venerdì 31 ottobre 2014

Isaiah Berlin, Schizzi e ritratti d'occasione



Kafka



Nel tuo libro dici che Kafka dubitava della sua visione. Vorrei dire di più: ci faceva dell'ironia, ci scherzava sopra, come si fa quando un certo paesaggio diventa lo sfondo naturale di tutto, scherzi compresi. E' questo che lo rende così chiaro, così terribile, così naturale-innaturale, così geniale e sui generis e non stravagante. (a Stephen Spender, 19 maggio 1935)



Il partito comunista in Inghilterra



La notizia che ti sei iscritto al PC non mi sembra cambiare nulla. In Inghilterra la cosa va benissimo. Sul continente, dove c'è sempre stata una tradizione di governi autoritari, i partiti rivoluzionari erano automaticamente fuori legge, si incontravano all'estero,non parlavano se non di tattica e rivoluzione, non avevano certo tempo per la vita e per l'arte: come Lenin, tanto per intenderci. In Inghilterra non è così, il PC è, come dici, neoliberale, è una rivolta radical-intellettuale contro la burocrazia corrotta del Labour Party, in altre parole: quelli che erano socialisti nel 1920 ora sono comunisti, non sperano davvero nella rivoluzione e sono più intellettuali dei socialisti, più intelligenti e più raffinati. (a Stephen Spender, 25 aprile 1936)



Uno stato "alla Mrs Woolf" [Virginia, si capisce]



... mi trovavo, nei limiti del possibile, in uno stato "alla Mrs Woolf": uno stato in cui tutto ciò che accade appare lucido e intenso, ma come nascosto da una sottile lastra non di vetro ma di ghiaccio, che assorbe tutte le qualità concrete, lasciando filtrare solo uno schema, per quanto vivido e elaborato, di ogni cosa. (a Elizabeth Bowen, 3 marzo 1937)








Alfred J. Ayer (Freddie)



Ayer scriveva "in un inglese eccellente, senza ripetizioni, lucido, la miglior prosa filosofica inglese - oserei dire - dai tempi di Mill, e non ha mai avuto un'idea nella sua vita" (Flourishing, p. 704) 





Isaiah Berlin
A gonfie vele. Lettere 1928-1946
a cura di Henry Hardy
Adelphi, Milano 2008 [2004]

giovedì 30 ottobre 2014

Un vetraio nella Francia del Settecento

JACQUES-LOUIS MENETRA Così parlò Ménétra. Diario di un vetraio del XVIII secolo Garzanti, Milano 1992, pagine 403



Paolo Alatri
Ai piedi di madame la ghigliottina. Gli anni eroici della Rivoluzione nei ricordi d'un sanculotto
Corriere della Sera, 6 maggio 1993



Cesare Zavattini scrisse che "i poveri sono matti"; gli fa eco Daniel Roche, secondo il quale "i poveri sono muti", nel senso che la marginalizzazione in rapporto ai circuiti stabiliti delle culture ufficiali impedisce loro quasi sempre di farsi capire. Roche scrive quella frase introducendo l'autobiografia di Jacques-Louis Ménétra, un vetraio francese vissuto dal 1738 ai primi dell' Ottocento. Il suo ampio scritto, che abbraccia un arco di tempo di 65 anni, si aggiunge ai pochissimi testi analoghi provenienti da persone dei ceti popolari, che per i secoli XVII e XVIII non sono più numerosi delle dita di una sola mano. Di qui, dalla loro estrema rarità, il loro straordinario valore di testimonianza e di documento; tanto più da apprezzare nel caso di Ménétra, in quanto la sua autobiografia è spontanea, vivace, divertente. Osserva Benedetta Craveri, nella prefazione che si accompagna alla introduzione di Daniel Roche, che negli stessi anni in cui Rousseau inaugurava, servendosi dell'analisi introspettiva, l' autobiografia moderna, quest'altro figlio del popolo, oscuro vetraio, prendeva anch'egli in mano la penna per raccontare se stesso. A differenza del "cittadino di Ginevra", tuttavia, Ménétra non era un essere d'eccezione (o almeno non lo era nel senso in cui lo diciamo per Jean-Jacques), non si era innalzato al di sopra delle sue origini, non si era imposto per il suo genio alle élites intellettuali francesi ed europee, non era un grande scrittore. Eppure, il modesto artigiano che sapeva appena leggere e scrivere e, senz'ombra di ambizione letteraria, narrava la propria vita, compiva anch'egli un gesto rivoluzionario. A differenza di Rousseau, per il quale l'estrazione popolare aveva finito per assumere un significato eminentemente morale e simbolico, Ménétra era e resta, in tutto e per tutto, un esponente del popolo, nella piena e concreta accezione del termine. Ma, malgrado il peso dei condizionamenti socio culturali della società d'ordini d'Antico Regime, il vetraio parigino rivendicava nel suo Journal, non diversamente da quanto andava facendo Rousseau nelle Confessions, l' unicità della propria esperienza individuale e affermava, come scrive Daniel Roche, "una morale della fedeltà a se stesso nella libertà". Non è possibile, nel breve spazio di questa nota, indicare tutti i motivi di interesse che la sua autobiografia presenta. Certo, innanzi tutto, il quadro vivissimo dei costumi, delle abitudini, dei riti popolari, colti in modo immediato nella stessa esperienza di vita dell' autore, il quale, oltre tutto, viaggiò la Francia in lungo e in largo, secondo le esigenze dell' artigianato francese dell' epoca e della sua organizzazione corporativa. I sette anni trascorsi in giro per la Francia, che occupano un terzo del suo Journal, fanno emergere un mondo profondamente arcaico, dominato dagli istinti, impastato di violenza e di morte: Ménétra incontra sul suo cammino, come in un romanzo picaresco, briganti, ladri, assassini, è costretto a imbarcarsi su una nave pirata, finisce in prigione, contrae ilvaiolo e altre malattie poco onorevoli (egli è un impenitente tombeur de femmes), ma la sua furbizia e la sua prontezza hanno sempre la meglio sulle circostanze più avverse. La natura del suo lavoro lo porta a salire e scendere di continuo i diversi livelli della società, a entrare nelle case dei poveri come nei palazzi e nei conventi. Di qui la ricchezza e la varietà del quadro. Ma poi, tra le caratteristiche più peculiari di questo testo, colpisce il suo atteggiamento a dir poco disincantato, beffardo e qua e la' perfino blasfemo, di considerare la religione e i preti. Ménétra non perde occasione per affermare la propria laica incredulità nei confronti dei sacerdoti. E' quasi certo che egli abbia avvicinato Rousseau e chiacchierato con lui; è certo comunque che ne conosceva le opere; forse non ha letto Voltaire, ma certo ne ha orecchiato le idee e contribuisce, come militante di base, al successo della grande campagna d' opinione sferrata dal patriarca dei Lumi contro l'Infame; e l' arrivo del 1789 è da lui salutato con un'esplosione di gioia. La Rivoluzione è venuta a dar forma giuridica e sostanza politica a ciò che egli è sempre stato nello spirito e nel cuore: un libero cittadino. Anche per questo la sua autobiografia riveste un notevole interesse storico, perché, se la sua testimonianza è situata nello spazio sociale delle classi popolari parigine da cui sono emersi i sanculotti, a distanza di due secoli egli ci offre la possibilità di capire meglio come si forma e come funziona la cultura della gente del popolo e da che cosa emerse la rivolta popolare che infiammò la Rivoluzione.



