martedì 3 aprile 2018

L'arroccamento

 
Fabio Bordignon, Pd: se stare "fuori" non basta, Il mattino di Padova, 1 aprile 2018

C’è un dato che colpisce, in queste prime, convulse settimane della nuova legislatura: la totale assenza del Partito democratico. Colpisce perché a ritrovarsi improvvisamente ai margini – anzi, tagliato fuori dalla frenetiche trattative tra leader e compagini parlamentari - è quello che è stato un attore centrale, per alcune fasi addirittura l’unico attore rilevante sulla scena politica, onnipresente con i suoi uomini e il suo capo.
All’inizio era la logica della responsabilità: la responsabilità del primo partito di opposizione, durante la crisi del 2011. Poi, all’indomani delle Politiche 2013, la responsabilità di chi era arrivato primo, senza vincere. Così, all’interno di una coalizione sempre meno “grande”, il Pd è diventato, a tutti gli effetti, il partito di governo. Di più: il partito delle istituzioni, il partito del sistema. Questo cambio di immagine è ancora più esplicito se si considera la traiettoria complessiva del renzismo. Il leader fiorentino è colui che arriva da Fuori! – con il punto esclamativo, nella copertina del libro pubblicato nel 2011. È l’insurgent che indica la porta alle vecchie oligarchie: il Fuori! del rottamatore equivale al tutti a casa grillino. In questo senso, Renzi è in perfetta sintonia con lo spirito del tempo: persino le sue mosse più spregiudicate e “cattive” sono premiate dall’elettorato. Tuttavia, proprio l’ingresso nel palazzo è il peccato originale che segna il percorso successivo. Nel quale la spinta al rinnovamento e l’apertura alla società si trasformano in progressivo arroccamento nelle stanze del potere. Diventano, agli occhi di molti elettori, bulimia di potere, volontà di occupare ogni spazio di visibilità e influenza.
Il risultato del 4 marzo fotografa, nella sua composizione territoriale, sociale, degli orientamenti, questa metamorfosi. Il Pd è un partito lontano dalle periferie - geografiche e sociali - incapace di intercettare un malessere che non ha solo un volto di tipo economico, ma anche radici di matrice culturale: si pensi alle paure legate all’immigrazione. Più in generale, è il partito di coloro che hanno maggiore fiducia nei confronti delle istituzioni, nazionali ed europee. In sintesi, rappresenta tutto ciò che va contro lo spirito del tempo.
Alla luce di questo percorso, appare persino scontato che il Pd, in questa fase, scelga di tenersi lontano - il più possibile - dal gran ballo delle alleanze parlamentari. Provi a resistere alla tentazione di partecipare alla spartizione di posizioni e incarichi. Respinga gli appelli alla responsabilità. E decida di rimanere, dopo tanto tempo, veramente fuori: da tutto. Rischia così l’irrilevanza? Sicuramente sì. Ma potrebbe essere l’unica chance di sopravvivenza.
Stare fuori, aspettando gli errori degli avversari, però, non basta. Per provare a ripartire, serve una nuova visione: una “idea” di Paese. E serve una leadership. Le due cose vanno insieme, e insieme sembrano del tutto assenti. La vecchia leadership, all’opposto, sembra fare da “tappo” rispetto a qualsiasi ipotesi di rilancio. Difficile dire se e quale ruolo avranno, in futuro, il renzismo e i renziani: i veri sconfitti del #4marzo. Difficile però, al contempo, prevedere se l’opposizione interna riuscirà a prendere in mano un partito che, ad oggi, rimane ampiamente personalizzato (per non dire militarizzato).
Entrambe le parti, tuttavia, hanno un interesse comune: ripartire dal Pd. O meglio, da quel che rimane della forma-partito immaginata nel 2007. E che ne ha garantito le (alterne) fortune, in alcune brevi stagioni. Ripartire dalla base, ristretta ma comunque ampia. Una comunità che in passato ha sempre risposto all’appello, quando è stata coinvolta. Ecco allora la parola d’ordine: ri-attivare e in parte ripensare i meccanismi di coinvolgimento, continuo, e di confronto, aperto. Tornare a frequentare i luoghi di vita delle persone: sul territorio e in rete. Ma senza rete di protezione: per nessuno. Ripartire dal basso, prima di sprofondare.

domenica 1 aprile 2018

Il maoismo digitale




David Allegranti, Così si può battere il "maoismo digitale" del M5s. La ricetta di Giuliano da Empoli, Il Foglio, 17 maggio 2017


