sabato 30 novembre 2013

La trascrizione del confronto in tv

la Repubblica, 30 novembre 2013

Come per ogni partita che si rispetti, ecco la telecronaca della sfida per chi se la fosse persa in tv (su SkyTg24, in chiaro su Cielo o in streaming su Youdem). Dopo alcune notizie biografiche sui candidati, annunciati in perfetto stile X Factor, si comincia con le domande. Risponde prima Cuperlo, poi Renzi e infine Civati, in base al sorteggio fatto in precedenza.

Semprini: Che cosa chiederà al governo Letta il 9 dicembre qualora diventasse segretario del Pd?
Cuperlo: il governo deve mettere al centro il dramma del Paese. Ci sono milioni di persone che non ce la fanno più. Bisogna intervenire subito con azioni mirate contro la crisi. Al primo posto va messo il lavoro.
Renzi: oggi c'è anche Berlusconi all'opposizione, e ha sette vite come i gatti. Il governo deve uscire dalla sindrome della paura degli altri. Bisogna cambiare subito la legge elettorale. Rilanciare il lavoro, la ricerca, lo sviluppo. E ridare un minimo di speranza e passione agli italiani. Il governo Letta siamo noi, il Pd, più altre tre o quattro partitini. Non dobbiamo farlo cadere.
Civati: dobbiamo cambiare la legge elettorale, farlo immediatamente. E poi dobbiamo tornare al voto, nella primavera 2014, per creare un governo politico senza ricatti.

Semprini: Quanti soldi si possono recuperare da privatizzazioni di asset pubblici e dismissioni?
Renzi: Ci sono privatizzazioni fatte bene, altre male, come Telecom e Alitalia. Prima di privatizzare e dismettere, bisogna cambiare il modo di concepire l'economia in questo Paese.
Civati: Più che di privatizzazioni preferirei che si parlasse di liberalizzazioni: la concorrenza è più importante. Facciamo una norma sul conflitto di interessi.
Cuperlo: Veniamo da anni in cui ci hanno detto in cui tutto ciò che era pubblico veniva concepito come negativo. La scuola pubblica, ad esempio, non si può privatizzare. Ci abbiamo investito troppo poco. La dimensione del pubblico nell'innovazione non può essere trascurata.

"Deduco che nessuno dei tre ha un piano di privatizzazioni", conclude Semprini. E Renzi ribatte: "Lei mi ha chiesto che cosa ne pensassi del piano di Letta, io un mio piano ce l'ho. La sinistra sulle privatizzazioni si deve far perdonare molte cose. Con i capitani coraggiosi ci ha perso la faccia".

Semprini: c'è il rischio che queste primarie possano essere un fallimento?
Civati: spingeremo le persone per portarle alle urne, saremo "spingitori" di primarie. Puntiamo a 3 milioni.
Cuperlo: penso che almeno due milioni di persone andranno a votare. Siamo una forza popolare. Il mio obiettivo è conquistare il consenso delle persone che pensano che il partito sia una cultura, un'identità, un senso della storia.
Renzi: credo che saranno due milioni le persone che andranno a votare e spero di prendere il 51 per cento.

Semprini: qualcuno ha barato nel voto dei circoli?
Cuperlo: non ho fatto polemiche, ma penso che la trasparenza in un partito come il nostro sia la prima cosa.
Renzi: Cuperlo e Civati sono galantuomini e non barano. Spero pensino lo stesso di me. Sono andati a votare 297mila italiani e per 2 o 3 casi discutibili sono passati per 'tesseropoli': se ci sono casi aperti risponderanno di fronte a magistratura
Civati: chi ha barato lo ha fatto solo a livello locale e lo butterei fuori a calci.

Semprini: ci dica il suo stipendio, le proprietà a lei intestate e quanto ha raccolto finora in finanziamenti
Renzi: guadagno 4300 euro come sindaco, ho una casa con un mutuo trentennale e una macchina in comproprietà con mia moglie, ho raccolto 67mila euro. Avevo anche una bici ma me l'hanno fregata.
Civati: ho lo stipendio da parlamentare, 8mila euro, una macchina, sono in affitto. Ho raccolto 77mila euro
Cuperlo: guadagno quanto Civati, sono in affitto, ho una macchina del '98, una vespa nera 300, un cane che si chiama Floyd. Ho raccolto 70-80 mila euro, ma non saprei dirlo con precisione.

Semprini: pensa che l'avversario del Pd sarà ancora Berlusconi?
Cuperlo: mi auguro di no, per il futuro della democrazia di questo Paese: non esiste una sola altra realtà dell'Occidente dove un unico leader politico resti sulla scena ininterrottamente per venti anni.
Renzi: non lo so, sono vent'anni che Berlusconi ci detta l'agenda e ci dice di cosa dobbiamo discutere. Basta. Io sogno una sinistra che vinca e convinca.
Civati: sarà ancora il nostro avversario, non è cambiato granché. Si presenterà come fanno gli imprenditori dalle mie parti: 'Berlusconi & figli', 'Berlusconi & eredi'. Noi facciamo le primarie, loro fanno le 'ereditarie'. Non mi fido di Alfano. Loro dicono che sono cugini. E sono cugini di campagna. E la campagna è quella elettorale.

Semprini: Ci racconti il suo piano di spending review, dove andrebbe a tagliare per risparmiare?
Renzi: la spending review si fa mettendo on line ogni singola spesa, non facendo i professoroni coi numerini. Non importa che alla spending review ci sia un commissario del Fmi, basta un ragazzo di Rignano sull'Arno per capire che basta mettere tutte le spese online.
L'elenco online immediatamente produce nei cittadini un controllo sociale, come ho fatto io a Firenze.
Civati: comincerei a tagliare le spese centrali dello stato. Bisogna chiarire come si spendono i soldi nella Sanità.
Cuperlo: tagliamo i doppi o tripli incarichi, andiamo a colpire le vere aree di privilegio, ma non tagliamo in modo indiscriminato la spesa come abbiamo fatto in questi anni.

Semprini: cosa promette alle donne che non trovano un lavoro stabile e vorrebbero crearsi una famiglia?
Civati: il problema non è la questione femminile, ma maschile: anche oggi qui siamo tre uomini e non va bene. Quando mi si dice di tirare fuori la palle io dico che le palle le voglio tenere dentro.
Cuperlo: una legge sulla parità di salario tra uomo e donna.
Renzi: alle donne non prometto niente perché negli anni hanno promesso troppe cose in troppi". Cara Francesca (dice rivolgendosi a un'immaginaria telespettatrice, ndr) sappiamo che l'Italia non ha posto in asilo nido: Lisbona dice il 3% ma siamo al 14%. Sappiamo che c'è un problema di stipendio. C'è problema di servizi, di orari. E la politica non si rende conto cosa significa per una mamma coordinare la gestione di una famiglia, spesso con un padre assente, con il lavoro. Francesca, ti dico che il Jobs act lo faremo con te e non senza di te".

Semprini: è possibile superare il vincolo europeo del 3%?

Cuperlo: se sarò segretario lo dirò: il governo vada in Europa e spiegare, battendo i pugni, che la strategia di questi anni è fallita: l'idea che si parte dal rigore per poi creare crescita e lavoro, è come il chirurgo che esce dalla sala operatoria e dice: "l'intervento è perfettamente riuscito e il paziente è morto".
Renzi: l'Europa è un'idea comune, è la casa dei nostri figli. Da vent'anni a questa parte l'abbiamo lasciata in mano ai burocrati di Bruxelles. Che quando accade un disastro come Lampedusa si girano dall'altra parte. Dobbiamo mettere in discussione il trattato di Maastricht, dico no all'Europa dei ragionieri.
Civati: la penso come Romano Prodi e gli dedicherei un applauso. Sono d'accordo con Prodi quando ricorda che il 3% è solo un numero. Dobbiamo essere rigorosi ma dobbiamo chiedere che scuola e ricerca siano fuori dal conto del debito. E poi fare anche Italia si faccia il reddito minimo.

