, dagli oggetti d’uso alle opere d’arte – l’«azione» nel senso autentico del termine rappresenta la massima espressione della dignità umana, l’attività attraverso cui l’individuo dà senso alla propria esistenza, riscattandosi dai vincoli biologici e affermando la propria unicità. Ne sono esempio la virtù del cittadino della polis, il coraggio dell’eroe omerico. L’azione diventa propriamente principio dell’agire politico quando si coniuga con la pluralità e con il discorso. Nasce così lo «spazio pubblico», ossia la forma di comunità che per Arendt ha la realtà dell’«agire di concerto» nel mondo comune. Si tratta di una realtà radicalmente intersoggettiva e relazionale. Non coincide con alcun territorio o spazio determinati, sta prima delle varie forme di governo o di organizzazione della vita pubblica, e coincide essenzialmente con la possibilità dell’essere insieme.
Nello spazio pubblico così delineato si configura un’accezione di politica radicalmente contrastante con la tradizione del pensiero moderno. La politica non soggiace alla logica mezzo-fine, e non è ispirata al principio della sovranità, bensì ha il suo fine in se stessa, nel consentire agli esseri umani di riconoscersi e di attestare la realtà del mondo come spazio di visibilità e di discorso. La politica è una possibilità sempre aperta per chiunque, ma intrinsecamente fragile, è esercizio di un “potere” di iniziativa che non ha nulla a che vedere con la forza o con la violenza, bensì è tutt’uno con la libertà.
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testi http://machiave.blogspot.it/2013/01/hannah-arendt-unidea-alta-della-politica.html


domenica 29 dicembre 2013

Rousseau, l'idillio delle ciliege

Il tratto saliente che caratterizza il legame di Rousseau con le donne amate risulta essere la delega di ogni iniziativa e dell’'intera gestione del rapporto amoroso all’'altra, in una sorta di rinuncia a priori ad un confronto sentito come inquietante, fonte di seducenti promesse, ma anche di imprevedibili minacce.
Elena Pulcini, Introduzione (J. J. Rousseau: l’immaginario e la morale) alla Giulia o la Nuova Eloisa, Bur, Milano 1994. 


Les Confessions, Livre IV

Mi ero insensibilmente allontanato dalla città; il caldo aumentava, e passeggiavo all'ombra di un vallone lungo un ruscello. Odo alle mie spalle uno scalpitare di cavalli e voci di ragazze che parevano in difficoltà, e nondimeno ridevano di cuore. Mi volto, mi chiamano per nome, mi avvicino, e vedo due fanciulle di mia conoscenza, la signorina di Graffenried e la signorina Galley, che, non essendo cavallerizze provette, non sapevano come convincere i loro cavalli ad attraversare il ruscello. La signorina di Graffenried era una giovane bernese graziosissima, che, scacciata dal suo paese per qualche follia della sua età, aveva imitato la signora di Warens, presso la quale l'avevo vista qualche volta; ma non disponendo come lei di una pensione, era stata ben felice di appoggiarsi alla signorina Galley, che, avendola presa in amicizia, aveva persuaso la madre a dargliela come compagna, finché non si fosse potuto sistemarla altrimenti. La signorina Galley, di un anno più giovane, era ancora più bella; aveva un non so che di più delicato, di più fine; era insieme molto minuta e ben formata: il momento più bello di una fanciulla. Entrambe si amavano teneramente, e il buon carattere dell'una e dell'altra non poteva che prolungare quell'unione, se qualche amante non fosse sopraggiunto a turbarla. Mi dissero che andavano a Thônes, antico castello della signora Galley, e implorarono il mio aiuto per far guadare i cavalli, non venendone a capo da sole. Volli frustare le bestie, ma le fanciulle temevano i calci per me, e gli sbalzi per loro. Ricorsi a un altro espediente. Afferrai per la briglia il cavallo della signorina Galley, poi tirandomelo appresso, attraversai il ruscello con l'acqua a metà gamba, e l'altro cavallo seguì docilmente. Ciò fatto, volli salutare le signorine e andarmene come uno sciocco; esse si scambiarono qualche parola sottovoce, e la signorina di Graffenried, rivolta a me, disse: «No, no: non ci sfuggirete così. Vi siete inzuppato per aiutarci; e a noi spetta in coscienza la cura di asciugarvi. Bisogna, per piacere, che veniate con noi: siete nostro prigioniero.» Il cuore mi batteva, e guardavo la signorina Galley. «Sì, sì,» aggiunse lei, ridendo della mia aria smarrita, «prigioniero di guerra. Montate in groppa dietro a lei: vogliamo rispondere di voi.» «Ma, signorina, io non ho l'onore d'essere conosciuto dalla signora vostra madre: che dirà vedendomi arrivare?» «Sua madre,» rispose la signorina di Graffenried, «non è a Thônes, siamo sole; torniamo questa sera e tornerete con noi.»

L'effetto dell'elettricità non è più fulmineo di quello che produssero su di me quelle parole. Balzando sul cavallo della signorina de Graffenried, tremavo di gioia, e quando bisognò che l'abbracciassi per sorreggermi, il cuore mi batteva tanto forte che lei se ne accorse; mi disse che anche il suo batteva per la paura di cadere, ed era quasi, in quella posizione, un invito a verificare il fatto. Non osai, e per l'intiero tragitto le mie braccia le servirono da cintura, strettissima in verità, ma senza spostarsi un istante. Ogni mia lettrice mi schiaffeggerebbe volentieri, e non avrebbe torto.
L'allegria del viaggio e il cinguettio delle ragazze eccitarono a tal punto il mio che sino a sera, e finché restammo insieme, non smettemmo un momento di parlare. Mi avevano messo così perfettamente a mio agio che la mia lingua parlava quanto i miei occhi, benché non esprimesse le stesse cose. Solo per qualche istante, quando mi trovavo a tu per tu con l'una o con l'altra, la conversazione s'impacciava un poco; ma l'assente tornava prestissimo e non dava all'impaccio il tempo di chiarirsi.
Arrivati a Thônes, e io ben asciugato, facemmo colazione. Poi bisognò procedere all'importante operazione di preparare il pranzo. Le due signorine, mentre cucinavano, baciavano di tanto in tanto i figli della castalda, e il povero sguattero guardava, mordendo il freno. Dalla città erano state inviate delle provviste e c'era di che preparare un pranzo eccellente, soprattutto in fatto di ghiottonerie; ma sfortunatamente avevano dimenticato il vino. La dimenticanza non era strana per le ragazze che non bevevano; ma io ne fui seccato, perché avevo un po'contato su quell'aiuto per farmi coraggio. Anch'esse ne furono seccate, forse per lo stesso motivo, ma non posso giurarlo. La loro allegria vivace e deliziosa era l'innocenza stessa; e, d'altra parte, che cosa avrebbero fatto di me, tra loro due? Mandarono dappertutto, nei dintorni, a cercare del vino; non se ne trovò, tanto i contadini di quel cantone sono sobri e poveri. Siccome mi esprimevano il loro disappunto, dissi di non preoccuparsene tanto, ché non avevano bisogno di vino per inebriarmi. Fu l'unica galanteria che azzardai in tutta la giornata; ma credo che le furbette vedessero come quella galanteria rispondesse a verità.
Pranzammo nella cucina della castalda, le due amiche sedute sulle panche ai due lati della lunga tavola, e l'ospite in mezzo a loro, su uno sgabello a tre piedi. Che pranzo! Che ricordo affascinante! Come si può, potendo gustare a così poco prezzo piaceri tanto puri e tanto veri, pretendere di cercarne altri? Mai cena parigina in ambienti galanti uguagliò quel pranzo, non dico soltanto in allegria, nella dolce gioia; dico anche nella sensualità.