Si veda inoltre Robert Darnton, Un Don Giovanni plebeo, Lettera internazionale, n.28, 1991



mercoledì 29 ottobre 2014

Il lungo ciclo politico dell'Islam radicale

Renzo Guolo
Il Jihadismo oltre lo Stato islamico
la Repubblica, 29 ottobre 2014
 
PRIMA o poi lo Stato Islamico sarà sconfitto, nonostante i divergenti interessi e calcoli dei membri della coalizione che lo combattono. Anche se a un prezzo che l’Occidente stenta ancora a immaginare. In ogni caso l’esito del conflitto non cancellerà il fenomeno del jihadismo. Potrà solo ridimensionarlo se non verrà vinta la battaglia, più difficile, per la “conquista del cuore e delle menti” dei musulmani.
Il lungo ciclo politico dell’Islam radicale, ormai più che trentennale, non è ancora concluso. E una sconfitta militare non implica necessariamente una sconfitta politica. Il jihad in Siria e in Iraq è il quinto episodio della lunga saga combattente panislamista. Iniziata con la mobilitazione antisovietica in Afghanistan, proseguita durante le guerre balcaniche in Bosnia e con il ritorno di nuovi e vecchi mujaheddin nell’Emirato del Mullah Omar per fondare Al Qaeda, divampata durante la sanguinaria epopea zarkawiana in Iraq, letteramente esplosa negli ultimi anni tra le sabbie di Raqqa e Mosul. Nel mezzo, i diversi jihad nazionali, combattuti anche dai reduci di queste campagne, in Algeria, Egitto, Yemen.
Se si escludono la prima campagna afghana e quella bosniaca, assai diverse per esito e contesto e nelle quali i radicali avevano lo stesso Nemico dell’Occidente, gli altri tre episodi, e i vari jihad nazionali, si sono conclusi, o stanno per concludersi, con l’insuccesso militare dei mujaheddin. Percepito, però, come tale solo dai loro nemici. Complice una diversa concezione del tempo, circolare più che lineare, i mujaheddin interpretano le sconfitte non tanto come scacchi strategici ma come battaglie perdute in una guerra alla fine, comunque, vittoriosa. Una concezione del mondo che, unita al persistere delle ragioni politiche alla base dei diversi conflitti, ha prodotto, nel corso del tempo, una crescente offerta di combattenti. Dopo ogni scacco armato lo jihadismo ha ripreso forza. Con più vigore di prima l’anelasticità dell’Islam radicale alla sconfitta militare rinvia alla sua totalizzante essenza ideologica. Esso dispone di un repertorio simbolico in grado di spiegare, e soprattutto, giustificare le battute d’arresto più pesanti. Tutto viene letto secondo lo schema, usurato, della falsa coscienza dei musulmani e del complotto del Nemico. Nonostante questo deficit analitico, l’ideologia radicale si è legittimata e diffusa, diventando senso comune per centinaia di migliaia di individui. La catena di trasmissione tra le diverse generazioni che lo hanno attraversato non si è mai interrotta, come accaduto in altri movimenti rivoluzionari. E l’islam radicale è un movimento rivoluzionario, sia pure sotto la forma di tragica e sanguinaria rivoluzione conservatrice. La sua forza attrattiva tra i giovani non è spiegabile senza questa presa d’atto.
La generazione dei primi “afghani” è fatta di cinquantenni e sessantenni, i combattenti in Iraq e Siria sono, in buona parte, poco più che ventenni. L’appartenenza alla comunità del fronte muta il concetto di generazione come unità temporale storicamente definita. I suoi membri, che pure hanno imbracciato le armi in tempi assai diversi come gli anni Ottanta o il secondo decennio del nuovo secolo, sentono di condividere la medesima esperienza: l’età del jihad. I legami generazionali così si dilatano. Dando origine a un “ filo verde” in cui tutto si tiene.