Dopo aver richiamato Prodi nella sua risposta, Civati ritorna sulla mancata elezione del Professore a Capo dello Stato, una ferita rimasta aperta nel Pd: "Non aver eletto Prodi a presidente della Repubblica è stato uno degli errori più gravi del centrosinistra". "Un partito è una comunità - replica Gianni Cuperlo - io ho votato Marini ed ho votato Prodi, qualcuno no. Quando si decide una cosa la si rispetta".

Semprini: E' d'accordo su una patrimoniale?
Renzi: io le tasse a Firenze le ho abbassate davvero. E' giusto che chi ha di più debba dare di più, ma prima dobbiamo dare il buon esempio noi.
Civati: si, sono d'accordo, ma prima bisogna fare l'anagrafe di patrimoni. La tassazione deve essere progressiva.
Cuperlo: vedo che i miei avversari sono piuttosto prudenti su questo tema. La mia risposta invece è un netto si, è giusto avere una patrimoniale in un Paese che soffre come l'Italia. Non per colpire la ricchezza ma per redistribuirla.

Semprini: un bilancio di questi sei mesi del governo Letta.
Renzi: dò a Letta un voto sufficiente, tutti gli daremo una mano. Non voglio prendere il suo posto. Siamo una squadra.
Civati: il mio voto non raggiunge la sufficienza, per colpa dell'impianto di questo governo.
Cuperlo: voto più che sufficiente, ha restituiro credibilità e autorevolezza al nostro Paese sulla scena internazionale. Ora bisogna cambiare passo e intervenire più decisamente sul lavoro.

Semprini: la vostra posizione su affidi, adozioni e unioni civili delle coppie gay.
Civati: io sono per l'assoluta uguaglianza, per i matrimoni ugualitari. Non voglio reticenze, né imbarazzi. Sono favorevole anche ad affidi e adozioni.
Cuperlo: io penso che non dobbiamo avere paura delle parole, ma amare le persone. Estendere i diritti civili non è mai un gioco a somma zero, aiuta tutti. La questione delle adozioni, invece, è complessa, va discussa in maniera più approfondita.
Renzi: invidio molto chi spara certezze, vado più cauto su questi temi rispetto a Gianni e Pippo. Ma si parla tanto, poi si va in Parlamento e si devono presentare gli atti. Non impantaniamoci in discussioni sul matrimonio, altrimenti non si fa nulla nemmeno stavolta. Io sono per la civil partnership, perchè passi la legge sull'omofobia, e la step child adoption".





Semprini: qual è la miglior legge elettorale per i cittadini?
Cuperlo: mai più con questa legge elettorale, non si può tornare a votare con il Porcellum. Penso che la migliore sia un doppio turno di collegio, che garantisca ai cittadini la più ampia rappresentanza.
Renzi: Non c'è una legge elettorale ideale purché garantisca governabilità e no all'inciucio.
Ecco tre possibili modelli: il Mattarellum con un premio di maggioranza al 25%, il sistema dei Comuni sopra i 15 mila abitanti con doppio turno oppure il sistema dei Comuni sotto i 15 mila abitanti con la garanzia che chi vince governa.
Civati: Quagliariello e Violante stanno scrivendo le bozze da due anni. Secondo me c'è del tenero. Sono d'accordo anche io con il doppio turno.

A questo punto Cuperlo replica provocando Renzi sul presidenzialismo: "Hai proposto la legge elettorale sul modello del 'sindaco d'Italia, se sarò segretario io mi impegnerò per impedire qualunque deriva di tipo presidenzialistico del nostro ordinamento repubblicano, puoi prendere lo stesso impegno?". "La mia - replica Renzi- non è una proposta costituzionale, può diventarlo ma non sono affezionato al modello. Non mi mettere in bocca parole che non sono le mie parole e sono le tue parole".

Semprini: Dal 9 dicembre la Cancellieri resta al suo posto?
Renzi: lo dovrebbe decidere il presidente del Consiglio e mi sembra che lo abbia già fatto. Ma lei pensa che io voglio fare il segretario di un partito per cambiare un ministro? Io ho ambizioni un po' più grandi, voglio cambiare l'Italia.
Civati: se la questione torna in Senato dobbiamo riaprire la discussione. Se vinco la mia posizione torna di attualità. E' sbagliato chiedere fiducia a tutto il governo o chi sbaglia non cambia mai.
Cuperlo: penso che dobbiamo recuperare un principio di responsabilità anche da un punto di vista individuale, ho rispettato le opinioni del ministro sulla non interferenza, ma c'è stato un grave problema di opportunità. Tuttavia non tocca a noi presentare una mozione sfiducia verso questo governo.

Semprini: Due metodi per non vincere nemmeno questa volta alle elezioni?
Civati: dobbiamo smetterla di inseguire i moderati. Dobbiamo essere più netti.
Cuperlo: dobbiamo riconquistare la fiducia di questo Paese per i valori e i principi che esprimiamo.
Renzi: bisogna pensare che la politica sia tentare di essere orgogliosi del futuro.

Semprini: due nomi da inserire nel vostro Pantheon di sinistra

Cuperlo: so che nel Pd sono confluite culture diverse che io rispetto. Ma Enrico Berlinguer ha testimoniato un'idea della politica alta e della moralità in politica. E poi Rosa Parks, tra due giorni c'è l'anniversario. E ha cambiato la storia dei diritti umani nell'Occidente.
Renzi: Meme Auzzi, segretario dei Ds di Firenze e sindaco di Incisa, morto nel 2006. Lui avrebbe sostenuto Cuperlo, ma era un coraggioso militante del Pd che aveva una passione straordinaria. Il secondo è Don Primo Mazzolari.
Civati: Posso citare due persone che stanno benissimo? A me piace il sindaco di New York e il sindaco antimafia di Monasterace Maria Carmela Lanzetta che si è dovuta dimettere.
Ma io non la metto nel Pantheon: è candidata con me e la porto nella direzione del partito.

Si arriva all'appello finale. Cuperlo richiama i valori della sinistra: "Negli anni della crisi ci sono milioni di donne e uomini che hanno perso anche una parte della loro dignità - dice - e la più grande responsabilità che sta in capo alla classe dirigente che sta qui è proprio restituire speranza, dignità e una prospettiva di cambiamento a questo Paese. Vorrei un Pd - conclude Cuperlo - che riscopra questa dimensione culturale, i suoi principi e i suoi valori da interpretare con orgoglio e coerenza", ha proseguito, per dire "a una ragazzo: vieni da questa parte perché è la parte giusta".

Civati si rivolge ai giovani: "Il mio Pd è un partito degli elettori ma soprattutto dei ragazzi e delle ragazze di questo paese. Voglio dire che saremo al loro fianco perché ci crediamo.
Torniamo alla vostra freschezza diamo a voi il protagonismo che meritate. E poi, smettiamola di chiamare giovani i quarantenni". E conclude: "Fatelo per voi e se posso essere egoista, fatelo per mia figlia che ha solo un anno e che si merita un Paese più bello".