Dopo pranzo facemmo un'economia. Anziché prendere il caffé, che ci restava dalla colazione, lo serbammo per gustarlo a merenda con la panna e i pasticcini che esse avevano portato; e per mantener sveglio l'appetito, andammo nel frutteto a completare il nostro pranzo con le ciliege. Io salii sull'albero, e ne lanciavo giù a mazzettini, di cui esse mi rispedivano i noccioli attraverso i rami. Una volta, la signorina Galley, sollevando il grembiule e spostando indietro la testa, si offrì così bene al bersaglio, e io mirai così giusto, che le feci cadere un mazzetto giusto nel seno; e la risata! Dicevo dentro di me: «Perché le mie labbra non sono ciliege! Come gliele getterei volentieri!»
La giornata trascorse così, a folleggiare con la massima libertà e sempre con la maggior decenza. Non una sola parola equivoca, non uno scherzo arrischiato; e questa decenza non ce la imponevamo affatto, veniva spontanea, obbedivamo al tono che ci dettavano i cuori. Infine la mia modestia, altri diranno la mia ottusità, fu tale che la più audace intimità che mi sfuggì fu di baciare una sola volta la mano della signorina Galley. È vero che la circostanza rese prezioso questo lieve favore. Eravamo soli, io respiravo a fatica, lei teneva gli occhi bassi. Anziché cercare parole, la mia bocca scelse di posarsi sulla sua mano, che lei dolcemente ritirò dopo il bacio, guardandomi con un'espressione che nulla aveva d'irato. Non so che cosa avrei potuto dirle: la sua amica entrò, e in quel momento mi parve orribile.
Si ricordarono infine che non bisognava aspettare la notte per rientrare in città. Ci restava appena il tempo per arrivare prima di buio, e ci affrettammo a partire, sistemandoci come nel venire. Avrei potuto, se ne avessi avuto l'ardire, cambiare quell'ordine, perché lo sguardo della signorina Galley mi aveva acceso il cuore; ma non osai dir nulla, e non toccava a lei proporlo. Andando dicevamo che era un peccato che la giornata finisse, ma, anziché lamentarci della sua brevità, notammo come avessimo avuto il potere di renderla lunga, con tutte le piacevolezze di cui avevamo saputo colmarla.
Le lasciai press'a poco dove mi avevano trovato. Con che dispiacere ci separammo! E con che piacere progettammo di rivederci! Dodici ore trascorse insieme valevano per noi secoli di intimità. Il dolce ricordo di quella giornata non costava nulla a quelle amabili fanciulle; la tenera unione che regnava fra noi tre valeva i piaceri più intensi, e con essi non sarebbe potuta sussistere: ci amavamo senza misteri e senza vergogna, e volevamo amarci sempre così. L'innocenza dei costumi ha la sua voluttà, che vale quanto l'altra, giacché non conosce interruzioni e premia di continuo. Quanto a me, so che il ricordo di un giorno tanto bello mi commuove di più, mi incanta di più, mi torna di più al cuore d'ogni altro piacere gustato in vita mia. Non sapevo bene che cosa cercassi in quelle due deliziose persone, ma mi attraevano molto entrambe. Non dico che, fossi stato padrone di scegliere, il mio cuore si sarebbe diviso; avvertivo una certa preferenza. Sarei stato felice di avere per amante la signorina di Graffenried; ma, dovendo scegliere, credo che l'avrei preferita come mia confidente. Comunque, mi parve nel lasciarle che non avrei più potuto vivere senza l'una e senza l'altra. Chi avrebbe detto che non le avrei mai più riviste, e che lì sarebbero finiti i nostri effimeri amori?

