giovedì 23 febbraio 2023

Il libro nero di Putin

 
 
 
 

Danilo Ceccarelli
, Stéphane Courtois. L'ultimo sovietico, La Stampa, 23 febbraio 2023
 
L'asse principale dell'opera si basa sul fatto che Putin è un uomo del Kgb». Ha bisogno di poche parole lo storico francese Stéphane Courtois per riassumere Il libro nero di Putin (Mondadori), che ha curato insieme alla collega Galia Ackerman. Una raccolta di saggi dove viene ripercorso il cammino politico, professionale ed esistenziale dell'inquilino del Cremlino, in un'ascesa segnata dallo shock per la fine dell'era sovietica e una voglia di rivalsa nei confronti del mondo intero. Il profilo che ne esce è quello di uno zar spietato, che ha raccolto l'eredità russa del secolo scorso mettendola al servizio di un nuovo sistema imperiale, sfociato nell'aggressione all'Ucraina. Il titolo fa eco a Il libro nero del Comunismo, che Courtois pubblicò alla fine degli anni Novanta, tra feroci polemiche e strumentalizzazioni. «È quasi inevitabile quando si fa un libro del genere», dice oggi lo storico, che in gioventù militò per qualche anno in un gruppo maoista francese vicino a Lotta Continua, Vive la Révolution.
A partire dal titolo, quest'ultimo lavoro sembra essere legato a doppio filo al Libro nero del Comunismo.
«In qualche modo ne è la continuazione, perché Putin rappresenta il proseguimento di quello che è successo nel periodo descritto in quell'opera».
Quanto c'è oggi in Putin dell'Homo sovieticus?
«Direi tutto. Il presidente russo ha passato i primi 40 anni della sua vita sotto l'Unione Sovietica e, di questi, 20 anni li ha trascorsi come agente del Kgb. Faceva parte di quello che era un organo del terrore, il cui principale compito consisteva nel proteggere il potere. A Putin non è rimasta una mentalità da comunista ma da kgbista, per questo ha l'abitudine di agire in tutta impunità, proprio come facevano i suoi vecchi colleghi che incarceravano, torturavano e avvelenavano senza timori di subire conseguenze».
Cosa ha rappresentato per lui il crollo di quel mondo?
«Putin è rimasto doppiamente traumatizzato da due eventi. Il primo è stato la caduta del muro di Berlino, nel 1989. In quell'occasione si trovava a Dresda, in Germania, dove sappiamo che difese un palazzo del Kgb armi alla mano, minacciando chi provava ad assaltarlo. Poi, due anni dopo, visse in prima persona la scomparsa dell'Unione Sovietica. Per lui fu come assistere al crollo del suo universo, e ancora oggi prova un forte rancore per quello che è successo. Del resto, lo ha detto chiaramente nel 2005, quando ha dichiarato che "la dissoluzione dell'Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo"».
Quindi il capo del Cremlino vuole un ritorno al passato?
«Cito un'altra dichiarazione, ancora più importante: "Chi non rimpiange l'Unione Sovietica non ha cuore, chi vuole ricrearla identica a come era non ha cervello". È come un messaggio subliminale, dove il concetto sta in quella parola: "identica". Sa bene che la ricostituzione di un modello come quello scomparso è impossibile perché il comunismo è finito. Putin vuole quindi ricrearlo in un altro modo».
È come se un intero Paese non avesse fatto i conti con la sua storia.
«La Russia ha fallito il processo di uscita dal comunismo. La popolazione dopo il crollo dell'Urss non aveva una conoscenza pubblica della propria storia, perché fino a quel momento era stata controllata dal potere comunista. C'era quindi la voglia di sapere cosa fosse realmente accaduto. Putin, però, ha distrutto tutto e il modo in cui ha represso l'associazione Memorial è sintomatico di questa strategia. Ha schiacciato tutti coloro che volevano raccontare quello che era successo negli ultimi settant'anni».