La natura ideologica del movimento fa si che esso non possa essere contenuto solo attraverso strumenti militari: per essere sconfitto deve essere contrastato culturalmente. Un simile passaggio implica non solo il rifiuto, decisivo, della deriva estremista da parte del mondo islamico ma anche una politica occidentale consapevole delle conseguenze di scelte destinate a fare da volano al malessere dell’Islam. L’antidoto funziona se nel corpo sociale della Mezzaluna diminuisce la febbre che i radicali attribuiscono alla westoxification , l’intossicazione da Occidente. Il fenomeno del radicalismo è, infatti, anche una reazione identitaria alla globalizzazione. Come mostra la presenza in Mesopotamia di migliaia di combattenti cresciuti in Europa o negli Stati Uniti, in Canada o in Australia, pervasi da un odio profondo contro l’Occidente. È questo Islam del risentimento che va ridotto a marginale devianza patologica. Altrimenti il problema è destinato ciclicamente a riproporsi. Pronto a riemergere da una delle tante fratture che minano gli instabili equilibri di un mondo dilaniato dal rapporto con la modernità occidentale, con la propria identità irrisolta, con confini non più accettati.

lunedì 27 ottobre 2014

Dylan Thomas, un senso antico della parola



Dylan Thomas nasce nel 1914 a Swansea, in Galles, figlio di un professore di inglese della Grammar School locale (che Dylan frequenta dal 1925 al 1931), e sin da giovanissimo manifesta una sorprendente inclinazione alla poesia. Nel ’34 pubblica la prima raccolta di versi, Diciotto poesie, che scuotono l’ambiente letterario londinese, sorprendendo critici e poeti già affermati. Nei suoi versi svela tutto quel mondo poetico che ha fatto di lui un mito: la nascita, l’amore e la morte, la natura; un linguaggio magico, a volte oscuro, che fonde la tradizione dei bardi alla poesia visionaria inglese (si può fare, per esempio, il nome di Yeats). Nel 1940 escono i racconti autobiografici di Ritratto dell’artista da cucciolo e nel 1946 il libro che lo consacra definitivamente tra i massimi poeti di lingua anglosassone: Morti e ingressi.
Dylan Thomas, sposato con Kathleen (che ne condivise gli alti e bassi esistenziali, accompagnandolo, tra l'altro, nel tunnel dell'etilismo durante i periodi di miseria più nera), ebbe tre figli. E' vissuto tra l’Inghilterra e l’America, barcamenandosi tra diversi lavori quali il giornalista, lo sceneggiatore, l’attore. Distrutto dall’alcol, è morto a New York nel 1953.
 
http://www.apalweb.it/dylan_thomas_scheda.htm


Dai sospiri

Dai sospiri nasce qualcosa,
Ma non dolore, questo l’ho annientato
Prima dell’agonia; lo spirito cresce,
Scorda, e piange;
Nasce un nonnulla che, gustato, è buono;
Non tutto poteva deludere;
C’è, grazie a Dio, qualche certezza:
Che non è amore se non si ama bene,
E questo è vero dopo perpetua sconfitta.

Dopo siffatta lotta, come il più debole sa,
C’è di più che il morire;
Lascia i grandi dolori o tampona la piaga,
Ancora a lungo egli dovrà soffrire,
E non per il rimpianto di lasciare una donna in attesa
Del suo soldato sporco di parole
Che spargono un sangue così acre.

Se ciò bastasse, se ciò bastasse a dar sollievo al male,
Il provare rimpianto quando quello è perduto
Che mi rendeva felice nel sole,
Quanto felice il tempo che durava,
Se ambiguità bastassero e abbondanza di dolci menzogne,
Potrebbero le vacue parole sostenere tutta la sofferenza
E guarirmi dai mali.

Se ciò bastasse, osso, tendine, sangue,
Il cervello attorcigliato, i lombi ben fatti,
Cercando a tastoni la materia sotto la ciotola del cane,
L’uomo potrebbe guarire dal cimurro.
Ché tutto quello che qui va dato, io l’offro:
Briciole, stalla, e cavezza.

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Out of the sighs a little comes,
But not of grief, for I have knocked down that
Before the agony; the spirit grows,
Forgets, and cries;
A little comes, is tasted and found good;
All could not disappoint;
There must, be praised, some certainty,
If not of loving well, then not,
And that is true after perpetual defeat.

After such fighting as the weakest know,
There's more than dying;
Lose the great pains or stuff the wound,
He'll ache too long
Through no regret of leaving woman waiting
For her soldier stained with spilt words
That spill such acrid blood.

Were that enough, enough to ease the pain,
Feeling regret when this is wasted
That made me happy in the sun,
How much was happy while it lasted,
Were vagueness enough and the sweet lies plenty,
The hollow words could bear all suffering
And cure me of ills.

Were that enough, bone, blood, and sinew,
The twisted brain, the fair-formed loin,
Groping for matter under the dog's plate,
Man should be cured of distemper.
For all there is to give I offer:
Crumbs, barn, and halter. 

1930-32 Notebook
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Nelle sue liriche quasi sempre in versi e strofe tradizionali, sembra prevalere una nota dolente con vaghe risonanze cosmiche, in cui è agevole avvertire le caratteristiche del temperamento celtico. Insidiata da un continuo pericolo di disintegrazione, priva di ogni nesso logico, con una resa fantastica non sempre adeguata alla ricchezza delle immagini e con una posizione sostanzialmente polemica alla sua radice, l'opera poetica del Thomas ha nondimeno possibilità di sbocco ed esercita certamente una fortissima influenza sulla poesia britannica contemporanea. (Salvatore Rosati, Treccani 1949)