Renzi nel suo appello finale ha citato le intercettazioni della baby squillo minacciata dalla madre di non andare più a scuola, una intercettazione che "ferisce il cuore perché fa pensare che l'unico valore che portiamo è economico, io sono cresciuto pensando che il valore" non è solo questo, "il mio Pd proverà a restituire valori e per una volta a far vincere la sinistra che si è stufata di partecipare".

mercoledì 27 novembre 2013

Berthe Morisot, pittrice

Meno conosciuta dei suoi colleghi uomini, ma in certe tele più geniale di loro, dimenticata dalla storia dell'arte, ma amatissima dai suoi amici - Renoir, Degas, Monet, Cézanne, Mallarmé - tanto da essere ritratta in molti dipinti o ricordata in scritti e poesie, Berthe Morisot (1841-1895) è ricordata più come la modella di Manet che come l'unica artista impressionista.
La pittura di Berthe Morisot sembra graziosa, chiara, divertente: eppure, come scriveva Mallarmé, era un melange unico di "furia e nonchalance". 
Sara Sesti

« Nei quadri di Mme Berthe Morisot le forme sono sempre vaghe, ma una strana vita le anima. L'artista ha trovato il modo di fissare sulla tela i riflessi cangianti e le luminescenze che compaiono sulle cose e nell'aria che le avvolge ... il rosa, il verde pallido, la luce vagamente dorata, cantano con un'armonia indescrivibile. Nessuno ha mai rappresentato l'impressionismo con un talento più raffinato di questo e con un'autorevolezza maggiore di quella di Mme Morisot. »
Gustave Geffroy
   La Culla, indubbiamente il quadro più famoso di Berthe Morisot, è stato dipinto nel 1872 a Parigi. L'artista raffigura Edma, una delle sue sorelle, mentre guarda dormire la figlioletta Blanche. Questa è la prima volta che una figura materna appare nell'opera della Morisot e il soggetto ritratto in questa tela, diventerà uno dei temi preferiti dall'artista.
Lo sguardo della madre, la linea che disegna il suo braccio sinistro piegato al quale corrisponde il braccio anche esso piegato della neonata, gli occhi chiusi della piccina tracciano una diagonale che mette maggiormente in evidenza il movimento della tenda sullo sfondo. Questa diagonale stabilisce un'unione tra la madre e la sua bambina. Il gesto di Edma, che frappone il velo della culla tra lo spettatore e la neonata, contribuisce a rafforzare ancora di più questo sentimento di intimità e di amore protettivo espresso nel quadro.
Berthe Morisot partecipa con La Culla alla mostra impressionista del 1874 diventando di fatto la prima donna ad esporre le sue opere con il gruppo. Il quadro viene a malapena notato. Tuttavia, alcuni tra i principali critici ne colgono la grazia e l'eleganza. Dopo aver cercato invano di vendere il quadro, Berthe Morisot non lo mostrerà più in pubblico e l'opera sarà conservata dalla famiglia di Edma fino alla sua acquisizione da parte del museo del Louvre nel 1930.
(Musée d'Orsay)

Georges Bataille, Portrait de Simone Weil

Simone Weil (#) (Lazare)
così come viene descritta da Georges Bataille nel romanzo Le bleu du ciel

Henri si confessa con Lazare, l’amica parigina dall’aspetto assurdo. La sua descrizione, che occupa varie pagine*, rimanda senza grande difficoltà all’effettiva amica di Bataille: Simone Weil. Venticinque anni, brutta, visibilmente sporca, malsana, capelli corti ed irti, carnagione giallastra, naso da ebrea ed occhiali cerchiati d’acciaio. Dice Henri riferendosi a Lazare: “quello che mi interessava di più in lei era l’avidità morbosa a dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei diseredati.” Lazare, calma come un  prete, accoglie il racconto di tutta la sua vita, ridotta a fiumi di alcol, ossessioni ed allucinazioni febbricitanti.

(*) capitolo 2, pp. 36-38 (prima edizione 1957)

Je la voyais en général dans un bar-restaurant derrière la Bourse. Je la faisais manger avec moi. Nous arrivions difficilement à finir un repas. Le temps passait en discussions.
C'était une fille de vingt-cinq ans, laide et visiblement sale (les femmes avec lesquelles je sortais auparavant étaient, au contraire, bien habillées et jolies). Son nom de famille, Lazare, répondait mieux à son aspect macabre que son prénom. Elle était étrange, assez ridicule même. Il était difficile d'expliquer l'intérêt  que j'avais pour elle. Il fallait supposer un dérangement mental. Il en allait ainsi, tout au moins, pour ceux de mes amis que je rencontrais en Bourse.
Elle était, à ce moment, le seul être qui me fit échapper à l'abattement: elle avait à peine passé la porte du bar - sa silhouette décarcassée et noire à l'entrée, dans cet endroit voué à la chance et à la fortune, était une apparition du malheur - je me levais, je la conduisais à ma table. ^Elle avait des vêtements noirs, mal coupés et tachés. Sans chapeau, ses cheveux courts, raides et mal peignés, lui donnaient des ailes de corbeau de chaque côté du visage. Elle avait un grand nez de juive maigre, qui sortait de ces ailes sous des lunettes d'acier.
Elle mettait mal à l'aise: elle parlait lentement avec la sérénité d'un esprit étranger à tout; la maladie, la fatigue. le dénuement ou la mort ne comptaient pour rien à ses yeux. Ce qu'elle supposait d'avance chez les autres était l'indifférence la plus calme. Elle exerçait une fascination, tant par sa lucidité que par sa pensée d'hallucinée.^ Je lui remettais l'argent nécessaire à l'impression d'une minuscule revue mensuelle à laquelle elle attachait beaucoup d'importance. Elle y défendait les principes d'un communisme bien différent du communisme officiel de Moscou. Le plus souvent, je pensais qu'elle était positivement folle, que c'était, de ma part, une plaisanterie malveillante de me prêter à son jeu. Je la voyais, j'imagine, parce que son agitation était aussi désaxée, aussi stérile que ma vie privée, en même temps aussi troublée. Ce  qui m'intéressait le plus était l'avidité m aladive qui la poussait à donner sa vie et son sang pour la cause des déshérités. Je réfléchissais: ce serait un sang pauvre de vierge sale.

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^^“ Portava abiti neri, sgraziati e macchiati. Pareva non vedesse nulla davanti a sé, spesso urtava i tavoli passando. Senza cappello, i capelli corti, irti e spettinati le creavano ali di corvo intorno alla faccia. Aveva un gran naso da ebrea magra, la carnagione giallastra usciva da quelle ali sotto occhiali cerchiati d’acciaio. Metteva a disagio: parlava lentamente, con la serenità di un’indifferenza totale; la malattia, la stanchezza, la miseria o la morte non contavano nulla ai suoi occhi. Supponeva a priori negli altri il più calmo distacco. Esercitava un fascino, e per la sua lucidità, e per le sue idee da allucinata”.    
Georges Bataille,  L’azzurro del cielo (Einaudi)





(#) Weil, Simone (propr. Simone Adolphine). - Scrittrice e pensatrice francese, nata a Parigi il 3 febbraio 1909, morta a Ashford (Inghilterra) il 23 agosto 1943. Di alta statura morale, fu pensatrice profonda e intensa tanto da dar vita nella sua breve esistenza a un originale connubio di esperienze di riflessione filosofica e politica e di azione solidaristica tra le più interessanti del 20° secolo.