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Je m'étais insensiblement éloigné de la ville, la chaleur augmentait, et je me promenais sous des ombrages dans un vallon le long d'un ruisseau. J'entends derrière moi des pas de chevaux et des voix de filles qui semblaient embarrassées, mais qui n'en riaient pas de moins bon cœur. Je me retourne, on m'appelle par mon nom, je m'approche, je trouve deux jeunes personnes de ma connaissance. Mlle de Graffenried et Mlle Galley, qui, n'étant pas d'excellentes cavalières, ne savaient comment forcer leurs chevaux à passer le ruisseau. Mlle de Graffenried était une jeune Bernoise fort aimable, qui, par quelque folie de son âge, ayant été jetée hors de son pays, avait imité Mme de Warens, chez qui je l'avais vue quelquefois ; mais, n'ayant pas eu une pension comme elle, elle avait été trop heureuse de s'attacher à Mlle Galley, qui, l'ayant prise en amitié, avait engagé sa mère à la lui donner pour compagne jusqu'à ce qu'on la pût placer de quelque façon. Mlle Galley, d'un an plus jeune qu'elle, était encore plus jolie : elle avait je ne sais quoi de plus délicat, de plus fin ; elle était en même temps très mignonne et très formée, ce qui est pour une fille le plus beau moment. Toutes deux s'aimaient tendrement et leur bon caractère à l'une et à l'autre ne pouvait qu'entretenir longtemps cette union, si quelque amant ne venait pas la déranger. Elles me dirent qu'elles allaient à Thônes*, vieux château appartenant à Mme Galley ; elles implorèrent mon secours pour faire passer leurs chevaux, n'en pouvant venir à bout elles seules. Je voulus fouetter les chevaux ; mais elles craignaient pour moi les ruades et pour elles les haut-le-corps. J'eus recours à un autre expédient. Je pris par la bride le cheval de Mlle Galley, puis, le tirant après moi, je traversai le ruisseau ayant de l'eau jusqu'à mi-jambes, et l'autre cheval suivit sans difficulté. Cela fait, je voulus saluer ces demoiselles, et m'en aller comme un benêt : elles se dirent quelques mots tout bas, et Mlle de Graffenried s'adressant à moi : Non pas, non pas, me dit-elle, on ne nous échappe pas comme cela. Vous vous êtes mouillé pour notre service ; et nous devons en conscience avoir soin de vous sécher : il faut, s'il vous plaît, venir avec nous : nous vous arrêtons prisonnier. Le cœur me battait, je regardais Mlle Galley. Oui, oui, ajouta-t-elle, en riant de ma mine effarée, prisonnier de guerre ; montez en croupe derrière elle ; nous voulons rendre compte de vous. - Mais Mademoiselle, je n'ai point l'honneur d'être connu de Madame votre mère : que dira-t-elle en me voyant arriver ? - Sa mère, reprit Mlle de Graffenried, n'est pas à Thônes, nous sommes seules ; nous revenons ce soir, et vous reviendrez avec nous.
L'effet de l'électricité n'est pas plus prompt que celui que ces mots firent sur moi. En m'élançant sur le cheval de Mlle de Graffenried je tremblais de joie, et quand il fallut l'embrasser pour me tenir, le cœur me battait si fort qu'elle s'en aperçut : elle me dit que le sien lui battait aussi par la frayeur de tomber : c'était presque, dans ma posture, une invitation de vérifier la chose ; je n'osai jamais, et durant tout le trajet mes deux bras lui servirent de ceinture, très serrée à la vérité, mais sans se déplacer un moment. Telle femme qui lira ceci me souffletterait volontiers, et n'aurait pas tort.
La gaieté du voyage et le babil de ces filles aiguisèrent tellement le mien, que jusqu'au soir, et tant que nous fûmes ensemble, nous ne déparlâmes pas un moment. Elles m'avaient mis si bien à mon aise, que ma langue parlait autant que mes yeux, quoiqu'elle ne dît pas les mêmes choses. Quelques instants seulement, quand je me trouvais tête à tête avec l'une ou l'autre, l'entretien s'embarrassait un peu ; mais l'absente revenait bien vite, et ne nous laissait pas le temps d'éclaircir cet embarras.
Arrivés à Thônes, et moi bien séché, nous déjeunâmes. Ensuite il fallut procéder à l'importante affaire de préparer le dîner. Les deux demoiselles, tout en cuisinant, baisaient de temps en temps les enfants de la grangère et le pauvre marmiton regardait faire en rongeant son frein. On avait envoyé des provisions de la ville, et il y avait de quoi faire un très bon dîner, surtout en friandises ; mais malheureusement on avait oublié du vin. Cet oubli n'était pas étonnant pour des filles qui n'en buvaient guère : mais j'en fus fâché, car j'avais un peu compté sur ce secours pour m'enhardir. Elles en furent fâchées aussi, par la même raison peut-être, mais je n'en crois rien. Leur gaieté vive et charmante était l'innocence même : et d'ailleurs qu'eussent-elles fait de moi entre elles deux ? Elles envoyèrent chercher du vin partout aux environs ; on n'en trouva point, tant les paysans de ce canton sont sobres et pauvres. Comme elles m'en marquaient leur chagrin, je leur dis de n'en pas être si fort en peine, qu'elles n'avaient pas besoin de vin pour m'enivrer. Ce fut la seule galanterie que j'osai leur dire de la journée ; mais je crois que les friponnes voyaient de reste que cette galanterie était une vérité.
Nous dînâmes* dans la cuisine de la grangère, les deux amies assises sur des bancs aux deux côtés de la longue table, et leur hôte entre elles deux sur une escabelle* à trois pieds. Quel dîner ! Quel souvenir plein de charmes ! Comment, pouvant à si peu de frais goûter des plaisirs si purs et si vrais, vouloir en rechercher d'autres ? Jamais souper des petites maisons de Paris* n'approcha de ce repas, je ne dis pas seulement pour la gaieté, pour la douce joie, mais je dis pour la sensualité.
Après le dîner nous fîmes une économie. Au lieu de prendre le café qui nous restait du déjeuner, nous le gardâmes pour le goûter avec de la crème et des gâteaux qu'elles avaient apportés ; et pour tenir notre appétit en haleine, nous allâmes dans le verger achever notre dessert avec des cerises. Je montai sur l'arbre, et je leur en jetais des bouquets dont elles me rendaient les noyaux à travers les branches. Une fois, Mlle Galley, avançant son tablier et reculant la tête, se présentait si bien, et je visai si juste, que je lui fis tomber un bouquet dans le sein : et de rire. Je me disais en moi-même : Que mes lèvres ne sont-elles des cerises ! Comme je les leur jetterais ainsi de bon cœur.
La journée se passa de cette sorte à folâtrer avec la plus grande liberté, et toujours avec la plus grande décence. Pas un seul mot équivoque, pas une seule plaisanterie hasardée ; et cette décence, nous ne nous l'imposions point du tout, elle venait toute seule, nous prenions le ton que nous donnaient nos cœurs. Enfin ma modestie, d'autres diront ma sottise, fut telle, que la plus grande privauté* qui m'échappa fut de baiser une seule fois la main de Mlle Galley. Il est vrai que la circonstance donnait du prix à cette légère faveur. Nous étions seuls, je respirais avec embarras, elle avait les yeux baissés. Ma bouche, au lieu de trouver des paroles, s'avisa de se coller sur sa main, qu'elle retira doucement après qu'elle fut baisée, en me regardant d'un air qui n'était point irrité. Je ne sais ce que j'aurais pu lui dire : son amie entra, et me parut laide en ce moment.
Enfin elles se souvinrent qu'il ne fallait pas attendre la nuit pour rentrer en ville. Il ne nous restait que le temps qu'il fallait pour arriver de jour, et nous nous hâtâmes de partir en nous distribuant comme nous étions venus. Si j'avais osé, j'aurais transposé cet ordre ; car le regard de Mlle Galley m'avait vivement ému le cœur ; mais je n'osai rien dire, et ce n'était pas à elle de le proposer. En marchant nous disions que la journée avait tort de finir, mais, loin de nous plaindre qu'elle eût été courte, nous trouvâmes que nous avions eu le secret de la faire longue, par tous les amusements dont nous avions su la remplir.
Je les quittai à peu près au même endroit où elles m'avaient pris. Avec quel regret nous nous séparâmes ! Avec quel plaisir nous projetâmes de nous revoir ! Douze heures passées ensemble nous valaient des siècles de familiarité. Le doux souvenir de cette journée ne coûtait rien à ces aimables filles ; la tendre union qui régnait entre nous trois valait des plaisirs plus vifs, et n'eût pu subsister avec eux : nous nous aimions sans mystères et sans honte, et nous voulions nous aimer toujours ainsi. L'innocence des mœurs a sa volupté, qui vaut bien l'autre, parce qu'elle n'a point d'intervalle et qu'elle agit continuellement. Pour moi, je sais que la mémoire d'un si beau jour me touche plus, me charme plus, me revient plus au cœur que celle d'aucuns plaisirs que j'aie goûtés en ma vie. Je ne savais pas trop bien ce que je voulais à ces deux charmantes personnes, mais elles m'intéressaient beaucoup toutes deux. Je ne dis pas que, si j'eusse été le maître de mes arrangements, mon cœur se serait partagé ; j'y sentais un peu de préférence. J'aurais fait mon bonheur d'avoir pour maîtresse Mlle de Graffenried ; mais à choix, je crois que je l'aurais mieux aimée pour confidente. Quoi qu'il en soit, il me semblait en les quittant que je ne pourrais plus vivre sans l'une et sans l'autre. Qui m'eût dit que je ne les reverrais de ma vie, et que là finiraient nos éphémères amours ?