domenica 26 ottobre 2014

Renaissance/Rinascimento, il lampo folgorante della passione

Lucio Villari
Prefazione
in Jules Michelet, Lo studente, De Donato, Bari 1988



   Chi potrebbe, oggi, fare a meno di una preziosa parola, di un termine storiografico affascinante come Rinascimento? Eppure non sanno come è nato. Era il 2 dicembre 1839 quando, in un ricevimento a Parigi, lo storico Jules Michelet, professore al Collège de France, incontrò una ragazza e se ne innamorò perdutamente. Da qualche anno Michelet studiava il periodo d'oro della cultura e dell'arte italiana ed era fortemente incuriosito dall'atmosfera estetica che sprigionava dall'Italia del Quattrocento e del Cinquecento e che aveva avvolto anche la Francia. Ma, nonostante una lunga e minuziosa ricerca, Michelet non era ancora riuscito a cogliere l'elemento magico e misterioso che attraversava la cultura di quei secoli e anche la vita politica e sociale delle città e delle Corti italiane, e che faceva apparire tutto in una luce smagliante, unica.
   Alla difficoltà di individuare il codice segreto che gli avrebbe permesso di identificare quel mondo di pure forme e di assoluta bellezza, si aggiungeva in Michelet uno stato di sconforto e di "malattia" spirituale dovuto alla morte della moglie. In altre parole, Michelet non riusciva a comprendere in un unico giudizio storico un fenomeno culturale, artistico, politico di così ampia dimensione anche a causa della tristezza e dello stato di astenia sentimentale nel quale si trovava. Il problema, in quel momento, per lui irrisolvibile, era se l'arte e la letteratura, da sole, potessero riassumere gli ideali di vitalità, di forza, di titanismo, di bellezza che sembravano racchiusi in quei secoli.
   Improvvisamente ecco irrompere l'innamoramento: la folgorazione sentimentale diventa allora folgorazione culturale; Michelet sente di di rinascere a nuova vita. Non poteva essere accaduta la stessa cosa nell'Italia di quattro secoli prima? Una rinascita, un passaggio dalla morte alla vita: l'intuizione storica, profondamente storica, che, in quei secoli non solo le lettere, le arti, la politica, ma la vita stessa degli uomini riacquistasse forza e turgore. Ed ecco balenare a Michelet la parola, il fulminante e sintetico giudizio che egli invano aveva cercato: Renaissance.

 

 

 

 

Jules Michelet Athénaïs Mialaret

Lettere d'amore 

a cura di Lionello Sozzi

Sellerio, Palermo 2006 

 

«Uno dei più nobili e commoventi romanzi d'amore della storia letteraria» è stato definito il carteggio del grande storico romantico con la giovanissima futura moglie che vede in lui anche il padre e il maestro.


   

   A un certo punto l'intestazione di queste lettere, da: «Signorina» e «Signore», diventa: «Mia cara figliola, mia bianca damigella» e «Signore, amico», e si capisce che è successo qualcosa, è scattata la scintilla. Questo carteggio tra Jules Michelet e la sua futura sposa Athénaïs Mialaret, è stato definito da un critico del primo Novecento: «uno dei più nobili e commoventi romanzi d'amore della storia letteraria». Se quel giudizio è probabilmente eccessivo, di sicuro il carteggio è un romanzo psicologico come forse l'epoca in cui fu scritto non avrebbe saputo produrre ad arte. È il progressivo, ma già destinato, maturare di un amore difficile da confessare e difficile da difendere, che viene inscenato dai protagonisti, che sanno e non sanno, dicono e agiscono con sincerità ma sotto le frasi palesi si intravede la trama di un disegno segreto agli stessi inconsapevoli strateghi amorosi; che si presentano secondo i ruoli romantici caratteristici del protettore e della debole fanciulla ma si indovina la forza di lei e il bisogno di lui. Proprio come se il copione di un fato nascosto li guidasse: il fato, appunto, della psicologia. Quando si scambiano la prima lettera, Michelet è forse il massimo storico del momento, ma è solo e i suoi figli grandi sono andati per la loro strada, e lui immalinconito «s'era chiuso in se stesso», Athénaïs è una piccola istitutrice orfana, che il lavoro ha chiamato a Vienna, a insegnare alle figlie di una principessa, «un piccolo fiore delicato adorno delle sue lacrime». Tra i due corrono trent'anni: Jules è un cinquantenne energico nel pieno dell'attività, Athénaïs una ventenne colta, con evidenti inclinazioni letterarie, che lamenta una salute fragile (forse sul serio, forse per vezzo, forse per incoraggiare la di lui protezione: verosimilmente tutte e tre le cose). La differenza d'età rende lei avventurosa e lui arcigno, in principio, ma poi, con tutti i rallentamenti e le accelerazioni, le timidezze e le forzature, i colpi di scena e le banalità, inizia il copione amoroso. Sullo sfondo c'è la rivoluzione del 1848, che i due si raccontano tra Parigi e Vienna, e anche questa, come accadrà a tante generazioni seguenti, gioca il suo ruolo nella felice pantomima dell'amore.

   Jules Michelet (1798-1874) tra i sommi storici di Francia e forse il maggiore della storiografia romantica e repubblicana (Storia di Francia e Storia della rivoluzione) scrisse anche opere propriamente politiche, di respiro morale e poetiche: tutte caratterizzate da uno stile notevole sotto il giudizio letterario.

sabato 25 ottobre 2014

Voltaire, il negro del Surinam

 
 
 
Voltaire, Candido (1759)
capitolo 19

... Avvicinandosi alla città s’incontrarono in un negro disteso in terra, che non aveva che la metà del suo abito, cioè un par di braghe di tela azzurra; mancava a questo povero uomo la gamba sinistra, e la mano dritta. - Mio dio! gli dice Candido, che fai tu là, amico, in questo stato orribile in cui ti vedo? - Attendo il mio padrone il signor Vanderdendur il famoso negoziante, risponde il negro. - E questo signor Vanderdendur, dice Candido, ti ha conciato così? - Sì, signore, risponde il negro, quest’è l’uso: ci vien dato un par di brache di tela per vestito due volte l’anno: quando lavoriamo alle zuccheriere, e che la macina ci acchiappa un dito, ci si taglia la mano; quando vogliam fuggire ci si taglia la gamba; a questo prezzo voi mangiate dello zucchero in Europa. Intanto, allorchè mia madre mi vendè per dieci scudi patacconi sulla costa di Guinea, ella mi diceva: figliuol mio, benedici i nostri feticci, adorali tutti i giorni, essi ti faran vivere fortunato; tu hai l’onore d’essere schiavo de’ nostri signori i bianchi, e tu fai la fortuna di tuo padre e di tua madre. Ah! io non so se ho fatto la lor
fortuna, so bene che essi non han fatto la mia: i cani, le scimmie, i pappagalli son mille volte meno disgraziati di noi. I feticci olandesi che mi han convertito, mi dicon tutte le domeniche che noi siamo tutti figli d’Adamo, bianchi e neri; io non sono genealogista, ma se quei predicatori dicono il vero noi siam tutti fratelli cugini; or voi converrete che non si possono usare tra parenti trattamenti più orribili.
- O Pangloss! grida Candido, tu non avevi pensato a questa abominevole circostanza; ed è pur cosa di fatto; bisognerà finalmente che io rinunzii al tuo ottimismo. - Che cos’è quest’ottimismo? dice Cacambo. - Ah, risponde Candido, è la maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male.
Intanto versava lagrime riguardando il negro, e piangendo entrò in Surinam.
...