Di famiglia ebrea colta e raffinata, figlia di medico e sorella del matematico André Weil, Simone già dall'età di dieci anni nutrì interesse per la politica mettendosi sempre "istintivamente, più per sdegno che per pietà, al posto di quanti erano vittima di un'oppressione". Dopo ottimi studi liceali con R. Le Senne, suo professore di filosofia, e universitari con Alain (é. A. Chartier) all'école Normale Supérieure (dal 1928), conseguì brillantemente l'agrégation (1931) e iniziò a insegnare filosofia nei licei di Le Puy, di Auxerre e di Roanne. Sin dal periodo trascorso a Le Puy la W., su posizioni vicine al sindacalismo rivoluzionario, era continuamente intervenuta in difesa dei disoccupati del luogo, accusata dai funzionari comunali e dai giornali locali anche di essere, in quanto la più istruita, l'organizzatrice e l'agitatrice di tali manifestazioni. Aveva aderito tra il 1931 e il 1932 al sindacato degli insegnanti e continuando la sua attività politica, per comprendere le ragioni del successo in Germania del nazionalsocialismo, approfittò delle vacanze per fare un viaggio al fine di conoscere il popolo tedesco e i movimenti di sinistra e valutare con nuovi dati la possibilità di rivoluzione che, per ispirazione trockista, lì si aspettava. Rientrata in Francia, preoccupata degli sviluppi politici tedeschi in senso nazista e con una maggior vena antistalinista per la critica al principio di "socialismo in un solo paese", accelerò il suo processo sociale di formazione politica. Pur avendo ricevuto soddisfazioni dalla scuola, dove le allieve amavano il suo metodo di insegnamento che, sui passi di Alain, bandiva i manuali per leggere e studiare direttamente le opere dei grandi filosofi, le esperienze in difesa dei disoccupati la spinsero ad abbandonare presto l'insegnamento per vivere direttamente la dura esperienza del lavoro manuale, dal 1934 come fresatrice a Billancourt nelle officine Renault e successivamente in vari altri stabilimenti. Coinvolta anch'essa come altri intellettuali e militanti della sinistra dall'onda della solidarietà internazionale, allo scoppio della guerra civile spagnola (1936) intervenne sin dall'inizio al fianco del governo repubblicano del Fronte popolare, eletto democraticamente, contro le forze dei generali spagnoli capeggiati da Francisco Franco con il sostegno dei fascismi europei. Al ritorno in Francia, attraverso l'amicizia del domenicano padre Perrin e di G. Thibon maturò la sua crisi religiosa in senso cristiano, pur non rinunciando mai alla fede d'origine. L'occupazione di Parigi da parte dei tedeschi allo scoppio della seconda guerra mondiale e l'inizio delle persecuzioni naziste contro gli ebrei francesi spinsero la W. a rifugiarsi a Marsiglia dove, esclusa dall'insegnamento, lavorò ancora in fabbrica, ma la persecuzione estesa alla Francia di Vichy la costrinse a cercar scampo all'estero. Emigrata con la famiglia negli Stati Uniti, a New York, si trasferì poi in Inghilterra, dove militò a fianco delle autorità in esilio della Resistenza francese, nel Commissariato per gli interni e il lavoro di "France libre" guidata dal generale Ch. De Gaulle. La salute compromessa nel duro lavoro in fabbrica fece riacutizzare la malattia che l'aveva già colpita in precedenza: si spense nell'estate del 1943.
I suoi scritti, a eccezione degli articoli nelle riviste Révolution prolétarienne, Critique sociale, Nouveaux Cahiers, Cahiers du Sud, sono apparsi tutti postumi: La pesanteur et la grâce, 1948 (trad. it. 1951); L'enracinement: prélude à une déclaration des devoirs envers l'être humain, 1949 (trad. it. 1954), scritto a Londra tra il 1942 e il 1943, ultima sua opera sistematica; L'attente de Dieu, 1950; La connaissance surnaturelle, 1950; Lettre à un religieux, 1951; Intuitions pré-chrétiennes, 1951; La condition ouvrière, 1951; Cahiers, 3 voll., 1951-56 (trad. it. 1982-84); La source grecque, 1953; Oppression et liberté, 1955 (trad. it. 1956); Écrites de Londres et dernières lettres, 1957; Pensées sans ordre concernant l'amour de Dieu, 1962 (trad. it. 1968). Essi testimoniano la complessità del suo pensiero a vari livelli: la dedizione a un'appassionata religiosità d'azione sociale, seguita con straordinaria coerenza morale e attiva solidarietà; una profonda tensione mistica, ispirata alla promozione dell'affratellamento della comunità umana; una raffinata riflessione di filosofia politica ricca di originali intuizioni, come il nesso scienza-potere-lavoro. La W. ha scritto per il teatro la tragedia rimasta incompiuta Venise sauvée (ed. 1955). Sotto la direzione di A.-A. Devaux e F. de Lussy sono state pubblicate le sue Oeuvres complètes (1988-97).
Gabriella Nisticò (Treccani)


lunedì 25 novembre 2013

Giaime Pintor innamorato

Simonetta Fiori
Nuovi documenti e un convegno ricordano l’intellettuale morto settanta anni fa
Pintor segreto
Amori, commedie e traduzioni nelle carte ritrovate

la Repubblica, 25 novembre 2013

... E da Luigi Pintor occorre ripartire, dai manoscritti in grafia minuta che negli anni Novanta decise di affidare a una giovane ricercatrice fiorentina. Ne sarebbe scaturita nel 2007 la bellissima biografia Il costante piacere di vivere (Utet). «Non potrò mai dimenticarlo», racconta ora Maria Cecilia Calabri. «Vedi, mi disse, il problema è che Giaime è stato una figura originalissima, di difficile comprensione. Come lo collochi? Sembra più quasi l’eroe sottile di un romanzo, che andrebbe interpretato in chiave poetica». Le narrò anche un aneddoto della madre Adelaide che, invitata in un liceo a parlare dell’eroe, suggeriva di pensare a Giaime come a un ragazzo. A non ridurre la sua vita a un gesto estremo.
... A Perugia, nell’estate del 1940, prima di partire per la guerra, l’incontro con due donne importanti. Filomena d’Amico, l’amica colta con cui avrebbe stretto un sodalizio intellettual-sentimentale. E Ilse Bessel, una giovane tedesca di Heidelberg che sarà il suo grande amore, ispiratrice delle ultime poesie e dedicataria del libro di traduzioni di Rilke. Bionda, sguardo vivace, una figura slanciata dalle lunghe gambe. «Era una giovane deliziosa », avrebbe ricordato la cugina Lia Pinna Pintor. «Io mi sentivo un po’ impacciata perché lei era un tipo disinvolto, molto elegante, ma di un’eleganza sportiva. Giaime era molto affascinato». Si accende qualcosa che con Filomena resta assopito. Le righe qui accanto [sotto]  raccontano l’esaurimento di quel rapporto sentimentale, non però di un’amicizia.

Giaime Pintor
Gli inediti
“Che giornata straordinaria, tutto il tempo insieme a lei”
 
la Repubblica, 25 novembre 2013

Firenze, 22 luglio 1941
Sono arrivato a Firenze inquieto. Dubitavo molto di trovare Ilse dopo accordi così vaghi. Invece era arrivata in albergo dieci minuti prima di me. Ci siamo visti aprendo le finestre e attraverso un piccolo cortile. Era intenta a riordinare i suoi vestiti. Per lei è stata soprattutto una sorpresa: sentirsi chiamare e ridere con la voce di una volta a Perugia. Era commossa ma difesa, come è sempre ai primi incontri. Dopo cena abbiamo passeggiato a lungo sull’Arno. E a poco a poco si animava e si addolciva. Ha parlato molto di sé, più delle altre volte, dicendo delle proprie paure e dei rimorsi che la tormentavano. È molto tedesca: sente il fascino che viene dalla sua gente e dice di soffrirne.
Ha citato Rilke e George. Teme che questo suo consumare gli altri sia la sua condanna (uno pensa sia la sua fortuna, per il suo egoismo).
Per me quel linguaggio è familiare, ho potuto consolarla quasi con le stesse parole e dirle la verità (in fondo è la mia stessa esperienza). Mi abbracciava stretta, meravigliata di questa identità di linguaggio, e credo che mi abbia voluto bene. Dice di recitare, ma riesce a mantenere una grande purezza.
Siamo tornati tardi, un po’ eccitati, e l’ho sentita addormentarsi nella camera accanto.
Firenze, 23 luglio 1941
È stata una giornata di grande intensità, come quelle che dividono il tempo e fanno ardere i ricordi lentamente accumulati. Tutto un giorno con Ilse, liberi di fermarci dove volevamo, di scendere in ogni ristorante, di sedersi in un caffè o in un giardino.
Quello che è impareggiabile in lei è la sua gaiezza, la sua attenzione ai fatti esterni, quella facoltà di vedere tutto con meraviglia e ironia. La sera a San Miniato era dolce e remissiva come mai le ragazze nostre. Ho capito il pregio di queste giornate: durante tutto il giorno è un’amica intelligente e carissima che fa trascorrere il tempo, la sera dà quella che nessuna amica mi potrebbe dare, la dolcezza dei capelli sulle mie braccia e baci lenti e calmi. Siamo tornati molto stanchi e partendo mi sono ricordato che la lasciavo senza un soldo. Terribile rimorso.
Torino, 20 novembre 1941
La mattina in ufficio. Il primo pomeriggio in albergo; poi a casa Pinna Pintor dove Lia festeggiava la sua laurea. Il solito pubblico di giovani intellettuali imbarazzati. Passato rapidamente da Einaudi a sentire le novità. *** Dire che cosa resta di F. (ndr Filomena D’Amico) è più difficile: non ebbi mai per lei una vera affezione. E fin dal primo momento mancava tra noi quella superba e (...) che mi rivelava l’esistenza di una donna e stringeva alla sua figura fantasie e miti senza (...). (Così la prima volta che vidi Ilse in una strada di Perugia, e Barbie a Heidelberg in un vecchio ristorante: figure sconosciute, ma già (...). Con F. nacquero rapporti amichevoli che solo la mia debolezza senza alcuna necessità trasformò in (...).
Qui sopra alcune pagine inedite del Diario di Giaime Pintor. Gli spazi bianchi, indicati con le parentesi, sono un tratto costante del Diario. Pintor aveva l’abitudine di lasciare in sospeso la parola, per poi definirla con precisione.
 