mercoledì 25 dicembre 2013

La tregua di Natale in una lettera mai scritta

Lettera costruita a partire da testimonianze autentiche sulla tregua di Natale 1914

Aaron Shepard
The Christmas Truce 

School Magazine [Australia], April 2001


Janet, sorella cara, sono le due del mattino e la maggior parte degli uomini dormono nelle loro buche, ma io non posso addormentarmi se prima non ti scrivo dei meravigliosi avvenimenti della vigilia di Natale. In verità, ciò che è avvenuto è quasi una fiaba, e se non l'avessi visto coi miei occhi non ci crederei. Prova a immaginare: mentre tu e la famiglia cantavate gli inni davanti al focolare a Londra, io ho fatto lo stesso con i soldati nemici qui nei campi di battaglia di Francia! «Le prime battaglie hanno fatto tanti morti, che entrambe le parti si sono trincerate, in attesa dei rincalzi. Sicché per lo più siamo rimasti nelle trincee ad aspettare.
Babbo Natale in Trincea in un bozzeto del 1914Ma che attesa tremenda! Ci aspettiamo ogni momento che una granata ci cada addosso, ammazzando e mutilando uomini. E di giorno non osiamo alzare la testa fuori dalla terra, per paura del cecchino. E poi la pioggia: cade quasi ogni giorno. Naturalmente si raccoglie proprio nelle trincee, da cui dobbiamo aggottarla con pentole e padelle.
E con la pioggia è venuto il fango, profondo un piede e più. S'appiccica e sporca tutto, e ci risucchia gli scarponi. Una recluta ha avuto i piedi bloccati nel fango, e poi anche le mani quando ha cercato di liberarsi...» «Con tutto questo, non potevamo fare a meno di provare curiosità per i soldati tedeschi di fronte noi. Dopo tutto affrontano gli stessi nostri pericoli, e anche loro sciaguattano nello stesso fango. E la loro trincea è solo cinquanta metri davanti a noi." "Tra noi c'è la terra di nessuno, orlata da entrambe le parti di filo spinato, ma sono così vicini che ne sentiamo le voci. Ovviamente li odiamo quando uccidono i nostri compagni.
Ma altre volte scherziamo su di loro e sentiamo di avere qualcosa in comune. E ora risulta che loro hanno gli stessi sentimenti. Ieri mattina, la vigilia, abbiamo avuto la nostra prima gelata. Benché infreddoliti l'abbiamo salutata con gioia, perché almeno ha indurito il fango." "Durante la giornata ci sono stati scambi di fucileria.
Soldati che fraternizzano durante la tregua di Natale 1914Ma quando la sera è scesa sulla vigilia, la sparatoria ha smesso interamente. Il nostro primo silenzio totale da mesi! Speravamo che promettesse una festa tranquilla, ma non ci contavamo."  "Di colpo un camerata mi scuote e mi grida: Vieni a vedere! Vieni a vedere cosa fanno i tedeschi! Ho preso il fucile, sono andato alla trincea e, con cautela, ho alzato la testa sopra i sacchetti di sabbia». «Non ho mai creduto di poter vedere una cosa più strana e più commovente. Grappoli di piccole luci brillavano lungo tutta la linea tedesca, a destra e a sinistra, a perdita d'occhio. Che cos'è?, ho chiesto al compagno, e John ha risposto: 'alberi di Natale!'. Era vero. I tedeschi avevano disposto degli alberi di Natale di fronte alla loro trincea, illuminati con candele e lumini." "E poi abbiamo sentito le loro voci che si levavano in una canzone: ' stille nacht, heilige nacht…'. Il canto in Inghilterra non lo conosciamo, ma John lo conosce e l'ha tradotto: 'notte silente, notte santa'.
Non ho mai sentito un canto più bello e più significativo in quella notte chiara e silenziosa. Quando il canto è finito, gli uomini nella nostra trincea hanno applaudito. Sì, soldati inglesi che applaudivano i tedeschi! Poi uno di noi ha cominciato a cantare, e ci siamo tutti uniti a lui: 'the first nowell  the angel did say…'. Per la verità non eravamo bravi a cantare come i tedeschi, con le loro belle armonie. Ma hanno risposto con applausi entusiasti, e poi ne hanno attaccato un'altra: 'o tannenbaum, o tannenbaum…'. A cui noi abbiamo risposto: 'o come all ye faithful…'. E questa volta si sono uniti al nostro coro, cantando la stessa canzone, ma in latino: 'adeste fideles…'». «Inglesi e tedeschi che s'intonano in coro attraverso la terra di nessuno!" "Non potevo pensare niente di più stupefacente, ma quello che è avvenuto dopo lo è stato di più. 'Inglesi, uscite fuori!', li abbiamo sentiti gridare, 'voi non spara, noi non spara!'.
Nella trincea ci siamo guardati non sapendo che fare. Poi uno ha gridato per scherzo: 'venite fuori voi!'. Con nostro stupore, abbiamo visto due figure levarsi dalla trincea di fronte, scavalcare il filo spinato e avanzare allo scoperto." "Uno di loro ha detto: 'Manda ufficiale per parlamentare'. Ho visto uno dei nostri con il fucile puntato, e senza dubbio anche altri l'hanno fatto - ma il capitano ha gridato 'non sparate!'. Poi s'è arrampicato fuori dalla trincea ed è andato incontro ai tedeschi a mezza strada. Li abbiamo sentiti parlare e pochi minuti dopo il capitano è tornato, con un sigaro tedesco in bocca!" "Nel frattempo gruppi di due o tre uomini uscivano dalle trincee e venivano verso di noi.
Alcuni di noi sono usciti anch'essi e in pochi minuti eravamo nella terra di nessuno, stringendo le mani a uomini che avevamo cercato di ammazzate poche ore prima». «Abbiamo acceso un gran falò, e noi tutti attorno, inglesi in kaki e tedeschi in grigio. Devo dire che i tedeschi erano vestiti meglio, con le divise pulite per la festa. Solo un paio di noi parlano il tedesco, ma molti tedeschi sapevano l'inglese. Ad uno di loro ho chiesto come mai. 'Molti di noi hanno lavorato in Inghilterra', ha risposto. 'Prima di questo sono stato cameriere all'Hotel Cecil." "Forse ho servito alla tua tavola!' 'Forse!', ho risposto ridendo. Mi ha raccontato che aveva la ragazza a Londra e che la guerra ha interrotto il loro progetto di matrimonio. E io gli ho detto: 'non ti preoccupare, prima di Pasqua vi avremo battuti e tu puoi tornare a sposarla'. Si è messo a ridere, poi mi ha chiesto se potevo mandare una cartolina alla ragazza, ed io ho promesso. Un altro tedesco è stato portabagagli alla Victoria Station.
Una croce commemorativa della Tregua di Natale, vicino a Ypres, BelgioMi ha fatto vedere le foto della sua famiglia che sta a Monaco. Anche quelli che non riuscivano a parlare si scambiavano doni, i loro sigari con le nostre sigarette, noi il tè e loro il caffè, noi la carne in scatola e loro le salsicce. Ci siamo scambiati mostrine e bottoni, e uno dei nostri se n'è uscito con il tremendo elmetto col chiodo! Anch'io ho cambiato un coltello pieghevole con un cinturame di cuoio, un bel ricordo che ti mostrerò quando torno a casa." "Ci hanno dato per certo che la Francia è alle corde e la Russia quasi disfatta.
Noi gli abbiamo ribattuto che non era vero, e loro. 'Va bene, voi credete ai vostri giornali e noi ai nostri'». «E' chiaro che gli raccontano delle balle, ma dopo averli incontrati anch'io mi chiedo fino a che punto i nostri giornali dicano la verità. Questi non sono i 'barbari selvaggi' di cui abbiamo tanto letto. Sono uomini con case e famiglie, paure e speranze e, sì, amor di patria. Insomma sono uomini come noi. Come hanno potuto indurci a credere altrimenti? Siccome si faceva tardi abbiamo cantato insieme qualche altra canzone attorno al falò, e abbiamo finito per intonare insieme - non ti dico una bugia - 'Auld Lang Syne'. Poi ci siamo separati con la promessa di rincontraci l'indomani, e magari organizzare una partita di calcio.
E insomma, sorella mia, c'è mai stata una vigilia di Natale come questa nella storia? Per i combattimenti qui, naturalmente, significa poco purtroppo. Questi soldati sono simpatici, ma eseguono gli ordini e noi facciamo lo stesso. A parte che siamo qui per fermare il loro esercito e rimandarlo a casa, e non verremo meno a questo compito." "Eppure non si può fare a meno di immaginare cosa accadrebbe se lo spirito che si è rivelato qui fosse colto dalle nazioni del mondo." "Ovviamente, conflitti devono sempre sorgere. Ma che succederebbe se i nostri governanti si scambiassero auguri invece di ultimatum? Canzoni invece di insulti? Doni al posto di rappresaglie? Non finirebbero tutte le guerre?
Il tuo caro fratello Tom. 