Stefano Montefiori
Contro il cinismo io sto con Voltaire
Corriere della Sera, 12 ottobre 2014

In difesa della globalizzazione, con il Candido di Voltaire, proprio quando tutti sembrano abbandonare la nave del cosmopolitismo. Nella destra francese, Sarkozy torna in politica e per prima cosa ripete che la Francia deve denunciare il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone in Europa. A sinistra, il socialista Manuel Valls dice che i rom non hanno vocazione a integrarsi e devono tornare in Romania e Bulgaria. Marine Le Pen, a suo dire né di destra né di sinistra ma «contro il sistema», vince le elezioni europee promettendo che farà uscire la Francia dall’Unione Europea. Se questa è la politica, il panorama culturale francese tributa poi un grande successo al ripiegamento nazionale di un libro come L’identité malheureuse di Alain Finkielkraut, dalla parte dei «francesi sedentari che fanno comunque l’esperienza dell’esilio perché (per colpa dell’immigrazione, ndr) intorno a loro tutto è cambiato». Questi sono i tempi, e allora il filosofo André Glucksmann torna con un saggio provocatorio, che osa difendere idee ormai poco alla moda come l’universalismo e la contaminazione, dall’epoca dei Greci alla base della civiltà europea.
Voltaire contre-attaque (Robert Laffont) è una staffilata di 207 pagine al nuovo consenso. «Un consenso — scrive Glucksmann — che, a destra, sinistra e ali estreme, sguazza nei ruscelli putridi degli egoismi di corto respiro. Assecondando gli stati d’ansia, la politica diventa un’arte reazionaria. Vuole salvare quel che può, ripristinare frontiere obsolete, dare una riverniciata a cosiddetti valori che non sono, in realtà, mai esistiti».
Il settantasettenne Glucksmann insorge contro quel tic intellettuale contemporaneo che consiste nel tacciare di ipocrisia e scollamento dalla realtà quanti ancora si ostinano a difendere i diritti dell’uomo, accusati di essere sognatori, «anime belle» irresponsabili, sulle quali poi pende la scomunica definitiva di «radical chic» qualora siano schierati a sinistra. Non è questo certamente il caso di André Glucksmann, e da tempo: protagonista del Sessantotto parigino, l’allora nouveau philosophe intraprese il suo distacco dalla gauche nei primi anni Settanta, quando denunciò gli orrori del socialismo reale a Muro di Berlino ancora ben saldo.
Lei scrive che la contrapposizione tra realismo e difesa dei diritti umani è ridicola.
«Certamente. Dove sta il vero realismo? Il primo dei diritti dell’uomo, la libertà di circolare, non è il regalo di cuori generosi, ma la condizione necessaria della nostra prosperità. Abbiamo rigettato le ideologie progressiste che, in nome di un modello unico di Umanità, hanno giustificato tante ignominie, e abbiamo fatto bene. Ma dalle utopie marxiste e dalle elegie hegeliane siamo precipitati a questa specie di fatalismo, di cinismo postmoderno».

Perché Voltaire è importante per l’idea di Europa e di Occidente?
«È un antidoto ai nazionalismi, è un filosofo molto più contemporaneo di tutti i suoi successori, adepti dei sistemi chiusi. Voltaire rifiuta le ideologie, l’ossessione per le radici, le frontiere, lotta contro i fanatismi. Ha vissuto quasi tre secoli fa, ma di sicuro è meno anacronistico dei critici che gli sono succeduti. Anche il mio amico Roland Barthes, che pure era un voltairiano, si è distaccato da Voltaire. È sempre stato così, i sostenitori a un certo punto sono diventati i più grandi detrattori».

Barthes accusava Voltaire di essere anti-intellettuale, troppo leggero.
«Mi viene da ridere. La semplicità, lo stile distaccato e ironico sono precisamente i suoi punti di forza e non di debolezza. Contro Hegel e i suoi discendenti degli ultimi due secoli, contro i pensatori dell’assoluto, a mio parere conviene andare più indietro. L’ultimo grande è stato Voltaire, ma Barthes non poteva riconoscerlo perché era schiavo dello spirito sistemico della sua epoca, del marxismo. Gli eredi di Voltaire non li troviamo in filosofia, ma in letteratura: Stendhal e Flaubert vanno nello stesso senso».

Per esempio?
«Prendiamo Flaubert e i rom: poco incline al romanticismo, l’autore di
Madame Bovary lascia Esmeralda a Victor Hugo e Carmen a Georges Bizet, ma nel 1867 racconta a George Sand del suo incontro con un accampamento di tzigani a Rouen. Dice di aver dato loro qualche soldo e di essere stato aggredito dalla folla per questo, e descrive quell’odio, l’odio che gli uomini d’ordine riservano all’eretico, al filosofo, al solitario, al poeta».
Nel capitolo intitolato «Elogio del mendicante, del gitano e del sans-papiers» lei se la prende con le espulsioni dei rom.
«È incredibile che nella Francia del XXI secolo, dove peraltro la distinzione tra destra e sinistra è completamente saltata, il governo socialista punti a espellere i rom considerandoli una minaccia. Una comunità di 15, di 20 mila persone al massimo, capace di mandare in crisi una nazione di 60 milioni di abitanti? Non si è mai visto un capro espiatorio così perfetto. In una Francia che da almeno un secolo accoglie italiani, polacchi, spagnoli, portoghesi, maghrebini, africani ed ebrei, il pugno di mendicanti nelle nostre strade è una goccia d’acqua, un puro argomento di propaganda».