martedì 19 novembre 2013

Maria Antonietta verso il patibolo


Il mattino del 16 ottobre 1793 Maria Antonietta si recò al patibolo sopra ad una carretta trainata da un solo cavallo, come tutti gli altri condannati (a Luigi XVI era stato concesso l’onore di recarvisi in carrozza). Le erano stati tagliati i capelli e legate le mani dietro alla schiena, un prete repubblicano sedeva al suo fianco, e, lungo il tragitto, la folla si prodigava in grida e insulti all’indirizzo ‘dell’infame Antonietta’: “Morte all’austriaca! Morte alla cagna!”. Affacciato ad una finestra il pittore Jacques-Louis David fissò, con pochi tratti di matita, l’ultimo ritratto dell’infelice regina in viaggio verso la fine.
 

Francesca Diotallevi

Portraiture has an affinity with death, but this is something unique - at once a callous observation and... what? It seems sympathetic, nothing to do with the grotesque vilifications of Marie Antoinette circulating in word and image. It depicts her last moments as miserably human, unglamorous to a degree that may embody a Revolutionary joy in the destruction of rococo fripperies. As she sits there, hair cut, a few strands poking out of her bonnet, her nose big, her mouth a grim line, she is the opposite of idealised royalist portraiture.
But there is a determination to the way she sits without looking up. This drawing is an acknowledgement of the Revolution's violence, in which David is complicit. David is an honest extremist. He believes in the inevitability of this execution so absolutely that he can stand back and feel a tweak of empathy.

Jonathan Jones,  The Guardian,

L'arte del ritratto ha un'affinità con la morte, ma questo è qualcosa di unico - allo stesso tempo un'osservazione insensibile e ... che cosa? Sembra partecipe, nulla a che vedere con gli avvilimenti grotteschi di Maria Antonietta che circolano in parola e immagine. Esso raffigura i suoi ultimi momenti come pietosamente umana, poco affascinante al punto da poter incorporare una gioia rivoluzionaria nella distruzione dei fronzoli rococò. Mentre lei è lì seduta, con i capelli tagliati e alcuni fili che spuntano fuori dalla sua cuffia, con il naso grosso  e la bocca ridotta a una linea severa, è l'opposto del soggetto idealizzato dalla ritrattistica di corte.
Ma vi è una determinazione nel modo in cui lei si trova seduta, senza alzare lo sguardo. Questo disegno è un riconoscimento della violenza della Rivoluzione, di cui David è complice. David è un estremista onesto. Egli crede nella inevitabilità di questa esecuzione in modo così assoluto da potersi tirare indietro e provare un granello di empatia.

domenica 17 novembre 2013

Francesco Ghezzi, un anarchico nella Russia di Stalin

Corrado Stajano
Ghezzi, la vita spezzata dall’utopia
La storia dell’anarchico lombardo inghiottito in un gulag 

Corriere della Sera, 30 gennaio 2014

Che vita appassionata e tragica quella dell’anarchico Francesco Ghezzi, dall’orto delle Visitandine, nel cuore di Milano, alla Lubianka di Mosca a un gelido gulag in Siberia. L’ha ripercorsa un secolo dopo, con affetto, con pena mascherata, ma con il rigore dei documenti e il rispetto dei fatti, senza sposarne le idee, un nipote, il noto sindacalista Carlo Ghezzi, già segretario della Camera del lavoro di Milano, ora segretario della Fondazione Giuseppe Di Vittorio. Ne è nato un libro, Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia (edizioni Zero in condotta).
Francesco, cugino del padre di Carlo, nacque nel 1893 a Cusano sul Seveso in una famiglia numerosa di contadini poveri, di rigida educazione cattolica. Nel 1900 la famiglia si trasferisce a Milano, in via Santa Sofia 7. Il padre Giulio trova lavoro come giardiniere all’Orticoltura Longoni e ottiene anche la gestione della portineria di un istituto religioso della Curia del cardinal Ferrari, allora arcivescovo di Milano. Il quartiere ha un aspetto sereno, con i barconi carichi di merce che scivolano sull’acqua dei Navigli.
Non è serena invece Milano, in quegli anni. Il conflitto sociale è aspro, la crisi della fine dell’Ottocento si fa sentire ancora, non si sono per nulla rimarginate le ferite del tragico 1898, quando il generale Fiorenzo Bava Beccaris sparò col cannone e con la mitraglia contro gli operai in sciopero. Ufficialmente i morti furono ottanta, pare invece che siano stati quattrocento.
Il ragazzo Francesco, sveglio e intelligente, finite le elementari, lavora a bottega, tornitore di lastre, poi cesellatore del bronzo, un artigiano provetto. Forse è proprio l’ambiente un po’ codino della famiglia a far di lui un ribelle. Carlo Ghezzi non è uno storico, ma conosce bene politica e società e sa inserire la vicenda dell’anarchico nel clima che incendia la città e l’intero Paese: tra la nascita delle organizzazioni sindacali — la Confederazione generale del lavoro fondata proprio a Milano nel 1906 —, gli scontri di piazza, la guerra di Libia del 1911.
Francesco a sedici anni viene arrestato — è la sua prima volta — durante un raduno di protesta. Frequenta un gruppo di anarchici, si definisce anarchico individualista: un sovversivo, secondo i rapporti di polizia. Prende parte a manifestazioni antimilitariste, aderisce all’Usi, la più importante organizzazione sindacalista rivoluzionaria europea, conosce nel 1913 Errico Malatesta, l’uomo di maggior prestigio del movimento anarchico italiano, conosce anche il Mussolini socialista, che va a cena più volte nella sua casa in via Santa Sofia. Poi la Grande guerra, con le polemiche tra gli interventisti democratici, i neutralisti, i sindacalisti rivoluzionari, gli anarchici schierati contro il conflitto mondiale. Francesco è sempre in prima fila, grida «Abbasso la guerra, viva l’Austria», viene arrestato più volte.
Chiamato alle armi, fugge in Svizzera, disertore. Nel 1917 è a Zurigo nel corteo festante che accompagna Lenin alla stazione da dove parte il famoso treno per Mosca. Viene arrestato anche in Svizzera, espulso, si rifugia a Parigi, può tornare in Italia solo nel 1920 dopo l’amnistia del governo Nitti.
La bomba del Diana segnerà come un’ombra nera la vita di Ghezzi. È il 23 marzo 1921 quando 160 candelotti di gelatina nascosti in una cesta esplodono alle 22,40 di quella sera: al teatro milanese è di scena Mazurka blu , l’operetta di Franz Lehár. I morti sono ventuno, i feriti ottanta. I sospettati sono subito gli anarchici che prendono le distanze, sconfessano l’accaduto. Ma due di loro confessano: Giuseppe Mariani, condannato all’ergastolo, Giuseppe Aguggini a trent’anni di prigione. Su Francesco Ghezzi — non ci sono prove — viene posta una taglia di cinquanta milioni. Scappa in Svizzera, poi a Berlino. Anni dopo sarà condannato a sedici anni di reclusione per associazione a delinquere.
La Russia è la grande madre, la patria del socialismo, il sol dell’avvenire. Francesco arriva felice a Mosca, ma la realtà, dopo un sereno periodo in Crimea, sarà cruda e amara. Dal 1924 Stalin è il segretario generale del Partito comunista, Francesco Ghezzi lavora in una gioielleria, tornitore di metalli preziosi. Mantiene i contatti con i vecchi compagni fuorusciti come lui e questo lo perde. Nel 1929 viene arrestato, condannato a tre anni di campo di lavoro per attività controrivoluzionaria. Intellettuali e politici di tutto il mondo, da Romain Rolland a Claude Autant-Lara, chiedono il suo rilascio, nel 1931 viene liberato. Lavora in fabbrica. Ha rapporti con Victor Serge, rivoluzionario anarchico, poi bolscevico, oppositore di Stalin proprio negli anni delle feroci purghe staliniane. Nel 1939 Ghezzi finisce alla Lubianka, accusato di trotzkismo, di sovversivismo, ed è condannato a otto anni di lavori forzati.
Tormentato dalla tubercolosi, viene destinato a Vorkuta, a nord del Circolo polare artico. Non rinnega mai la sua fede anarchica. Da allora non si sa più nulla di lui, scompare nelle nebbie della piccola Storia. Muore nel 1942, sarà riabilitato dalla Procura di Mosca solo nel 1994.
Un’altra vittima del tragico Novecento.