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Sullo stesso tema  si può vedere inoltre
http://blog.futbologia.org/2013/12/due-a-tre-nella-terra-di-nessuno-christmas-truce-1914/

Bibliografia
Malcolm Brown and Shirley Seaton, Christmas Truce, Secker & Warburg, London, 1984
Michael Jürgs, La piccola pace nella Grande Guerra: fronte occidentale 1914: un Natale senza armi, traduzione di Giuseppe Cospito, Il Saggiatore, Milano 2006.
Malcolm Brown, The Christmas truce 1914 Meetings: The British Story, in No Man’s Land: Christmas 1914 and Fraternisation in the Great War, Constable & Robinson Ltd,  London 2007.

sabato 21 dicembre 2013

Il capitalismo infinito: una lettura

Giuseppe De Rita 
Nella palude del lavoro liquido. Dal post-fordismo alla dispersione: una parabola discendente
Corriere della Sera, 20 dicembre 2013
a proposito di Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori nella crisi, Einaudi 2013


Da antico sodale nella ricerca sulla composizione sociale del Paese, ho ritrovato nel recente volume di Aldo Bonomi su Il capitalismo infinito tanti richiami alla mia storia intellettuale e professionale, con le tante scoperte e le tante delusioni che ci ha dato la straordinaria decennale dinamica della nostra struttura sociale.
All’inizio, negli anni 60 tutto sembrava chiaro e solidamente proiettato in avanti: stava contraendosi fortemente la componente agricola, che ancora al censimento del ‘51 contava sul 54% della popolazione; aumentava e si compattava come «classe operaia» la componente «fordista» dei lavoratori dipendenti dell’industria; cresceva con passo inarrestabile la componente impiegatizia, specialmente concentrata nel lavoro pubblico e nelle attività bancarie e assicurative. Sembrava un mondo destinato a durare per decenni, anche perché esso trovava la sua corrispondenza nella articolazione delle forze politiche, attraverso il tipico fenomeno del collateralismo categoriale (del mondo agricolo, della classe operaia, del ceto medio impiegatizio).
E invece con l’inizio degli anni 70 cambia tutto, e radicalmente, pur se non tutti allora se ne accorsero, impegnati com’erano su altre impressive ma sovrastrutturali tematiche. Succede che in quegli anni esplode l’economia sommersa (3-4 milioni di «spezzoni di lavoro» non riconducibili ad alcuna rappresentazione statistica come di rappresentanza); con l’economia sommersa matura ed esplode la piccola e piccolissima impresa (solo per il settore industriale ci fu il raddoppio del numero delle imprese create nei cento anni precedenti); esplode nel settore terziario non la grande organizzazione dei servizi, ma il lavoro autonomo e individuale (per esempio nei trasporti scomparve il grande Istituto Nazionale Trasporti e dilagò il popolo dei proprietari di camioncini e di camion); il pubblico impiego si dilata in maniera importante, ma perde compattezza e identità a vantaggio della moltiplicazione di nuove figure professionali e più ancora della corrosione operata da milioni di «secondi lavoristi»; si affermava un enorme processo di cetomedizzazione segnato più da una antropologica propensione alla soggettività dell’agiatezza che da una seria potenziale maturazione di classe borghese.
Noi ricercatori ci ritrovammo a lavorare in una realtà senza più confini e schemi certi; e dovemmo prendere atto che tutto era cambiato, e che vivevamo in una realtà di «post-fordismo», coscienti da un lato che la dimensione organizzativa non funzionava più come facitrice di composizione sociale; e dall’altro che tutto il nuovo (economia sommersa, piccola impresa, lavoro autonomo, ecc.) aveva un motore immobile e profondissimo: il valore della soggettività e della libertà di essere se stessi, contro ogni vincolo sovraordinato, e non è un caso che gli anni 70 furono anche gli anni, sul piano sociale e valoriale, dell’accettazione referendaria del divorzio e dell’aborto).
Cavalcammo allora, specialmente Bonomi e io, la tematica del post-fordismo, impegnati però ad uscire dall’indistinto tipico di ogni «post». E i lettori di quegli anni ritrovarono testi, anche nostri, su definizioni meno indistinte: si parlò di capitalismo molecolare, di capitalismo personale, di «piccolo è bello», di primato del fai da te, della centralità della creatività individuale. Cercando di incardinare questo panorama di scelte in alcuni processi più solidi e concreti (del territorio, con il localismo, ai mercati internazionali con il made in Italy). È stata, parlo almeno per me, una cavalcata fenomenologica di grande interesse, e anche di soddisfazione, visto che vedevamo cose che gli altri non capivano. Ma sapevamo che non potevamo restare a goderci lo studio del post-fordismo, della molecolarizzazione, del primato della soggettività. Sapevamo, anche perché lo constatavamo ogni giorno nelle nostre ricerche, che i meccanismi della articolazione molecolare del sistema continuavano a operare, sottotraccia, ma con estrema potenza. E così oggi ci ritroviamo in un mondo di totale varietà, dove l’economia dei servizi e la società della conoscenza producono non solo piccoli imprenditori, lavoratori sommersi e lavoratori in proprio ma una miriade di altre posizioni di lavoro, come (cito Bonomi) «classe creativa, capitalisti personali, lavoratori della conoscenza, professionisti metropolitani e globalizzati, imprenditori, cognitivi, giovani e adulti esodati, precari, quarto stato» e si potrebbe continuare nell’elencazione, in una quasi orgia di identità e figure professionali «liquide».
Mi viene, rileggendo, un po’ di vertigine. E ho la sensazione che una tale frastagliata fenomenologia non permetta più di esercitare quel riconoscimento collettivo che è necessario in ogni società (in termini di ricerca, di rappresentazione mediatica, di rappresentanza sociale e politica). Gli schemi, anche i nostri, non servono più, non bastano più; la realtà e la dinamica quotidiana sono soverchiati, dovremo solo aspettare che si sedimentino. Ci resta solo la soddisfazione, sempre gratificante per chi fa fenomenologia, che la realtà è più forte di ogni sforzo di programmazione e organizzazione, anche intellettuale .