Roma. Tra i milioni di voti del M5s, ci sono elettori delusi da riconquistare, populisti riluttanti – come il fondamentalista del libro di Moshin Hamid – da recuperare. Elettori che pure hanno le loro ragioni, finiti nelle maglie di un movimento “tecnicamente totalitario”, scrive Giuliano da Empoli nel suo nuovo libro sul grillismo, un pamphlet, in libreria da domani con il titolo “La rabbia e l’algoritmo” (Marsilio, 92 pagine, 12 euro). Ed è totalitario per vocazione, “nel senso che ambisce a rappresentare non una parte, ma la totalità del ‘popolo’”. Lo scrittore, creatore del think tank Volta, suggerisce una strategia teorica per fronteggiare il partito di Grillo, nato in un paese, l’Italia, che “è la Silicon Valley del populismo globale”.

Finora, ci sono stati tre tentativi di risposta al grillismo. “La tentazione giacobina”; “la tentazione elitaria”; “la tentazione dorotea”. La prima consiste nell’inseguire i grillini sul loro terreno, diventando più populisti, più antipolitici e più giacobini di loro, adottando un frame che quindi darà solo vantaggi agli inseguiti e non agli inseguitori. La seconda consiste nell’attribuire il successo del M5s all’ignoranza e alla manipolazione, come se il Movimento prendesse milioni di voti per qualche centinaio di troll su Twitter e Facebook. La terza consiste “nell’asserragliarsi nel bunker del sistema, in un grande revival nostalgico della Prima Repubblica”. Le tre tentazioni, portate alle estreme conseguenze, dice da Empoli, sono destinate a fallire. Così come è destinata a fallire la sola opera di denuncia costante delle contraddizioni, degli abusi e delle violazioni dei principi democratici del M5s. All’origine del successo del populismo grillino c’è una formidabile capacità di attrazione della rabbia che un tempo, come ha rilevato il filosofo Peter Sloterdijk, era propria dei partiti di sinistra, che “sono stati per tutto il Novecento i collettori privilegiati della rabbia popolare”. Recentemente, il Pd aveva recuperato quella capacità, dice da Empoli. “Nei suoi momenti migliori – le primarie del 2012 e poi soprattutto i primi mesi del governo Renzi e le elezioni europee del 2014 – il Pd ha saputo intercettare la rabbia degli scontenti, che è all’origine del successo di Grillo e degli altri trumpisti”. Renzi ha adottato, fin dall’inizio, “alcuni atteggiamenti tipici dello stile populista”, restando però “l’unico leader moderato a essere riuscito – almeno per una fase – a intercettare l’energia della rabbia popolare per portarla nella direzione di un programma di riforme e di apertura… Certo, col passare del tempo la capacità del governo Renzi di dare uno sbocco politico alla rabbia è andata riducendosi, fino alla pesante sconfitta del referendum”.

Resta dunque tuttora intatto problema di come superare il “maoismo digitale”, come definisce da Empoli l’ideologia grillina riprendendo le idee del tecnologo Jaron Lanier. La prima operazione che le élite devono compiere è “prendere sul serio il populismo”, il che “non significa prendere sul serio i leader populisti, che sono quasi tutti pagliacci. Vuol dire prendere sul serio gli elettori populisti e le ragioni della loro rabbia”. Quegli elettori sono il soggetto ideale dell’egemonia grillina; non il militante convinto che ripete a pappagallo le teorie di Casaleggio, ma “il cittadino X che non crede più a nulla, perché tutti mentono e non ci si può fidare di nessuno”. E per quanto demenziali siano le ricette che propongono, “l’intuizione dei nuovi populisti non è priva di senso”. Fino a quando “i fautori dell’apertura non riusciranno a dimostrare che i diritti del singolo, anziché essere più compressi com’è accaduto negli ultimi anni, possono svilupparsi anche in un contesto aperto, sarà difficile riconciliare una quota crescente dell’opinione pubblica con qualsiasi tipo di integrazione sovranazionale”. Nessun progetto politico può prescindere oggi “dall’esigenza di restituire ai cittadini un certo grado di controllo sulla direzione della loro vita”. I populisti hanno reso esplicite domande e dubbi su alcuni processi che le élite giudicavano ineluttabili e che invece Brexit e vittoria di Trump hanno reso possibili: l’integrazione europea, la globalizzazione. Ma “se vogliono riconquistare il rispetto delle persone, le élite devono smetterla di produrre sempre e solo incertezza e tornare a proporre un certo grado di stabilità. La celebrazione acritica del cambiamento in quanto tale finisce con generare la reazione opposta”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/25/social-network-rabbia-sociale-e-delirio-di-onniscienza-le-nuove-patologie/1621555/