Lei esalta il Voltaire di «Candido», non quello di «Zadig».
«Zadig è un uomo che accetta il sapere assoluto. Zadig nasce e cresce ricco, sta bene all’inizio delle sue peripezie, bene alla fine, conosce l’infelicità, ma non ne è toccato, guarda i disastri del secolo a cui appartiene, ma non sono i suoi. È un rappresentante della filosofia classica contro Candido».

Degli uomini politici contemporanei c’è qualcuno che lei considera un erede di Voltaire?
«I dissidenti. Václav Havel. I comunisti avevano rivoltato i valori come un guanto, il vocabolario sovietico aveva stravolto la realtà: in nome della pace, immense mobilitazioni militari; in nome dell’Uomo nuovo a venire, la persecuzione dei viventi. Armati delle loro disillusioni, i protagonisti delle rivoluzioni di velluto hanno cambiato l’Europa. La cortina di ferro è crollata sotto la pressione di migliaia di Candidi».

E adesso?
«Dilaga la tentazione dell’“ognuno a casa sua”. Il ripiegamento identitario fa risorgere un pericolo contro il quale due guerre mondiali dovrebbero averci vaccinato. L’Europa è stata ed è una bella idea. Purtroppo si sfalda a partire dalla sua testa prima ancora che per colpa dell’economia. Contro le nuove linee Maginot, bisognerebbe tornare al Candido».


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VOLTAIRE AT FERNEY (1939)


Perfectly happy now, he looked at his estate.
An exile making watches glanced up as he passed
And went on working; where a hospital was rising fast,
A joiner touched his cap; an agent came to tell
Some of the trees he'd planted were progressing well.
The white alps glittered. It was summer. He was very great.

Far off in Paris where his enemies
Whispered that he was wicked, in an upright chair
A blind old woman longed for death and letters. He would write,
"Nothing is better than life." But was it? Yes, the fight
Against the false and the unfair
Was always worth it. So was gardening. Civilize.

Cajoling, scolding, screaming, cleverest of them all,
He'd had the other children in a holy war
Against the infamous grown-ups; and, like a child, been sly
And humble, when there was occassion for
The two-faced answer or the plain protective lie,
But, patient like a peasant, waited for their fall.

And never doubted, like D'Alembert, he would win:
Only Pascal was a great enemy, the rest
Were rats already poisoned; there was much, though, to be done,
And only himself to count upon.
Dear Diderot was dull but did his best;
Rousseau, he'd always known, would blubber and give in.

Night fell and made him think of women: Lust
Was one of the great teachers; Pascal was a fool.
How Emilie had loved astronomy and bed;
Pimpette had loved him too, like scandal; he was glad.
He'd done his share of weeping for Jerusalem: As a rule,
It was the pleasure-haters who became unjust.

Yet, like a sentinel, he could not sleep. The night was full of wrong,
Earthquakes and executions: soon he would be dead,
And still all over Europe stood the horrible nurses
Itching to boil their children. Only his verses
Perhaps could stop them: He must go on working: Overhead,
The uncomplaining stars composed their lucid song.

                W. H. Auden

http://www.newyorker.com/magazine/2005/03/07/voltaires-garden

Van Gogh, l'uomo e la terra






«Autoritratto» (1887)
«Autoritratto» (1887)

Milano, Palazzo Reale - fino all’8 marzo 2015
Van Gogh. L’uomo e la terra
a cura di a cura di Kathleen Adler  www.vangoghmilano.it
Una selezione di opere (oltre 50 lavori) che restituiscono la potenza del rapporto che per tutta la vita legò Van Gogh al tema della terra. Figlio di un pastore calvinista di campagna, imparò a leggere la bellezza dei contadini, fatta di dignità, fatica, umiltà. A Palazzo Reale sfilano zappatori, coltivatrici, pastori, nature morte con patate e cipolle, paesaggi fortemente influenzati dalla poetica giapponese che l’artista aveva da poco scoperto.



Roberta Scorranese 
Van Gogh, la purezza della terra
Corriere della Sera, 18 ottobre 2014

«I contadini e i pescatori dei piccoli paesi, ovunque si vada, sono diversi. Ricordano la terra, a volte sembra che ne siano plasmati». In quel fluviale dialogo scritto che per tutta la vita lo legò al fratello Theo, Vincent Van Gogh tracciò una metafisica del lavoro rurale che non è mai identificazione. I contadini che descriveva, dipingeva, frequentava nei soggiorni nella campagna del Brabante e poi della Francia, erano altro da sé: erano oggetto di ammirazione, studio, ascolto. Erano un approdo spirituale: è nella vita nei campi che si nasconde l’intima natura della purezza da raggiungere. È questo il filo che cuce le 47 opere in mostra da oggi a Palazzo Reale in Van Gogh. L’uomo e la terra, un progetto che mette in scena uno degli aspetti più profondi dell’olandese. «Una visione spirituale della terra, che racconta le figure umane, le nature morte e i paesaggi con la stessa lingua», dice la curatrice, Kathleen Adler. E sembra di vederlo, il fragile Vincent, mentre osserva i contadini «ispidi come uno spinone» che mangiano in silenzio, mani nodose e sporche («Ma un quadro con contadini non deve essere profumato», scrive a Theo).