Il libro di Carlo Ghezzi, «Francesco Ghezzi, un anarchico nella nebbia», è pubblicato dalle edizioni Zero in condotta, pagine 123, e 10
.......................................................la scheda nel sito Gulag Italia
http://www.memorialitalia.it/archivio_mem/gulag/gulag/frameset_ita.html

Cognome: Ghezzi
Nome: Francesco
Figlio di: Giulio
Luogo e data di nascita: Nato a Cusano Milanino (Mi) il 4 ottobre 1893
Origine sociale e percorso politico prima dell'arrivo in URSS: Di famiglia operaia, inizia a lavorare a 7 anni. Anarchico, subisce vari processi e condanne per disfattismo, organizzazione di scioperi, detenzione di esplosivi. Nel 1914 emigra in Francia per evitare l'arresto, quindi in Svizzera. Tornato a Milano nel 1920, è coinvolto nell'attentato al cinema Diana. Condannato in contumacia a 18 anni e 8 mesi di reclusione,viene inviato in URSS dall'organizzazione anarco-sindacalista milanese, per il 1° congresso del Profintern
Data dell'arrivo in URSS: 1921
Percorso professionale/politico in URSS: Tre mesi dopo l'arrivo a Mosca, si reca a Berlino al Congresso anarchico internazionale, e qui viene arrestato nel 1922. Dopo 9 mesi di carcere, è liberato e nel 1923 torna in URSS. Fino al 1926 vive a Jalta, dove lavora in una comune agricola di emigrati politici anarchici. Quindi è operaio alla "Labormetiz" di Mosca
Data, luogo e motivi dell'arresto: Arrestato l'11 maggio 1929 a Mosca con l'accusa di "aver condotto, in qualità di anarchico militante, propaganda controrivoluzionaria contro il VKP(b) e le autorità sovietiche". Arrestato nuovamente il 5 novembre 1937 e rinchiuso nel carcere interno n. 1 dell'UNKVD di Mosca
Condanna: Condannato a 3 anni di reclusione l'11 gennaio 1930 e inviato al carcere politico di Suzdal'. Dopo il secondo arresto,condannato a 8 anni di lager il 3 aprile 1939 dal PP dell'OSO dell'NKVD dell'URSS in base all'art. 58-10 e inviato al Vorkutlag. Il 13 gennaio 1943 (quando era già deceduto in lager) viene condannato alla pena di morte per partecipazione a un'organizzazione antisovietica
Data, luogo e causa della morte: Muore il 3 agosto 1942 al Vorkutlag
Liberazione: Liberato nel 1931 grazie a una campagna internazionale a suo favore, organizzata da Romain Rolland. Torna a Mosca, lavora nel reparto riparazioni della "Labormetiz" fino al nuovo arresto nel 1937
Riabilitazione: Riabilitato il 21 maggio 1956
Fonti archivistiche: GARF f. 10035 op.1 d.P-27002;
RGASPI f.513 op.2 d.69; ACS, CPC, busta 2357 


.......................................................................................................

Si può vedere inoltre 
Barbara Ielasi Mikhail Tsovma,
'Un anarchico italiano a Vorkuta', Bollettino Archivio G. Pinelli (Milano),  n. 27, luglio 2006,

venerdì 15 novembre 2013

Verso un cambio di regime

La novità non è così dirompente come potrebbe sembrare. Già solo l'apparizione massiccia del Movimento 5 Stelle poteva preannunciare un esito simile. Il sistema politico diventava di colpo tripolare. Si delineava uno scontro tra vecchio e nuovo. Con la rielezione di Napolitano il vecchio aveva in una certa misura ripreso l'iniziativa. Una soluzione possibile ancora a quel punto era una riforma operata dall'alto e dall'interno, i delfini dei responsabili usciti con le ossa rotte dalle elezioni e da precedenti vicende governative o giudiziarie diventavano gli esecutori testamentari di un regime ormai discreditato. La novità vera è questa. Sta fallendo in questi giorni l'operazione volta a realizzare la riforma dall'interno e dall'alto. Le larghe intese, per capirci.
Il governo presieduto da Enrico Letta si regge, come è noto, su una maggioranza duplice. E' sostenuto in pieno solo da una parte finora minoritaria del centrodestra berlusconiano, che nella sua componente maggioritaria si dichiara invece pronto a rompere l'alleanza se dovesse intervenire, come è destinato a intervenire, un voto favorevole alla decadenza di Berlusconi. E' ormai questione di settimane. Il Senato dovrebbe pronunciarsi sulla decadenza di Berlusconi il 27 novembre. Un eventuale rinvio può ancora spostare la scadenza a dicembre inoltrato. A quel punto però saranno comparsi sulla via del governo due ostacoli assai difficili da superare: la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sulla legge elettorale, e soprattutto il Partito democratico si srà dato un  nuovo segretario. In un quadro simile, come ha scritto Giovanni Orsina, "la decisione di Berlusconi di raggiungere Grillo all’opposizione potrebbe far crescere la pressione sul Pd fino a farla diventare insopportabile. Soprattutto nel momento in cui i democratici dovessero avere un leader neoeletto, ambizioso, impaziente, assai poco desideroso – si presume – di immolarsi per un governo che lui, il suo partito e i suoi elettori non considerano cosa propria". Queste le scadenze politiche, se non altro.

crepuscolo nel bosco
crepuscolo
Per capire veramente a che punto siamo, bisogna tuttavia uscire dalla politica politicante. La cosiddetta stabilità tanto decantata da Letta e Napolitano non è un valore assoluto. In una situazione gravemente compromessa ,se la stabilità non si traduce in un'azione rapida e efficace, essa diventa un elemento di freno, perché impedisce di intervenire sul degrado come pure sarebbe possibile fare. Sarebbe invece questo il momento ideale per un appello al paese. Rivolto da chi?  Non certo da uno dei partiti esistenti. La loro credibilità è al punto più basso. Lo stesso Grillo che non ha un potere di coalizione apparirebbe inadeguato al compito. Si va verso un cambio di regime, ora. Chi dirigerà le operazioni, o che piega prenderà il mutamento non è dato sapere. Il vecchio sembra già morto e il nuovo è ancora in fasce, come si sarebbe detto una volta. Visto in questa luce lo stesso travaglio del Pd assume un diverso significato, la struttura fa fatica a liberarsi del vecchio e il nuovo non si presenta sempre in modo rassicurante. Però a una situazione del genere non si sfugge. O la si affronta per quella che è, o si è perduti, ancora più perduti. Il tempo della grande prova sta per iniziare.

