Carlo Ginzburg
Il vincolo della vergogna per noi ebrei della diaspora
il manifesto, 26 ottobre 2025
Ricordo l’emozione che provai quando, nel 2006, mi venne conferita la laurea honoris causa da parte della Hebrew University di Gerusalemme. Per un ebreo diasporico come me, ricevere quel riconoscimento da un’istituzione così prestigiosa, insieme a figure che ammiravo, e ammiro, profondamente come Amos Oz e il cardinale Carlo Maria Martini, aveva un significato speciale. Oltre al ricordo di quel giorno indimenticabile ho ben poco da aggiungere. Mi preme però sottolineare che nel corso degli anni ho sempre rifiutato di condividere gli appelli al boicottaggio delle università di Israele da parte di università italiane.
Questi appelli dovevano, e devono, essere respinti: oggi più che mai. Perché «oggi più che mai»?
La notizia che recentemente ha occupato la rete, i giornali, le televisioni è quella del ritorno in patria degli ostaggi israeliani sopravvissuti. Bellissima notizia. Ma chi, come me, fa di mestiere lo storico, deve sottolineare che il presente non può oscurare il passato: un passato rappresentato, in questo caso, dall’orrendo pogrom del 7 ottobre organizzato da Hamas, e dalla risposta criminale, accompagnata da stragi di civili, adulti e bambini, costretti alla fame, decisa da Netanyahu. È lecito parlare, a questo proposito, di genocidio? Mi limiterò a citare la risposta data qualche giorni fa, a questa domanda, da Tatiana Bucci, 88 anni, sopravvissuta ad Auschwitz: «È un massacro. Lo vuole chiamare genocidio? Cosa cambia? Non vi colgo alcuna differenza».
Perché evocare in questa sede gli orrori che hanno segnato e continuano a segnare da due anni la striscia di Gaza? Per un motivo molto semplice: perché nella fragilissima situazione che si sta delineando, le università potranno avere più che mai, in Israele come altrove, un’importanza fondamentale, in quanto luogo di riflessione, di discussione, di insegnamento rivolto a studentesse e studenti di etnie diverse. L’attacco di Donald Trump alle università degli Stati Uniti è una conferma, in chiave negativa, di tutto ciò. Troncare i contatti con le università di Israele sarebbe pazzesco. Ma dobbiamo renderci conto di un fatto doloroso: questa proposta, che si ripete da anni, si inscrive oggi in un antisemitismo crescente, alimentato dagli orrori di Gaza. L’antisemitismo è un fenomeno ripugnante, che niente può giustificare; ma definire antisemitismo le critiche radicali nei confronti della politica israeliana è assolutamente inaccettabile.
Concluderò con una nota personale. Quindici anni fa scrissi un saggio in inglese intitolato The Bond of Shame, «Il vincolo della vergogna», cercando di esplorare un’idea che mi aveva afferrato improvvisamente: e cioè che il paese al quale apparteniamo non è, come vuole la retorica, quello che si ama, ma quello di cui ci si vergogna, o di cui ci si può vergognare. La vergogna può essere un legame più forte dell’amore. Ho verificato quest’ipotesi con amici provenienti da diversi paesi. Tutti hanno reagito allo stesso modo: con un moto di sorpresa iniziale seguito da un pieno consenso, come di chi è stato messo di fronte a una verità evidente. Certo, il peso della vergogna varia enormemente da un paese all’altro. Ma il legame della vergogna – la vergogna come vincolo – agisce, per un numero maggiore o minore di individui.
Avevo analizzato le radici di quest’idea riflettendo sulle pagine indimenticabili che Primo Levi dedicò ai temi della vergogna e della colpa. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, Levi parlò della vergogna per il male commesso da altri, come quella, nata dal senso di appartenenza al genere umano, che i soldati dell’Armata Rossa provarono di fronte ai superstiti di Auschwitz.
Partendo dalla situazione estrema descritta da Primo Levi cercai di affrontare il tema dei confini dell’io. Sottolineare che ogni essere umano ha due corpi – quello fisico e quello sociale, quello visibile e quello invisibile – non basta. È necessario considerare l’individuo come il punto di convergenza di più insiemi. Un individuo non può essere identificato con le caratteristiche che lo rendono unico. Per comprendere le azioni e i pensieri di un individuo, presente o passato, è necessario esplorare l’interazione tra gli insiemi, specifici e via via più generici, ai quali quell’individuo appartiene. Ma quando ho tradotto in italiano il saggio che darà il titolo a un libro Il vincolo della vergogna – che verrà pubblicato da Adelphi tra qualche mese, ho ripensato alle parole di Primo Levi, che dichiarava di sentirsi, in diversa misura, «italiano ed ebreo». La vergogna che provo di fronte alle stragi di Gaza fa parte della mia duplice identità di ebreo diasporico.
Carlo Ginzburg ha letto questo discorso il 23 ottobre a Milano in occasione del centesimo anniversario della fondazione della Hebrew University di Gerusalemme e ce lo ha gentilmente proposto per la pubblicazione, lo ringraziamo.

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