lunedì 16 dicembre 2013

Lucia Annunziata su Renzi

Renzi dà l'addio alla "meglio gioventù". La ribellione generazionale cambia la narrativa del paese
Huffington Post, 16 dicembre 2013

La frase più efficace, o almeno quella che a me è sembrata la migliore nel segnare il crinale di un passaggio, è stata: " Basta pensare che la meglio gioventù sia nata e morta con l'alluvione di Firenze". La questione generazionale è stata ancora una volta la chiave del successo con cui il neosegretario Matteo Renzi a Milano ha preso d'impeto il suo Partito e lo ha portato dalla sua parte.
Chiave generazionale che nulla ha a che fare con la stucchevole, e francamente banale, questione della rottamazione, della stima fra vecchi e giovani, e bolle teoriche del genere. Il ricambio generazionale è sempre una presa del potere a mano armata, non avviene mai in maniera indolore, e la mia generazione (che è quella oggi ampiamente rottamata) con i suoi vecchi all'epoca ha saputo fare di ben peggio di quel che oggi ha fatto Renzi. Infatti, come ci si poteva aspettare, questa parte banalizzante del ricambio di età, è arrivata all'appuntamento milanese già ampiamente sgonfia, avviata, con la elezione di Cuperlo, sulla strada di pragmatiche soluzioni.
La interpretazione generazionale più autentica riguarda invece la memoria, e l'eredità che compongono e giustificano l'investitura nel presente della classe dirigente di una società. Il dominio di una generazione ha infatti quasi tutto a che fare con la interpretazione del suo passato. In questo l'Italia è certo un paese di superconservatori, ancor prima che di anziani. Un paese in cui il vuoto di visione da anni viene coperto da una versione mitizzata, e dunque distorta, del tempo che fu.
Nella nostra immaginazione collettiva - e non solo quella di sinistra, va detto - il passato si è fissato in una sorta di età dell'oro rispetto a cui tutto il resto è una unica, lunga , strada di decandenza. Dalla Resistenza prima, dal glorioso Dopoguerra poi e, perfino, da un Sessantotto raccontato come non è mai stato, quello di una non casualmente autodefinitasi "meglio gioventù'" di cui si ricordano in metafora l'alluvione, ma non le rotture, gli errori e anche orrori che ha commesso.
Questa memoria ricostruita (la polemica qui, ripeto, è contro la finzione della memoria, non è la negazione dei meriti del passato) è in effetti diventata la maggiore forza di resistenza al cambiamento che conosciamo perché ha fondato l'idea che di teste come quelle che in passato hanno fatto politica (ma ugualmente si può dire per tutte le altre istituzioni, incluso il mondo imprenditoriale) non se ne sono prodotte più. Al punto che tocca ancora oggi a queste teste continuare (magari mentre si lamentano per il peso della responsabilità) a ragionare, a tenere insieme il paese, ad essere responsabili per tutti gli irresponsabili e gli "ignoramus" che popolano il nostro territorio.
Nel senso di questa missione degli anziani c'è tutto il disprezzo, e neppure tanto sottile, per giovani cui si attribuisce una minorità intellettuale permanente. Giovani corrotti, si dice, da una società consumista, dalla società del successo facile, e dalla mancanza di una "vera cultura". In queste due affermazioni ci sono due fantasmi che spuntano anche senza farne il nome: quello di Silvio Berlusconi, cui si intesta la corruzione degli attuali "mores", e quello di Internet, come viene chiamata con semplificazione, quella rivoluzione tecnologica che ha portato un cambiamento che i vecchi non capiscono e di cui si liberano dicendo che è la fine dell'umanesimo, della vita sociale, dei diritti, insomma, della cultura occidentale "alta".
Si capisce bene come questa visione del mondo sia (occasionalmente) all'origine delle Larghe Intese, e (strategicamente) la base di una visione crepuscolare, triste, avvolta in un permanente velo luttuoso, del declino della nostra società. Di una dell'Italia sull'orlo del baratro, e di italiani troppo immaturi per votare e ancora più immaturi per esprimersi in politica. Che debbano insomma essere salvati da se stessi, dal loro populismo brado e dalla loro ignoranza, ad opera di un manipolo di quel che rimane della "meglio gioventù", sentinella permanente ed effettiva sulla retta via.
Renzi, come lui stesso ha detto, ha usato toni spesso non condivisibili per sfondare questo muro di resistenza. Lui stesso ha definito "forse volgare" il termine rottamazione - e certo un filo di ombra di eutanasia si è sempre steso su questa parola. Ma a Milano sembra aver finalmente portato a segno la spiegazione delle sue stesse idee, ribaltando il senso della narrazione dei nostri tempi. Ridando in mano ai giovani la supremazia in questo momento della frontiera culturale: "I giovani non hanno mai avuto tale accesso al sapere, non hanno mai avuto un tale deposito di cultura a cui attingere".
Osando attaccare quello stupidario sull'Italia cui si è ridotta, con il tempo, la storia dei giovani che vanno a studiare all'estero, diventati simbolo di una malfunzione del paese invece che naturale ristrutturazione (e ambizione) del mercato del lavoro globale. "Ne ho incontrato uno che si è presentato", ha raccontato Renzi, "dicendo 'sono un tipico cervello all'estero'. Dopo che gli ho parlato gli avrei detto 'e ci puoi pure restare, viste le sciocchezze che mi hai detto'. Non è che uno è un cervello solo perché è all'estero. I cervelli sono anche in Italia".
Sembrano solo osservazioni, ma sono tutti pezzi di un racconto diverso, in cui il nostro paese , descritto come un luogo in profonda crisi economica, non è certo però in crisi di energie e progetti. Un paese con le mani legate da burocrazia e resistenze - in cui quelle della politica risultano persino minori se comparate a mandarinati statali, furberie, e avvilimento di ogni meritocrazia - ma non della forza d'urto intellettuale e sociale per farcela.
È questo cambio di sguardo il vero elemento di novità, perché tocca una corda profonda nel cuore dei 35/40enni italiani che si avvertono come una generazione mandata al macero dai propri adulti. Renzi sa restituire loro un ruolo, e se non potesse contare sulla loro forza d'urto l'accelerazione che ha proposto nel programma politico non avrebbe senso. Riforma elettorale (entro gennaio), riforme politiche, semplificazione del mercato del lavoro, diritti, cittadinanza. Tutto e subito, ha promesso Renzi. Con coraggio forse maggiore del realismo. E, forse senza volerlo, ma chissà?, riprendendo una parola d'ordine proprio di quella"'meglio gioventù'' che ha appena sostituito.