Li vedeva da lontano quando, da bambino, tutta la famiglia faceva lunghe passeggiate all’aria aperta e poi si leggeva tutti ad alta voce. Li vedeva già allora con l’occhio acceso del padre, pastore calvinista, una piccola comunità da tenere insieme in un territorio dominato da cattolici. Li vedeva semplici, puri nella preghiera, stanchi e silenziosi. Certo, come li aveva visti il suo amato pittore Jean-François Millet, il primo ad ideare un’estetica della terra che influenzerà anche Dalí. Ma in Vincent è diverso. Qui, il Seminatore con cesta e lo Zappatore in un momento di riposo (1881), le Contadine che raccolgono patate (1885) e la litografia che precede il capolavoro del quale porta il nome, I mangiatori di patate, vanno oltre. C’è una santificazione del lavoro, una mistica febbrile della fatica che corre nei tratti durissimi, realistici (com’erano diverse le figure semi idealizzate di Millet) dei volti contadini. Sembrano i protagonisti di uno dei sermoni del padre tutto «rigore, fede e lavoro». Ecco l’evoluzione da Millet, che passa anche attraverso Gustave Courbet, padre del realismo e cantore degli ultimi: Van Gogh fonde la spiritualità del primo con il gusto naturalista del secondo, fino a ottenere quello che voleva: un’allegoria del sacro purificata nel sudore.

«Van Gogh ha cercato spesso conforto nella religione e ha seguito i sermoni del predicatore battista Charles Spurgeon», ricorda Adler. Ma, negli anni in cui Vincent si avvicina alla pittura, dalla fine del 1881, le città europee sono percorse da una vena mistico-sociale: Dostoevskij ha appena pubblicato I fratelli Karamazov, nel 1883 Nietzsche scrive Così parlò Zarathustra e nello stesso anno muoiono Wagner e Marx. Van Gogh matura una visione panteistica della natura, che non poteva però prescindere da una riflessione sul reale, riverberata negli still life come Natura morta con patate o Natura morta con statuetta di gesso e libri — in esposizione.

Nascono così anche i bellissimi ritratti in mostra, primo tra tutti Ritratto di Joseph Roulin (1889): la serenità del postino di Arles non affiora tanto dal personaggio quanto dal gioco di rimandi orientali (i fiori, lo sfondo): Vincent aveva scoperto il Giappone, un’estetica nuova attraverso la quale guardare la sua campagna. «La Provenza è il mio Giappone» dirà mentre aspettava l’amico Gauguin nel Midi. In quell’universo incontaminato (il Paese era appena uscito dall’isolamento durato oltre due secoli, conservando intatti i valori culturali) vedeva una strada dolce e pura per raggiungere una dimensione di assoluta bellezza. La mostra corre lungo i toccanti scritti di Vincent, che accompagnano le opere. Si legge: «Nell’amore così come in tutta la natura c’è un appassire e un rifiorire, ma non una morte definitiva». Un’intuizione profonda che porta dritti all’ultima parte della mostra, quei paesaggi senza la linea dell’orizzonte che fondono la sensibilità occidentale con la prospettiva libera, tipica dell’arte orientale. Una sintesi? Non sarebbe un termine giusto: ogni fase di Van Gogh è stata una conquista strappata al tempo. Verso la fine, quando sentiva avvicinarsi l’indicibile, scrisse: «Lavoro febbrilmente, di fretta, come un minatore che non vede via di scampo». Anche qui non rinunciò a sentirsi uno degli «ultimi» che aveva raccontato.

Paesaggio con covoni e luna (1889)

  Sono i paesaggi a chiudere il percorso: Arles, Saint-Rémy, Saintes-Maries-de-la-Mer, Auvers... Tutti magnifici ma uno più di tutti: è il Paesaggio con covoni e luna del luglio 1889, in cui nessun colore è verosimile ma nel quale tutto, dalle pennellate convulse alla cromia alterata, esprime lo stato d'animo perturbato del pittore, ormai alla fine della sua avventura, pronto a lasciare il Midi per l'ultima tappa, a Auvers-sur-Oise. (Ada Masoero)



venerdì 24 ottobre 2014

Le carestie politiche del Novecento: Russia e Cina

Andrea Graziosi
Il secolo breve che generò le carestie “politiche”
Nel ’900, nell’Urss come in Cina, lo statalismo feroce affamò intere popolazioni
Stalin in Ucraina usò la mancanza di cibo come arma di distruzione di massa
Anche il “Grande balzo” di Mao provocò una tragedia. Costringendolo al mea culpa
Ma solo ora si studia il rapporto tra privazioni e potere

