martedì 21 ottobre 2025

I vincoli economici

Elsa Fornero
Meloni, benvenuta tra noi "austeri"

La Stampa, 21 ottobre 2025
 

 L'hanno chiamata «austerità» e hanno inveito contro l’Europa che ci imponeva amare medicine e contro i governi tecnici « tecnici «asserviti» (termine sicuramente più elegante e neutro di «cortigiani») a questa filosofia di intervento pubblico. Hanno reclamato libertà a 360 gradi nella spesa pubblica – e perciò nella formulazione delle leggi di bilancio – scordandosi il legame tra questa spesa e le entrate necessarie per la sua copertura, e quindi il suo collegamento con le imposte, considerate invece alla stregua di un furto: certo, tale sarebbe il «mettere le mani nelle tasche degli italiani» dimenticando tranquillamente i servizi pubblici – scuola, sanità, sicurezza ecc. – forniti dalle amministrazioni pubbliche grazie alle imposte. Hanno addirittura definito le imposte un «pizzo di Stato», espressione il cui significato è chiaro anche nelle più sperdute località del Paese.

E la sola parola «sacrifici» scatenava reazioni stizzose, improperi, quando non addirittura minacce. Non vedevano l’ora di cancellare leggi «infami» (com’è stata definita quella pensionistica) perché, appunto, dettate dall’austerità. Neppure sui condoni sono stati di parola perché, nonostante a ogni Finanziaria si trattasse dell’ultimo tra scudi e tasse concordate, eccone spuntare un altro, naturalmente quello «definitivo», sfrontatamente chiamato «pace fiscale».

Ora che però sono in ballo – perché chiamati dagli elettori a governare il Paese – l’unica musica che sanno ballare è il «lento», il «prudente», la distribuzione «saggia» di ciò che è disponibile. Quanta acqua è passata sotto i ponti, quante bugie, pur sommerse dalla propaganda, sono state platealmente contraddette dalla realtà. E dobbiamo pure ringraziarli (o almeno dobbiamo ringraziare l’attuale ministro dell’Economia) perché, se non fosse così (cioè se il bilancio fosse stato scritto dall’ala più populista del governo), saremmo presto in balia di chi, dovendo valutare di prestarci dei soldi, potrebbe tornare a considerarci «Paese rischioso» e a domandare perciò un tasso di interesse più elevato di quello che i mercati finanziari – che poco hanno a cuore l’incoerenza di chi governa – oggi pretendono.

È questa l’amara verità dei vincoli economici, troppo spesso ignorati in un Paese che, anche nella classe politica che esprime, mostra di avere scarsa famigliarità con i concetti elementari dell’economia e della finanza. Questi vincoli, peraltro, sono stati da noi stessi riconosciuti e tradotti in linee di comportamento sottoscritte nei trattati europei: il nuovo Patto di stabilità e crescita obbliga l’Italia a seguire, nei prossimi anni, un percorso di stabile riduzione del debito pubblico. Si tratta di una sorta di vigorosa «camicia di forza» che abbiamo (giustamente) accettato di indossare, nonostante tutti gli stridii del passato. E che inevitabilmente ridimensiona drasticamente i margini di manovra non soltanto della legge di bilancio per il 2026 appena approdata in Parlamento ma anche le prossime. Il prezzo che paghiamo alla sostenibilità del nostro debito è dunque un’ipoteca sulla crescita futura, ancora condannata allo «zero virgola» (e che sarebbe però una «decrescita», se non ci fossero i prestiti e i finanziamenti gratuiti del Pnrr).

Così inquadrata, la manovra per il 2026 è davvero poca cosa. Poca in quello che aggiunge all’economia: poco più di 18 miliardi di euro (meno dell’uno per cento del Pil, che ammonta a circa 2.200 miliardi); scarsa nell’incisività: la riduzione dell’aliquota IrpeF dal 35 al 33%, nello scaglione tra i 28 e i 50mila euro, sterilizzata per i redditi superiori a 200 mila euro annui, è sì importante ma non compensa la maggiorazione di imposte a carico dei lavoratori dipendenti dovuta all’inflazione, in particolare del 2022-’23. Ed è poca cosa anche nella lungimiranza, nonostante i – o forse a causa dei – 137 articoli che la compongono, che cercano di dare a tutti qualcosa. Una manovra inadeguata ad affrontare i problemi strutturali del Paese, a partire dalle conseguenze economiche dell’invecchiamento (o, da un’altra prospettiva, del «de-giovanimento» dell’Italia, come il demografo Rosina ama definire la perdita di giovani, e l’«acquisto» di anziani nella composizione della nostra popolazione).

Potremmo, un po’ populisticamente, consolarci per il «contributo» richiesto alle banche nei prossimi tre anni ma non sappiamo quanto la (parziale) volontarietà inciderà sulla somma che effettivamente entrerà nelle casse pubbliche, né quale destinazione essa avrà. Tutto sommato sarebbe stata cosa buona una chiara destinazione a istruzione, sanità e ricerca: di questi tre settori, i primi due sono molto vicini ai bisogni delle famiglie e il terzo molto favorevole a indirizzare gli investimenti verso i settori più produttivi, cioè a favorire la crescita.

Ci dobbiamo invece consolare, noi «europeisti austeri» perché abbiamo a cuore le generazioni, con la constatazione che il disavanzo sarà mantenuto al 3 per cento o anche un pochino sotto, permettendo al Paese di uscire dalla procedura di infrazione per debito eccessivo già nel corso del prossimo anno, il che potrà comportare un po’ di allentamento dei vincoli nei prossimi anni. Per il prossimo anno – e in attesa di sapere con quale ulteriore debito, non contabilizzato nei vincoli europei, saranno coperte le spese per la difesa – dobbiamo ahimè e un po’ a malincuore ringraziare per l’inevitabile, anche se contenuto, aumento della pressione fiscale e l’ennesimo rinvio della cancellazione della riforma pensionistica di un governo tecnico accusato di non avere cuore.

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