In Putin c'è una nostalgia anche di Stalin?
«Alla fine degli anni 80 era una figura in calo, perché si cominciava a sapere qualcosa su quanto era accaduto. Ma Putin ha contribuito a riscattarlo già negli anni duemila. Inizialmente faceva una sorta di doppio gioco: da un lato ricordava il terrore, le violenze e le vittime innocenti del periodo staliniano, ma dall'altra lo presentava come colui che aveva battuto i nazisti. Adesso, però, siamo in un'altra fase: quella della riabilitazione totale».
Ma a che pro?
«Stalin agli occhi di Putin rappresenta l'uomo forte che non si lascia intimidire, che liquida i suoi nemici in ogni modo. Il suo principale strumento politico era il terrore. Un po' come fa il presidente russo, che ha fatto sparire gli oppositori con avvelenamenti, omicidi e incarcerazioni».
Sembrerebbe però che in Putin ci sia un senso di rivincita personale, un riscatto dall'umiliazione subita con il crollo del mondo nel quale si è formato.
«Assolutamente, soprattutto nella questione ucraina. Il presidente russo ha preso molto sul personale le proteste di Maidan avvenute tra il 2013 e il 2014, quando il presidente Viktor Janukovy? scappò in Russia dopo aver sospeso le trattative con l'Unione Europea. Putin era furioso, non poteva concepire il fatto che un popolo potesse cacciare il proprio presidente».
Lei si aspettava l'aggressione all'Ucraina scattata un anno fa?
«Non proprio. Certo, accendere la televisione e vedere una colonna di carri armati avanzare verso Kiev mi ha sorpreso. Ma quello che mi ha veramente stupito è l'errore fatto da Putin sul calcolo del rapporto di forza tra il suo esercito e quello ucraino. Pensava di prendere la capitale in tre giorni, ma ad un anno dall'inizio del conflitto è stato addirittura costretto ad indietreggiare in molte zone. C'è poi un elemento che non bisogna dimenticare: l'Ucraina post-sovietica era diventata progressivamente un Paese ricco e Putin pensava di appropriarsene senza difficoltà, come del resto aveva fatto capire da molte dichiarazioni rilasciate prima dell'attacco. Infatti, nelle zone dove sono state costrette a ritirarsi, le truppe russe hanno riportato con sé tutto quello che sono riuscite a saccheggiare, come nel 1945 quando l'Armata Rossa ha rubato in tutta l'Europa dell'est».
E come si spiega una simile mossa, al netto degli aspetti geopolitici?
«Dall'aggressione all'Ucraina emerge la psicologia di Putin tipica del Kgb e di Stalin. È una paranoia, che viene dall'idea di sentirsi accerchiati da nemici che vogliono far del male alla Russia».
Dalla quale scaturisce un certo tipo di narrazione.
«È sorprendente vedere la mitologia nella quale Putin si è calato, che poi somiglia molto a quella sovietica. Come quando dice che russi e ucraini fanno parte dello stesso popolo. Ricorda Leonid Breznev quando sosteneva che tutti i popoli dell'Urss sono fratelli. Sui quali però si sparava».
Qual è la responsabilità dell'Occidente in quello che sta succedendo?
«Nel Kgb, oltre al terrore e alla violenza si apprende anche a mentire, a ricattare e a truffare. Negli anni Duemila il mondo occidentale ha fatto di tutto per aiutare il presidente russo, ma solamente quando si è fatto rieleggere e ha cambiato la Costituzione per rimanere al potere fino al 2036, il mondo ha cominciato a capire che quello alla guida della Russia non era il democratico che si credeva». —