venerdì 13 dicembre 2013

Un pezzo di società disgregata

Marco Revelli 
L'invisibile popolo dei nuovi poveri 
il manifesto, 12 dicembre 2013 
 
Torino è stata l’epicentro della cosid­detta “rivolta dei for­coni”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cer­carla, la rivolta, per­ché come diceva il pro­ta­go­ni­sta di un vec­chio film, degli anni ’70, ambien­tato al tempo della rivo­lu­zione fran­cese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sin­ce­ra­mente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sem­brata una massa di fasci­sti. E nem­meno di tep­pi­sti di qual­che clan spor­tivo. E nem­meno di mafiosi o camor­ri­sti, o di eva­sori impu­niti.
La prima impres­sione, super­fi­ciale, epi­der­mica, fisio­gno­mica – il colore e la fog­gia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muo­versi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impo­ve­riti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprat­tutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impo­ve­rito: gli inde­bi­tati, gli eso­dati, i fal­liti o sull’orlo del fal­li­mento, pic­coli com­mer­cianti stran­go­lati dalle ingiun­zioni a rien­trare dallo sco­perto, o già costretti alla chiu­sura, arti­giani con le car­telle di equi­ta­lia e il fido tagliato, auto­tra­spor­ta­tori, “padron­cini”, con l’assicurazione in sca­denza e senza i soldi per pagarla, disoc­cu­pati di lungo o di breve corso, ex mura­tori, ex mano­vali, ex impie­gati, ex magaz­zi­nieri, ex tito­lari di par­tite iva dive­nute inso­ste­ni­bili, pre­cari non rin­no­vati per la riforma For­nero, lavo­ra­tori a ter­mine senza più ter­mini, espulsi dai can­tieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
Le fasce mar­gi­nali di ogni cate­go­ria pro­dut­tiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sot­tili, oggi in rapida, forse ver­ti­gi­nosa espan­sione… Intorno, la piazza a cer­chio, con tutti i negozi chiusi, le ser­rande abbas­sate a fare un muro gri­gio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloc­cate da un fil­tro non asfis­siante ma suf­fi­ciente a gene­rare disa­gio, anch’essa presa dai pro­pri pro­blemi, a guar­darli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un fune­rale. E si pensa «potrebbe toc­care a me…». Loro alzavano il pol­lice – non l’indice, il pol­lice – come a dire «ci siamo ancora», dalle mac­chine qual­cuno rispon­deva con lo stesso gesto, e un sor­riso mesto come a chie­dere «fino a quando?».

Altra comu­ni­ca­zione non c’era: la “piat­ta­forma”, potremmo dire, il comun deno­mi­na­tore che li univa era esi­lis­simo, ridotto all’osso. L’unico volan­tino che mostra­vano diceva «Siamo ITALIANI», a carat­teri cubi­tali, «Fer­miamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripe­te­vano era: «Non ce la fac­ciamo più». Ecco, se un dato socio­lo­gico comu­ni­ca­vano era que­sto: erano quelli che non ce la fanno più. Ete­ro­ge­nei in tutto, folla soli­ta­ria per costi­tu­zione mate­riale, ma acco­mu­nati da quell’unico, ter­mi­nale stato di emer­genza. E da una visce­rale, pro­fonda, costi­tu­tiva, antro­po­lo­gica estraneità/ostilità alla poli­tica.
Non erano una scheg­gia di mondo poli­tico viru­len­tiz­zata. Erano un pezzo di società disgre­gata. E sarebbe un errore imper­do­na­bile liqui­dare tutto que­sto come pro­dotto di una destra gol­pi­sta o di un popu­li­smo radi­cale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squa­dre. E i cul­tori della vio­lenza per voca­zione, o per fru­stra­zione per­so­nale o sociale. C’era di tutto, per­ché quando un con­te­ni­tore sociale si rompe e lascia fuo­riu­scire il pro­prio liquido infiam­ma­bile, gli incen­diari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il feno­meno. Non s’innesca così una mobi­li­ta­zione tanto ampia, diver­si­fi­cata, mul­ti­forme come quella che si è vista a Torino. La domanda vera è chie­dersi per­ché pro­prio qui si è mate­ria­liz­zato que­sto “popolo” fino a ieri invi­si­bile. E una pro­te­sta altrove pun­ti­forme e selet­tiva ha assunto carat­tere di massa…
Per­ché Torino è stata la “capi­tale dei for­coni”? Intanto per­ché qui già esi­steva un nucleo coeso – gli ambu­lanti di Parta Palazzo, i cosid­detti “mer­ca­tali”, in agi­ta­zione da tempo – che ha fun­zio­nato come prin­ci­pio orga­niz­za­tivo e deto­na­tore della pro­te­sta, in grado di rami­fi­carla e pro­muo­verla capil­lar­mente. Ma soprat­tutto per­ché Torino è la città più impo­ve­rita del Nord. Quella in cui la discon­ti­nuità pro­dotta dalla crisi è stata più vio­lenta. Par­lano le cifre.
Con i suoi quasi 4000 prov­ve­di­menti ese­cu­tivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno pre­ce­dente, uno ogni 360 abi­tanti come cer­ti­fica il Mini­stero), Torino è stata defi­nita la “capi­tale degli sfratti”. Per la mag­gior parte dovuti a “moro­sità incol­pe­vole”, il caso cioè che si veri­fica «quando, in seguito alla per­dita del lavoro o alla chiu­sura di un’attività, l’inquilino non può più per­met­tersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si pre­an­nun­ciano, come ha denun­ciato il vescovo Nosi­glia, per gli inqui­lini delle case popo­lari che hanno rice­vuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro men­sili impo­sti da una recente legge regio­nale anche a chi è clas­si­fi­cato “incol­pe­vole” e che non se lo pos­sono per­met­tere.
“Maglia nera” anche per le atti­vità com­mer­ciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esi­stenti, 15 al giorno) in città, e 626 in pro­vin­cia (di cui 344 tra bar e risto­ranti). E’ l’ultima sta­ti­stica dispo­ni­bile, ma si può pre­sup­porre che nei mesi suc­ces­sivi il ritmo non sia ral­len­tato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Men­tre per le pic­cole imprese (la cui morìa ha mar­ciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiu­sure al giorno in Ita­lia) Torino si con­tende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “for­coni”) la testa della clas­si­fica, con le sue 16.000 imprese scom­parse nell’anno, cre­sciute ancora nel primo bime­stre del 2013 del 6% rispetto al periodo equi­va­lente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono por­tate al pre­fetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese arti­giane chiuse nella provincia.
E’, letta attra­verso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi suc­ce­du­tisi nella tran­si­zione all’oltre-novecento, tutta intera la com­po­si­zione sociale che la vec­chia metro­poli di pro­du­zione for­di­sta aveva gene­rato nel suo pas­sag­gio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fab­brica cen­tra­liz­zata e mec­ca­niz­zata nel ter­ri­to­rio, la dis­se­mi­na­zione nelle filiere corte della sub­for­ni­tura mono­cul­tu­rale, la mol­ti­pli­ca­zione delle ditte indi­vi­duali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo pro­dut­tivo auto­mo­bi­li­stico, le con­su­lenze ester­na­liz­zate, il pic­colo com­mer­cio come sur­ro­gato del wel­fare, insieme ai pre­pen­sio­na­menti, ai co​.co​.pro, ai lavori a som­mi­ni­stra­zione e inte­ri­nali di fascia bassa (non i “cogni­tari” della crea­tive class, ma mano­va­lanza a basso costo… Com­po­si­zione fra­gile, che era soprav­vis­suta in sospen­sione den­tro la “bolla” del cre­dito facile, delle carte revol­ving, del fido ban­ca­rio tol­le­rante, del con­sumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finan­zia­ria ha allun­gato le mani sul collo dei mar­gi­nali, e poi sem­pre più forte, e sem­pre più in alto.
Non è bella a vedere, que­sta seconda società riaf­fio­rata alla super­fi­cie all’insegna di un sim­bolo tre­men­da­mente obso­leto, pre-moderno, da feu­da­lità rurale e da jacque­rie come il “for­cone”, e insieme por­ta­trice di una iper­mo­der­nità implosa. Di un ten­ta­tivo di una tran­si­zione fal­lita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui ripro­po­sti in alto, nei gazebo delle pri­ma­rie (che pure dice­vano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show tele­vi­sivi. E’ sporca, brutta e cat­tiva. Anzi, incat­ti­vita. Piena di ran­core, di rab­bia e per­sino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.
Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella sog­get­ti­vità”) del ciclo indu­striale, con il lin­guag­gio del con­flitto rude ma pulito. Qui la poli­tica è ban­dita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso sca­vato in que­sti anni tra rap­pre­sen­tanti e rap­pre­sen­tati. Tra lin­guag­gio che si parla in alto e il ver­na­colo con cui si comu­nica in basso. Troppo vol­gare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sini­stre, dai luo­ghi della vita. E forse, come nella Ger­ma­nia dei primi anni Trenta, saranno solo i lin­guaggi gut­tu­rali di nuovi bar­bari a incon­trare l’ascolto di que­sta nuova plebe. Ma sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa. Un enne­simo errore. Forse l’ultimo.