la Repubblica, 24 ottobre 2014

IL Ventesimo secolo è stato segnato da carestie terribili: tranne quella del 1943 in Bengala, si è trattato in genere di carestie politiche, causate da scelte statali. Se si escludono quelle organizzate dal nazismo contro le popolazioni slave, le altre hanno avuto luogo in paesi socialisti. Tre sono quelle sovietiche: 1921-22 (circa 1,5 milioni di morti); 1931-33 (6,5-7,5 milioni, concentrati in Ucraina, con 4 milioni, e Kazachstan, con quasi 1,5 milioni); e 1946-47 (1,5). Vi sono poi la carestia del 1983-85 in Etiopia; quella del 1994-98 in Nord Corea, e soprattutto la carestia cinese del 1958-62, forse la maggiore della storia con 30-45 milioni di vittime.
Queste grandi carestie politiche sono state a lungo poco studiate perché era difficile concepire la possibilità di carestie causate da decisioni umane e l’associazione tra fame e comunismo sembrava una contraddizione in termini. Solo oggi, grazie ai progressi della ricerca, appaiono i primi tentativi di comparazione ma, specie in Italia, la conoscenza di questi eventi è ancora limitata e persino il Grande balzo in avanti di Mao, sfociato in una tragedia che è persino difficile immaginare, viene ancora citato come un evento positivo.
La situazione dovrebbe migliorare: Adelphi sta per pubblicare il saggio Tombstone, The Great Chinese Famine, 1958 1962, scritto da uno dei maggiori studiosi cinesi dell’argomento, Yang Jisheng, che si spera avrà maggior successo della traduzione del Saggiatore del bel libro La rivoluzione della fame di Jasper Becker (1998). Anche se lavori come Mao’s Great Famine di Frank Dikötter o le memorie del medico di Mao, Zhisui Li, restano da noi sconosciuti e poco si pubblica anche sulle carestie sovietiche. In Francia sta ora per uscire da Gallimard La Récidive di Lucien Bianco, che analizza analogie e differenze tra le carestie di Stalin e quella di Mao, e su questi temi si è appena svolto a Toronto un convegno, intitolato appunto Communism and Hunger, a cui hanno partecipato anche studiosi della carestia kazaca del 1931-33, provocata dalla decisione degli stalinisti di usare il bestiame dei nomadi per garantire le razioni di carne a Mosca e Leningrado, come ha dimostrato Niccolò Pianciola in Stalinismo di frontiera, edito da Viella.
Sia le maggiori carestie sovietiche che quella cinese dipesero da tentativi di trasformare dall’alto la struttura socio-economica di due paesi arretrati: la Grande svolta di Stalin (1929) e il Grande balzo di Mao (1958). Essi si basavano sull’idea di usare il piano, e quindi lo Stato, per socializzare e quindi modernizzare nel più breve tempo possibile, e provarono invece il naufragio della pianificazione centrale che, eliminando ogni contrappeso, aprì la via al collasso sistemico. In entrambi i casi, inoltre, il piano si trasformò da dispositivo economico in strumento della volontà di due despoti che per loro stessa ammissione non sapevano nulla di economia. L’economia socialista divenne così un sistema soggettivo, dominato da scelte politiche e personali che, in Urss come in Cina, si fondavano sull’idea che fosse possibile far pagare alle campagne la rapida trasformazione del paese, sequestrando quote crescenti di prodotto agricolo per sfamare città in rapida espansione e procurarsi, con l’esportazione, parte della valuta necessaria all’acquisto di macchinari e tecnologia. In entrambi i casi si sostenne che la socializzazione avrebbe causato un tale aumento della produttività agricola da permettere quello del livello di vita dei contadini, malgrado il maggior tributo loro imposto.
Al di sotto di queste impressionanti somiglianze vi furono tuttavia differenze cruciali. I due paesi erano guidati da due despoti, ma come Montesquieu ha osservato, una volta che un despota si è impadronito del potere la sua personalità diventa un fattore decisivo, e Stalin e Mao erano davvero diversi. La Cina era inoltre più povera dell’Unione sovietica, il suo equilibrio alimentare era più fragile, e una sua rottura catastrofica era quindi più probabile.
Soprattutto, come ci indicano i dati sulle vittime e la loro distribuzione, la “questione nazionale” giocò nella carestia sovietica un ruolo che non ebbe in quella cinese, malgrado la sua coincidenza con la rivolta tibetana del 1959. In particolare, in Urss i picchi di mortalità furono strettamente associati alla nazionalità, e non a caso che dopo il 1991 la “memoria” della carestia è divenuta in Ucraina un importante strumento di costruzione e legittimazione statuale. In Cina quei picchi dipesero invece dalla maggiore o minore possibilità del centro di sfruttare questa o quella regione, per esempio grazie alla presenza di ferrovie, nonché dall’estremismo di alcuni dirigenti locali. Si spiega così il peso molto maggiore avutovi dalla brutalità dei quadri, la cui crudeltà è sorprendente persino per chi ha letto i rapporti sulle violenze anti-contadine dei primi anni Trenta: le commissioni di inchiesta del 1960-61 parlano di contadini sepolti vivi, costretti a nutrirsi dei loro escrementi, mutilati e uccisi e si calcola che le vittime dirette di queste violenze siano state alcuni milioni.
Anche la distribuzione cronologica della mortalità mette in rilievo differenze importanti. Mentre in Cina e nella carestia pan-sovietica si morì nell’arco di diversi mesi, a loro volta suddivisi tra più anni, in Ucraina milioni di persone perirono in poche settimane tra marzo e giugno 1933, un dato che lascia intravedere una decisione politica di usare la fame come strumento per “risolvere” uno specifico problema nazionale e sociale, una decisione confermata da altri indicatori e che non trova riscontri in Cina.
Qui però le dimensioni della tragedia furono di gran lunga superiori, la rottura del sistema centrale più drammatica, e la reazione della leadership alla catastrofe molto diversa da quella sovietica. Mentre Stalin vinse la sua battaglia domando i contadini e l’Ucraina, e consolidò la sua presa sul paese, dove nel 1934 celebrò il congresso dei “vincitori” e nel 1936-38 liquidò con facilità i suoi presunti nemici nei grandi processi-spettacolo, Mao dovette, anche se a malincuore, ammettere la sconfitta delle sue politiche. Nel 1962 egli riconobbe la propria responsabilità per una tragedia di cui altri leader, come Deng Xiaoping, parlavano apertamente. Il suo potere ne fu indebolito e per riconquistare le posizioni perse egli fu costretto a lanciare tre anni dopo una Grande rivoluzione culturale chiamata a bombardare il “Quartier generale”, vale a dire il gruppo dirigente del partito.
Differenze essenziali si manifestarono anche sul lungo periodo. Nel 1956, tre anni dopo la morte di Stalin, nel suo rapporto segreto al XX congresso Krusciov condannò lo Stalin delle purghe e del terrore, ma esaltò la Grande svolta del 1929 che aveva posto le basi del socialismo sovietico, e ignorò le carestie del 1931-33. Due anni dopo la morte di Mao, con le quattro modernizzazioni, Deng e i dirigenti cinesi, che tra loro discutevano della carestia, fecero invece la scelta opposta, ribaltando le politiche economiche del grande timoniere ma formalizzandone al contempo il culto per consolidare il potere del partito. La Grande svolta e il Grande balzo, e le tragedie da essi causati, furono quindi eventi cardine anche per la storia successiva dei due paesi, ma in modi diversi e persino opposti.