 

lunedì 20 febbraio 2023

Chi era Pasolini

 

 


Alfonso Berardinelli, Pasolini personaggio-poeta, Doppiozero, 16 gennaio 2023 

Più di Italo Calvino, di Alberto Moravia, di Elsa Morante, anche se meno tradotto all'estero, nella cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo Pier Paolo Pasolini ha avuto un ruolo di assoluto protagonista. La sua morte prematura ha accresciuto il suo successo e la sua influenza, facendo di lui un mito.

Quando fu assassinato, nel 1975, mentre era in compagnia di un "ragazzo di vita", in circostanze che forse un giorno saranno chiarite, aveva poco più di cinquant'anni ed era in Italia l'intellettuale più controverso e scandaloso. Le sue tesi sulla "mutazione antropologica" degli italiani venivano criticate e denigrate da ogni parte, soprattutto dalla sinistra radicale e marxista.

Nei suoi ultimi articoli e saggi, raccolti in due libri, Scritti corsari e Lettere luterane, Pasolini aveva lanciato un disperato allarme: lo sviluppo neocapitalistico, il culto dei consumi di massa o "consumismo" avevano abolito le differenze culturali di classe: proletari e sottoproletari avevano perso identità e coscienza di se stessi. Tutti, anche se di fatto non lo erano, volevano essere classe media, piccola borghesia modernizzata. Diversità durate secoli erano state cancellate nel corso di un decennio. La società italiana si era "omologata" al suo livello medio. Sostituendo il controllo politico, questa unificazione fondata su valori e stili di vita si dimostrava infinitamente più efficace, potente e pervasiva di ogni altra. La stessa cultura di sinistra, anche se marxista e anche se si credeva rivoluzionaria, non si era accorta di questa nuova "dittatura" che non aveva bisogno di un'ideologia di Stato e di un controllo poliziesco per controllare l'intera vita sociale. Era la dittatura fondata sull'identificazione fra sviluppo e progresso, crescita economica, incremento dei consumi e miglioramento della società. Di fronte a questo fenomeno, la critica marxista fondata sul materialismo economico si mostrava, secondo Pasolini, disarmata e cieca.

Ma chi era, che cos'era Pasolini? Forse troppe cose. E questo dava fastidio. Figlio primogenito di una maestra di scuola elementare e di un ufficiale di carriera, Pasolini era nato a Bologna il 5 marzo 1922. Apparteneva socialmente a una piccola borghesia che si sentiva custode di valori morali e a quella generazione, cresciuta sotto il fascismo, che si risvegliò dagli ideali patriottici alla coscienza politica nel corso della guerra 1940-45. In lui la resistenza contro il nazi-fascismo rimase un presupposto primario e incancellabile, dal quale si sviluppò la sua critica alla borghesia "moralmente fascista", alla politica clericale di destra e infine alla società di massa "omologata”.

Autore di poemetti autobiografici e ideologici che a metà degli ani cinquanta erano stati sorprendentemente innovatori per la loro provocatoria discorsività ideologica, Pasolini era anche un narratore: i suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta avevano reso famose le periferie sotto-proletarie romane. Come critico letterario era molto attivo e spesso geniale sia per le sue idee che per la sua capacità di penetrazione psicologica e sociale. Giornalista, polemista e saggista politico, con la vocazione e l'istinto di fare scandalo, non aveva mai smesso di intervenire sui più diversi fenomeni culturali e fatti di cronaca. Infine, era un regista di film che sfidavano le abitudini del pubblico e le tradizioni prevalenti del cinema italiano.

Pasolini aveva così prodotto in un paio di decenni un'opera ampia, articolata e aperta a ogni sviluppo. Se non era universalmente apprezzato, la sua presenza sulla scena culturale era stata costante e incisiva. Oltre a essere un autore, Pasolini era un "personaggio" pubblico rivelatore e suscitatore di conflitti, un attore al centro della scena, un produttore, forse eccessivamente prolifico, di stili e di idee. Aveva praticato tutti i generi letterari, anche il teatro in versi, e come regista cinematografico è stato, da Accattone a Salò-Sade, anche più famoso e discusso che come scrittore. Tutto questo faceva di lui l'esempio più vistoso di intellettuale impegnato: un ideologo eretico che metteva se stesso e la sua esperienza personale al centro di ogni discorso pubblico. Si considerava anzitutto un poeta, sebbene un poeta più giovane di lui, Giovanni Raboni, abbia scritto, con arguta malizia, che poeta Pasolini lo era sempre, ma lo era meno quando scriveva poesie. Pasolini aveva però teorizzato la propria lotta contro la prigione dello stile. Le sue poesie si presentavano sempre più esplicitamente come progetti di opere future e appunti per poesie da scrivere.

Sta di fatto che per Pasolini scrivere poesia era la più naturale delle arti, un'attività più o meno quotidiana di cui non poteva fare a meno; una passione originaria e quasi maniacale che gli permetteva un immediato riconoscimento di se stesso: una specie di pratica propiziatoria, devozionale, igienica alla quale non poteva sottrarsi se voleva mantenere o ritrovare la fede in se stesso. Se era certo di essere poeta, poteva diventare qualunque altra cosa: uomo di cinema, critico letterario, ideologo antiborghese e infine, come è accaduto, un improvvisato ma originale sociologo della modernizzazione italiana, da lui sofferta personalmente e letterariamente come la fine improvvisa di un mondo secolare.

mercoledì 15 febbraio 2023

Il flop del terzo polo

  


Andrea Carugati, L’incubo di Calenda: sognava Macron, è finito Moratti, il manifesto, 15 febbraio 2023

Lui si percepiva come la novità della  politica italiana. Il Macron che si mangia le «anime morte» del Pd, il re della competenza e del merito contro i politici di professione, l’imperatore delle Ztl, lo strafottente di indiscusso talento, la concretezza fatta persona. Il successo alle comunali di Roma del 2021 aveva ubriacato Carlo Calenda. Poco più di un anno dopo il terribile epilogo: nel Comune di Roma Calenda è passato da 193mila voti a 37mila. Un pallone sgonfiato.