Perché Torino?

Intervista di Paolo Griseri a Bruno Manghi
la Repubblica, 12 dicembre 2013

PERCHÉ Torino? Perché proprio qui c'è l'epicentro nazionale delle tensioni sociali che agitano l'Italia? Bruno Manghi, sociologo, ex sindacalista, prova a rispondere agli interrogativi che da qualche giorno si rincorrono nelle discussioni e sui quotidiani nazionali.

Dalla protesta no-Tav all'ira dei forconi: movimenti diversi, per certi aspetti opposti. Professor Manghi, perché proprio a Torino?
"Ci sono elementi di oggettiva difficoltà sociale. Il mio amico Nanni Tosco sta raccogliendo dati sull'area torinese che sono molto preoccupanti. A cominciare dal livello di impoverimento e dalla bassa scolarizzazione rispetto ad altre analoghe città italiane".

Come si spiega questo grave peggioramento delle condizioni di vita?
"Con il fatto che Torino ha ancora, nel suo corpo sociale, l'eredità del fordismo, un sistema basato su bassi salari e bassa scolarizzazione. A Torino il sistema economico si sta modificando, ma la stratificazione sociale sopravvive. Il proletariato industriale c'è ed è quello che la cassa integrazione ha impoverito di più trascinando nella crisi i mercatali e gli ambulanti. Contemporaneamente labassa scolarizzazione della parte più povera di Torino rende difficile creare in pochi anni una classe di professionisti in grado di far fronte in modo flessibile ai cambi di congiuntura economica e alla necessità di nuove figure professionali".

Questo spiega la forza del movimento dei forconi. Al di là di quest'ultimo però c'è una tendenza tutta torinese a esasperare i toni delle proteste..
"Torino è una città abituata ad avere rappresentanze sociali, politiche. Ci sono stati partiti e sindacati che hanno mediato i conflitti per tutto il Novecento. Dall'inizio del nuovo secolo quella funzione è venuta meno. E negli anni intorno alle Olimpiadi quel compito di mediazione di interessi diversi lo ha svolto il Municipio. E' stato così durante le giunte Castellani e Chiamparino".

Perché oggi non è più così?
"Perché è impossibile che il Comune continui ad accollarsi quel compito quando mancano le risorse e siamo precipitati nel cuore di una crisi gravissima. L'amministrazione cittadina non riesce più a fare da camera di compensazione dei diversi interessi presenti in città anche per un altro motivo: si è esaurita inevitabilmente la progettualità. I cittadini possono anche accettare dei sacrifici se sanno che domani, grazie a un progetto, a un'idea, a una proposta, potranno vivere meglio. Ma senza quella prospettiva e di fronte a una situazione economica che va peggiorando, sale la rabbia, anche senza richieste e piattaforme specifiche".

Come se ne esce?
"La soluzione immediata non c'è. Sono fenomeni di medio periodo. Certo la tensione in città scemerebbe se non continuassero ad esistere due Torino che si allontanano sempre dipiù. Le vecchie élite cittadine sono composte da gente che non ha mai preso un tram o un autobus in vita sua. C'è una classe di burocrati pubblici che continua a vivere come se nulla fosse cambiato. Un amico imprenditore mi raccontava cheda tre mesi non paga i dipendenti perché aspetta 500mila euro dalla Regione per un lavoro che è già stato terminato. Queste sono le cose che fanno salire la tensione e l'esasperazione di Torino".

Chi deve ricucire le due città, quella che danza nella sala da ballo del Titanic e quella che non quadra i conti?
"I giovani. Sono loro che devono prendere in mano il potere in città mettendo da parte una generazione di burocrati, politici, banchieri, avvocati d'affari, che ha fatto il suo tempo e che non è più in grado di leggere i cambiamenti che stanno producendosi nella vita sociale. Tocca ai giovani rifare il progetto per una nuova Torino".