mercoledì 13 novembre 2013

Guido Crainz, Diario di un naufragio: una anticipazione

Diario di un naufragio di Guido Crainz, editore Donzelli, pagg. 255 euro 19,50 In libreria da oggi 
la Repubblica, 13 novembre 2013

Nel crollo della prima Repubblica ci si illuse che le colpe fossero solo di un ceto politico incapace e corrotto, e che ad esso potesse contrapporsi una virtuosa società civile: oggi nessuno può avere questa illusione e ci si interroga semmai su quanto sia profondo e irrimediabile l’inabissarsi di entrambi. E se sia possibile costruire qualche vascello, anche di fortuna, per riprendere il mare. Se nel corpo del paese ve ne sia sufficiente desiderio e forza, prima ancora che la possibilità. [...] Dalla cronaca prendono inevitabilmente avvio molte riflessioni: alla storia però, alla nostra storia, fortissimamente rimandano un crollo così rovinoso del sistema politico e una involuzione così profonda del paese. E il nesso fra cronaca e storia è centrale: proprio quel nesso può aiutare a muoversi fra le nebbie, e spesso fra le melme, della seconda Repubblica. Nebbie e melme che hanno radici negli stessi processi che portarono al crollo della prima: gli stessi che presiedettero poi a una transizione illusoria e fallimentare. E rimandano ancor più all’indietro: rimandano, a dirla in breve, alla qualità stessa — o meglio, alle contraddizioni e ai guasti — della modernizzazione italiana, e al rapporto fra istituzioni, sistema politico e paese. All’evolversi o al degradare di questo rapporto nel corso dei decenni.
Al centro vi è dunque una seconda Repubblica fallita e forse mai nata: illuminata però anche da speranze e impegni civili, ansie di rinnovamento e di trasformazione. Sempre più flebili, col passare del tempo: perché? Questa domanda è diventata via via centrale in una riflessione che era nata come tentativo di cogliere i tratti profondi della stagione berlusconiana, il suo significato, il suo collocarsi nella più lunga storia della Repubblica. Di comprendere, anche, le ragioni del suo permanere: le sue radici e al tempo stesso le deformazioni che ha indotto e induce nel corpo vivo della nostra società. Il suo rafforzare e al tempo stesso rimodellare processi già avviati nel corso degli anni Ottanta: con lo sprezzo crescente dei valori e dei vincoli collettivi, con il primato del “sé” sul bene pubblico, con l’erosione quotidiana delle norme elementari di legalità e diritto. Perché però questi processi hanno trovato così deboli anticorpi? Perché la stagione di Berlusconi, più volte erosa da se stessa — dalle sue incapacità e dalla miseria del suo illusionismo — ha potuto protrarsi così a lungo, inducendo stravolgimenti gravi nel funzionamento delle istituzioni? Stravolgimenti, anche e soprattutto, nella cultura del paese: vent’anni fa il primo avviso di garanzia già incrinò la credibilità di Bettino Craxi, oggi una condanna definitiva è sembrata sostanzialmente irrilevante a una parte non piccola degli italiani. Senza contare quelli che la considerano semplicemente iniqua.
Questi erano e sono dunque i nodi centrali che portano a una riflessione sempre più insistita sulla inadeguatezza della sinistra. Sulla sua incapacità di opporsi davvero a queste derive e al tempo stesso progettare il futuro, delineare un modo diverso di “essere italiani”, restituire ai cittadini la fiducia nella democrazia: una fiducia gravemente erosa da una “partitocrazia senza partiti” povera o priva di etica. Come neIl rinoceronte di Eugène Ionesco la mutazione sembra quasi senza scampo: così appare, perlomeno, a quella metà degli italiani che è rifluita nell’astensione o ha votato per il Movimento 5 Stelle. E non solo a loro. Come si è giunti al deserto di oggi? E vi è qualche possibile via d’uscita?
Non è certo facile uscire dal disorientamento o dal rimpianto per quel grande e articolato mondo che è stata la sinistra italiana, con le sue passioni e i suoi miti, le sue generosità e i suoi slanci (senza dimenticare naturalmente i suoi errori e le sue colpevoli rimozioni). Si fa fatica a districarsi fra culture differenti, da quella comunista a quella azionista, e fra l’accumularsi di crisi diverse: certo è che alla seconda Repubblica approda una sinistra ormai priva di alcuni suoi tratti fondamentali e fondanti. Già negli anni Settanta del resto — cioè nel momento della sua massima espansione e del suo maggior prestigio — erano entrati progressivamente in crisi alcuni suoi architravi tradizionali: dai riferimenti internazionali alla centralità ed egemonia della classe operaia (apparentemente trionfante, allora, ma quasi espulsa poi dal discorso pubblico in un brevissimo volger di tempo). Sino all’idea stessa di progresso, di sviluppo lineare e senza limiti, che stava al fondo già del socialismo ottocentesco: su questo terreno la crisi petrolifera sancisce uno spartiacque epocale (forse inavvertito, allora, nella sua interezza). Ce n’è d’avanzo: negli anni Ottanta la sinistra si trova a navigare nei flutti impetuosi del neoliberismo e nella crisi del welfare senza più rotta. E con un elemento ancor più profondo di spaesamento. A dirla in breve: negli anni Ottanta la modernità inizia a non portare più “automaticamente” con sé l’allargamento dei diritti collettivi, della partecipazione dei cittadini, delle acquisizioni sociali. L’innovazione sembra separarsi dal progressismo politico, il vento della modernizzazione e quello del progresso civile non soffiano necessariamente insieme. È messo in discussione in più forme, insomma, il coniugarsi stesso della sinistra al mutamento e alla speranza di trasformazione: e contemporaneamente la sua “diversità” inizia ad appartenere al passato. Nel crollo della prima Repubblica, poi, la sinistra manca in gran parte alla prova, incapace com’è di rinnovare realmente la politica e il proprio modo di essere: destinata dunque ad apparire a molti elettori come l’ultima espressione di un sistema dei partiti fallito. L’ultima incarnazione del vecchio: poco convincente e poco attrattiva anche quando l’illusorio nuovo del centrodestra mostra tutta la sua miseria. 

martedì 12 novembre 2013

Giulio Sapelli sulle grandi manovre in Europa

Alberto Brambilla 
Da Madrid fino a Mosca, un’alleanza per contenere Berlino 
Il Foglio, 12 novembre 2013