E poi La Lombardia. Quanti editoriali, quanti elogi per la sua scelta di puntare su Lady Letizia Brichetto Moratti in fuga dalla Lega. Quante pressioni sui poveretti del Pd, che hanno rischiato di cascarci. «Con Moratti prenderemo i voti della destra». Un po’ come quando, a inizio agosto, Enrico Letta disse che Calenda (per un paio di giorni alleato del Pd alle politiche) sarebbe stato «un magnete per i voti di centrodestra in uscita». Salvo poi limitarsi a soffiare qualche voto dei quartieri alti proprio al Pd.

Moratti si è rivelata un flop clamoroso, con la lista dei due ego ipertrofici al 4,2%, meno della metà di pochi mesi fa. E ieri, in uno dei suoi moti di stizza su Twitter, Calenda è sbottato: «Gli elettori decidono ma non hanno sempre ragione. Altrimenti non saremmo messi così». Messi male, anzi malissimo. «Sostengo da sempre che votiamo per ragioni sbagliate: appartenenza e moda». Chissà, forse dalle parti dei Parioli o a Capalbio la moda ha un suo peso anche in cabina elettorale.

Il suo socio Matteo Renzi è sparito da radar per tutto lunedì e fino al tardo pomeriggio di ieri. Qualcuno dice in Giappone, forse a Riyad. Chissà. Per poi uscirsene con una e-news in cui sussurra che «il risultato è peggiore delle aspettative, ma è fisiologico per consultazioni come le regionali».«Il nostro destino si conferma la casa comune dei riformisti in vista delle elezioni europee del 2024 dove sarà tutta un’altra musica»!, chiosa Renzi, per rassicurare #calendastaisereno che il cammino comune non si fermerà. «Il percorso è segnato, rapido e irreversibile», assicura il renzianissimo Ettore Rosato con piglio marziale.

Calenda, dopo aver imbarcato Gelmini e Carfagna e ora Moratti, ora pare si sia convinto a richiamare Benedetto della Vedova di + Europa, dopo averlo coperto di contumelie quando questi scelse il Pd in agosto. «Ce ne siamo dette di tutti i colori, ma +Europa deve stare in questo processo politico, non può non esserci», l’opinione dell’ex pupillo di Montezemolo. Alla Ferrari, naturalmente.

Una rossa che nei giorni scorsi lo ha fatto litigare con Renzi. Che, con la consueta modestia, ha parafrasato la revenge song di Shakira contro l’ex marito Piqué: «Al Pd avevano me e Calenda e ora hanno Speranza. Come scambiare una Ferrari con una Twingo». Ieri Calenda ha battuto il suo socio in sobrietà: «Non mi ritengo una Ferrari, non ho condiviso quella battuta di Renzi. Il mio obiettivo non è distruggere il Pd ma unire riformisti e liberali».

Segue un’altra autocritica: «L’assunto era che Moratti riuscisse a prendere i voti dei cittadini di destra insoddisfatti dalla gestione di Fontana: giudizio errato. Io nella mia vita quando qualcosa non va tendo ad ammetterlo in maniera candida».

Parole certamente più equilibrate di quelle di Renzi. Resta però in Calenda l’ossessione di voler diventare il «perno» di coalizioni che «riescono a governare il Paese». A prescindere da quali interessi tutelare. Anzi no, a tutela dei più forti me senza ammetterlo mai. Nell’illusione che anche Meloni, come le altre mode, passerà presto e gli italiani andranno dolenti a Canossa per scusarsi con lui. Che continua a non concepire l’idea di un sano conflitto tra destra e sinistra, imprigionato nella sua narrazione impolitica che lo ha fatto affondare.

 

venerdì 10 febbraio 2023

Paola Egonu, monologo di Sanremo

 

 


«Non sono qui a dare lezioni di vita. Cerco di ricavare un insegnamento da ogni giorno. Spesso in passato sono stata definita ermetica, per questo ho cercato di raccontarmi di più. Questo non ha evitato che alcune frasi venissero estrapolate dal contesto e pubblicate sui giornali per fare rumore. Ogni pensiero quando viene espresso non è più sotto il controllo di chi l’ha pronunciato. Per questo dovremmo risalire all’originale.

