Antonio Floridia
Nessuno vuole più convincere gli elettori ad andare al seggio
il manifesto, 19 ottobre 2025
Si può discutere dell’astensionismo senza cadere nella retorica che, sempre più spesso, accompagna i discorsi correnti sul tema? L’astensione è un comportamento individuale in cui si condensano dimensioni, politiche, culturali e simboliche.
Qui possiamo provare ad elencarne solo alcune, precisando che, di volta in volta, possono combinarsi tra loro. Nel 1995, tre scienziati politici americani si chiesero: «perché la gente non va a votare?». La loro risposta ci offre una traccia utile per rimettere in ordine le cose: per tre motivi, dissero, perché «non possono» (impedimenti oggettivi), perché «non vogliono» (per le più svariate ragioni: protesta, apatia, indifferenza, estraneità), ma anche perché «nessuno glielo ha chiesto», ossia perché nessun attore politico è stato in grado di rivolgersi loro direttamente per dare motivazioni e aiutarli nella scelta di voto, offrendo loro quelle che si chiamano «scorciatoie cognitive», elementi di conoscenza e di informazione sulla cui base gli elettori si possono orientare.
E allora, tra i tanti fattori da prendere in considerazione, si può dire che una delle cause fondamentali dell’astensionismo non è tanto (o solo) la protesta «contro» i partiti, quanto il fatto che non ci sono più partiti degni di questo nome. Alle origini dei partiti moderni, negli Stati Uniti degli anni Trenta dell’Ottocento, le prime organizzazioni nascono come risposta al primo allargamento del suffragio, quando comincia a configurarsi una democrazia di massa: i partiti avevano innanzi tutto il compito di costruire relazioni stabili e organizzate con l’elettorato (ad esempio, aiutandoli nelle procedure di registrazione), non essendo più sufficienti le vecchie relazioni notabilari. Oggi, questa funzione sembra esaurita, ma, ciò che più conta, non ci si pone più nemmeno il problema di come possa essere ricostruita in forme nuove.
Ma c’è molto di più. Si dice solitamente: l’astensionismo nasce dalla crisi della capacità rappresentativa dei partiti. Vero, ma in questa considerazione si può celare un’insidia populista: questa capacità è in crisi non perché i «partiti non ascoltano più cosa dice la gente», ma perché i partiti non sanno più costruire la rappresentanza. Quest’ultima non è un processo che nasca spontaneamente «dal basso»: nasce «dall’alto», dalla visione strategica di attori politici che cercano di strutturare, selezionare, dare forma e voce politica, alla molteplicità disparata di opinioni e interessi che pullulano nella società, che cercano di filtrare anche le pretese, spesso irragionevoli e contraddittorie, che vengono dai cittadini.
Tra le variabili da considerare ci sono poi quelle istituzionali: le regole contano, quando si tratta di stabilire chi e come entra in gioco. Ebbene, contrariamente alla vulgata che ci portiamo dietro da trent’anni, la personalizzazione della politica non incentiva la partecipazione. Se il voto non esprime più, innanzi tutto, la propria identità politica, ma si riduce alla scelta tra due persone, le motivazioni alla base del voto inevitabilmente si restringono. Il sistema presidenzialistico in vigore nelle regioni italiane è una iattura. Se ne dovrà riparlare, anche perché, nonostante il clamore mediatico di cui sono circondati i cosiddetti «governatori», gli elettori oramai percepiscono le elezioni regionali come elezioni di quart’ordine (dopo le politiche, le comunali e le europee). E anche questo conta: la percezione della rilevanza della posta in gioco è un fattore che incentiva l’astensione. E poi, i partiti: oggi, la campagna elettorale è fatta sostanzialmente dai leader, in qualche occasione pubblica e sulla scena mediatica, e poi soprattutto dai candidati a caccia di preferenze, ma questa caccia si svolge sempre più in una sorta di «riserva», in un territorio ristretto e già arato, quello delle relazioni personali o dei legami con i gruppi di potere. Come si può pensare che in queste condizioni, la gente – quella «fuori dal giro» – possa andare a votare? Alla base dell’astensionismo c’è anche questo crescente dualismo tra gli elettori «forti» (dal punto di vista delle relazioni e della dotazione culturale) e gli elettori marginali e periferici (sia in senso sociale, che culturale e territoriale).
In Toscana, domenica scorsa, ha votato il 48% (come già dieci anni fa, peraltro): ma se alle elezioni regionali del 1985 aveva votato il 92,8%, non si può pensare che allora fossero tutti cittadini super-informati, super-motivati e iper-politicizzati: c’erano ancora i partiti di massa (tutti) che curavano il rapporto con questi elettori, e soprattutto organizzavano le campagne elettorali, come partito, per raggiungerli e convincerli a votare. Chi è che fa questo lavoro, oggi?

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