Devo tutto ai miei genitori, grazie ai quali ho avuto un’infanzia felice. Mi hanno insegnato che se vuoi qualcosa devi guadagnartela. Non sono madre, ma sogno di diventarlo. Nessun genitore è contento se la figlia è costretta a vivere lontano. Vi dico grazie perché per amore mio avete rinunciato a me. Mi mancate, ma so che questa è la mia strada.

Da bambina ero fissata con i perché. Poi da grande mi chiedevo “perché mi sento diversa, perché la vivo come fosse una colpa?”. Ho capito che la mia diversità è la mia unicità. Io sono io. Siamo tutti uguali oltre le apparenze. Lo sport mi ha dato tanto, ma credo che la sconfitta non è solo quando perdi una partita. Il mio obiettivo è avere la palla decisiva da schiacciare. Non sempre ci riesco, e devo ancora imparare ad accettare l’errore.

Sono spesso criticata, è inevitabile. Alcune sono costruttive, ma altre dei veri macigni. Sta a noi dare il giusto peso. Non ho mai smesso di godermi i momenti belli. Sono stata accusata di non avere rispetto del mio Paese, per aver mostrato le mie paure. Amo l’Italia e vesto con orgoglio la maglia azzurra. Ho un grande senso di responsabilità verso questo Paese. Se perdo una finale non vuol dire che sono una perdente. Come a Sanremo, quando Vasco Rossi arrivò penultimo. Anche dalla sconfitte può nascere un percorso, ognuno con il suo viaggio, ognuno diverso».

9 febbraio 2023

 

Come funziona Sanremo


 NORMA RANGERI, Quelle innocenti canzonette dell'Ariston, il manifesto, 9 febbraio 2023

Nemmeno l’ecatombe in Turchia e in Siria li frena nel titolare a tutta pagina contro Mattarella a Sanremo. Con impavido sprezzo del ridicolo, leader dimezzati bofonchiano contro “la Costituzione a Sanremo”, così come avevano obiettato sulla presenza, poi annullata, del presidente Zelensky tra i fiori dell’Ariston. Parlamentari in ordine sparso e in cerca di visibilità dichiarano che in riviera c’è troppa sinistra. Bisogna capirli.

Tanto più se, per la disperazione delle destre di lotta e di governo, l’esordio sanremese fa il botto di audience. Bisogna capirli perché, effettivamente, quando basta una prima serata perché la propaganda di palazzo Chigi esca ammaccata dal confronto con la corazzata festivaliera, saltano i nervi.

Mostrare la distanza siderale tra la piccola, balbettante Giorgia e i suoi fratelli sul fascismo, con la liberatoria, emozionante performance di Roberto Benigni sul ripudio della guerra (articolo 11) e la libertà di pensiero (articolo 21), è come una poderosa iniezione di anticorpi democratici, un vaccino inoculato a più di 10 milioni di persone di ogni età e ceto sociale.

Quella libertà di pensiero che guai a darla per scontata, perché, dice e ripete Benigni, va difesa ogni giorno da chi potrebbe togliercela. Della serie quando Costituzione fa rima con Emozione, non puoi farci niente bellezza.

Oltretutto un monologo costituzionale introdotto dall’inno di Mameli versione pop. Specialmente se viene miracolosamente depurato da quel tono stridulo di marcetta grazie al timbro del Gianni nazionale, capace di trasfigurarlo in canzone popolare.

Mattarella, Benigni, Morandi e, a dirigere l’orchestra televisiva Amadeus, intelligente art-director del palcoscenico nazional popolare, discreto tessitore con il Quirinale dello “scoop” presidenziale quanto efficace nella secca replica ai borbottii di Salvini (“Sono quattro anni che critica il festival, non è obbligato a vederlo”).

Per sovrappiù, al quartetto, in giacca e cravatta, ha fatto da contrappunto la social-star del momento, Chiara Ferragni, prima donna della serata, autrice di un non originalissimo monologo sull’orgoglio femminile, ma speciale indossatrice di un abito apparentemente di banale nude-look, in realtà tessuto di spessa trama dorata sul quale era disegnato il nudo del suo corpo, un inganno simbolico e provocatorio, una visione disturbante.

Eppure c’è chi, ancora?, dice che sono solo canzonette, scambiando la musica per innocente passatempo. E da questa visione vetusta e politicamente scorrettissima, le retroguardie dell’ancien regime fanno discendere la distinzione tra cultura d’élite e cultura popolare, tra testo e contesto.

E dunque, di conseguenza succede che se il Presidente della Repubblica presenzia alla prima della Scala o a quella del Cinema di Venezia nessuno si meraviglia e l’applauso è generale, ma se va alla prima serata del Festival di Sanremo si alzano i sopraccigli, si accendono le polemiche, si sprecano i retroscena.

Come se nella storia dell’epifania sanremese non avessero trovato ospitalità questioni cruciali, drammatiche, importanti. Dall’ odissea dei migranti, alle stragi mafiose, allo sfruttamento in fabbrica.

Al contrario, nel bene e nel male, la canzone popolare parla, seppure in musica e in versi, di quel che siamo, segnala l’evoluzione del costume, e una volta all’anno, dà vita a un canovaccio di italian teles, in cinque interminabili serate.

Non sembra neppure il caso di scomodare la Fenomenologia di Mike Bongiorno per dire quanto la cosiddetta élite culturale sia indietro nella comprensione dei meccanismi della comunicazione di massa. Non capisce che più si introducono elementi di rottura, più la comunicazione è efficace.

I più vecchi telespettatori forse ricorderanno le polemiche infuocate, le stroncature inappellabili di un celebre programma, Fantastico8, di un marziano come Adriano Celentano, con quelle inaudite pause che rompevano il ritmo veloce con cui fino a quel momento si svolgevano gli spettacoli televisivi. Il teleutente si agitava sulla sedia, cambiava canale, poi tornava indietro pervaso da una salutare inquietudine, da un virtuoso fastidio provocato da quella anomalia nell’ingranaggio del fino ad allora rassicurante, narcotico procedere del discorso.

Purtroppo, nemmeno a casa nostra, nella sinistra vecchia e nuova senza differenze, la comprensione dei fenomeni culturali di massa ha trovato, se non raramente, interpreti adeguati. E specialmente di televisione non ha mai capito molto, al punto di aver avuto il Pci impegnato contro i mulini a vento della televisione a colori.

Diversamente, del resto, non avremmo avuto vent’anni di egemonia berlusconiana.

mercoledì 8 febbraio 2023

Finisterre

 


 

Eugenio Montale
SU UNA LETTERA NON SCRITTA
Pubblicata per la prima volta in «Primato», a. I, n. 12, Roma, 15 agosto 1940

 

Per un formicolìo d’albe, per pochi

fili su cui s’impigli

il fiocco della vita e s’incollani

in ore e in anni, oggi i delfini a coppie

capriolano coi figli? Oh ch’io non oda

nulla di te, ch’io fugga  dal bagliore

dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra.

 

Sparir non so né riaffacciarmi; tarda

la fucina vermiglia

della notte, la sera si fa lunga,

la preghiera è supplizio e non ancora

tra le rocce che sorgono t’è giunta

la bottiglia dal mare. L’onda, vuota,

si rompe sulla punta, a Finisterre.

 

Finisterre è la parola emblematica sulla quale la poesia si chiude. Non si riferisce a un luogo preciso, non al Finistère francese né a quello spagnolo che si trova in Galizia. Finisterre è, se mai, un posto di frontiera tra la terra europea e l'oceano. Oltre il mare c'è l'America, luogo legato per il poeta alla presenza di Clizia, la salvifica mediatrice. All'inizio della poesia c'è l'evocazione di una esperienza quotidiana condannata, per quanto scintillante e in taluni momenti singolare, all'assenza di un significato. A nulla vale la permanenza della gioia nell'universo della natura. Si allontana l'immagine di Clizia, relegata nel silenzio e privata dello splendore irradiato dai suoi occhi. "Ben altro è sulla terra" segna il passaggio alla considerazione di una realtà dominata dalla guerra. Non sembra esserci spazio per l'invocazione religiosa. Il tempo si trascina e si consuma in uno sforzo cieco.   

Su Clizia Montale ha scritto tra l'altro:
Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti.
Testi che aiutano a capire: David Michael Hertz, Eugenio Montale, the Fascist Storm and the Jewish Sunflower, University of Toronto Press 2013; Eugenio Montale, Lettere a Clizia, Milano, Mondadori 2006; Mary Mc Carthy, The Groves of Academe, Harcourt, San Diego New York 1951.