Oggi il presidente francese, François Hollande, incontrerà a Parigi il cancelliere tedesco Angela Merkel. Insieme a 22 leader europei, i due capi di stato cercheranno di dare seguito al piano di contrasto alla disoccupazione giovanile in Europa inaugurato in estate tra le perplessità di molti osservatori. Prima discusso al Consiglio Ue di giugno e poi a Berlino in luglio, il piano ora potrebbe prevedere lo stanziamento di 45 miliardi di euro a favore di 6 milioni di giovani disoccupati. Resta la critica a un approccio emergenziale, incapace di aggredire la crisi del mercato del lavoro in modo strutturale ma solo con provvedimenti spot. Approccio che anche il settimanale Economist definì fallimentare. Di certo si tratta dell’ennesimo dossier europeo, e nemmeno il più sensibile, dove le alleanze nazionali si mostrano evanescenti, considerati sia il deterioramento del tandem franco-tedesco sia le critiche montanti circa una soffocante gestione germanica delle cose europee che spinge diversi autorevoli commentatori a invocare alleanze variabili tra paesi membri dell’Unione europea per contenere Berlino.
“E’ un’esigenza geostrategica quella di creare una unità diplomatica tesa a indebolire diplomaticamente la Germania, che sta portando l’Europa verso la desertificazione economica per effetto di una politica deflazionistica con l’imposizione di politiche di austerità fiscale”, dice al Foglio Giulio Sapelli, storico dell’Economia dell’Università statale di Milano. Sapelli si riferisce all’idea di un’Europa “latina” che si esprime in un’alleanza dei paesi del sud. Concetto che – secondo Sapelli – nasce dal filone teorico inaugurato dal giurista Giuseppe Guarino, recentemente ripreso sul Messaggero dall’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi, e in seguito attualizzato con le analisi dell’economista di Edison, Marco Fortis sullo stesso quotidiano (“Francia, Spagna e Italia con un pil complessivo di 4,6 trilioni di euro, 2 trilioni più alto di quello tedesco, avrebbero i numeri per convincere Bruxelles”).
Sapelli ritiene però che un’alleanza degli stati mediterranei (Spagna, Grecia, Italia) con l’appoggio della Francia (“paese continentale”) sarebbe “troppo debole” per contrastare la potenza tedesca: “Si potrebbe riequilibrare il peso se si aggiungesse un’alleanza geostrategica con la Russia: un alleato formidabile”. “Dal punto di vista economico ha un’estrema rilevanza perché il 40 per cento dell’energia europea arriva da Mosca. Stiamo litigando anche con la Russia per una politica energetica folle dell’Ue, che sta provocando le proteste da parte delle compagnie energetiche del Vecchio continente, comprese quelle tedesche, ormai contrarie a una politica di liberalizzazione protezionistica di Bruxelles”, dice Sapelli che concorda con quanto suggerito a proposito dall’ad di Eni Paolo Scaroni sul Financial Times (con la richiesta di riallacciare i rapporti euro-russi, definì la Russia il “Texas d’Europa” facendo un parallelo con gli Stati Uniti che grazie allo sfruttamento dello shale gas si sono garantiti un volano per la crescita). “Bisogna riprendere il concetto del gollismo francese di un’Europa che si estende dall’Atlantico agli Urali – dice Sapelli – perché se questa idea non si realizza, la Russia guarderà ancor più d’oggi verso la Cina. Per l’Europa sarebbe finita, sarebbe nelle mani di una Germania desertificante”.
E forse non è un caso che il presidente russo Vladimir Putin abbia invitato al recente meeting del Valdai Club, dove la diplomazia di Mosca si confronta con personalità dell’economia e della politica internazionale, sia Romano Prodi sia l’ex primo ministro francese, François Fillon. Se l’imprinting francese è evidente, come ricorda Sapelli, è possibile che la Francia sia disposta a creare nuove intese e rinnegare definitivamente il suo rapporto con Berlino? “Il patto franco-tedesco è sempre possibile. C’è posto per un accordo franco-tedesco e per un’alleanza italo-spagnola-franco-russa che prema su Berlino. Una cosa non esclude l’altra dal momento che le alleanze diplomatiche non sono mai a somma zero ma si costruiscono con una geometria variabile, come ci ha insegnato Kissinger”. Ma come fare concretamente per riformare un’Europa che non riesce a garantire prosperità e crescita? “Bisogna chiedere una riunione straordinaria della Commissione europea, rinegoziare i trattati che sono stati traditi, come ha dimostrato il professor Guarino nei suoi scritti, tornare allo spirito originario di Delors, e dare potere al Parlamento europeo affinché non si dipenda più dalla Commissione. Questo permetterebbe alleanze variabili, toglierebbe potere alla tecnostruttura di Bruxelles e porrebbe le basi per una confederazione europea, e non una federazione. Bisogna ridisegnare l’architettura intera perché questa, così com’è, è fallita. Se non vogliamo creare una nuova Weimar europea, cui siamo vicini, bisogna fare in fretta e rivedere tutti i sistemi di potere del continente”.

venerdì 8 novembre 2013

Come Orlando s'innamora

In questi tempi frettolosi l'attenzione minuta di un grande scrittore per l'eredità culturale acquista un significato nuovo. Chi siamo, da dove veniamo, che cosa possiamo sperare: a queste domande si può trovare risposta tornando ogni tanto con amoroso puntiglio sui nostri passi per ritemprare le energie e andare con altro animo incontro al futuro.

Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino
1970 


Tra gli intellettuali e le produzioni artistiche popolari c'è sempre stato (e c'è più che mai nel 
nostro secolo, con le moderne forme dì «cultura di massa» e soprattutto il cinema) un rapporto mutevole: dapprima di rifiuto, di sufficienza sdegnosa, poi d'interesse ironico, poi di scoperta di 
valori che invano si cercano altrove. Finisce che l'uomo colto, il poeta raffinato s'appropria di 
ciò che era divertimento ingenuo, e lo trasforma.
Cosi fu della letteratura cavalleresca nel Rinascimento. Quasi contemporaneamente, nella
seconda metà del XV secolo, nelle due corti più raffinate d'Italia, quella dei Medici di Firenze e
quella degli Este di Ferrara, la fortuna delle storie di Orlando e di Rinaldo risalì dalle piazze agli
ambienti colti. A Firenze fu ancora un poeta un po' alla buona, Luigi Pulci (1432-84) che (pare su
commissione della madre di Lorenzo il Magnifico) mise in rima avventure già note ma con un
proposito caricaturale. Tanto che il suo poema prese nome non dai paladini protagonisti, ma da
una delle grottesche figure di contorno, Margutte, un gigante vinto da Orlando e diventato suo
scudiere.
A Ferrara, un dignitario della corte estense, Matteo Maria Boiardo conte di Scandiano (1441-94)
si rivolse alla epopea cavalleresca con uno spirito distaccato anch'egli, ma venato dalla
malinconica nostalgia di chi, scontento del suo tempo, cerca di far rivivere i fantasmi del passato.
Alla corte dì Ferrara erano molto letti i romanzi del ciclo brètone, tutti incantesimi, draghi, fate,
prove solitarie di cavalieri erranti; la contaminazione tra queste vicende fiabesche e l'epica
carolingia era già avvenuta in qualche poema francese e in molti cantari italiani; in Boiardo i due
filoni hanno il loro primo incontro con la cultura umanistica che tende a ricongiungersi, al di là
del Medioevo, ai classici dell'antichità pagana. I mezzi tecnici del poeta sono però ancora
primitivi, la vitalità generosa che i suoi versi comunicano viene in gran parte dal loro sapore
acerbo. L'Orlando innamorato, lasciato incompiuto alla morte dell'autore, è un poema dalla
versificazione rozza, scritto in un italiano incerto e che sconfina di continuo nel dialetto. La sua
fortuna fu anche la sua sfortuna; l'amore che altri poeti gli tributarono fu tanto carico di
sollecitudine a portargli aiuto, come a creatura inadatta a vivere con le sue forze, che finì per farlo
eclissare e scomparire dalla circolazione. Nel Cinquecento, ristabilitosi il primato dell'uso toscano
nella lingua letteraria, il Berni riscrisse tutto l'Orlando innamorato in «buona lingua», e per tre
secoli il poema non fu ristampato se non in questo rifacimento, finché nell’ottocento non fu
riscoperto il testo autentico, il cui valore per noi sta proprio in ciò che i puristi censuravano:
l'essere un monumento dell'italiano diverso che nasceva dai dialetti della pianura padana.
Ma soprattutto l'Innamorato fu oscurato dal Furioso, cioè dalla continuazione che Ludovico
Ariosto intraprese a scrivere una decina d'anni dopo la morte del Boiardo, una continuazione che
fu subito tutt'altra cosa: dalla ruvida scorza quattrocentesca il Cinquecento esplode come una
lussureggiante vegetazione carica di fiori e di frutti.
Questa fortuna-sfortuna continua: eccoci qui a parlare dell’Innamorato solo come d'un
«antefatto» al Furioso, a sbrigarcene come in un «riassunto delle puntate precedenti». Sappiamo
di fare cosa sbagliata e ingiusta: i due poemi sono due mondi indipendenti; eppure non possiamo
farne a meno.
L'Orlando della tradizione, come s'è detto, aveva tra i suoi pochi tratti psicologici quello d'essere
casto e inaccessibile alle tentazioni amorose. La «novità» del Boiardo fu di presentare un Orlando
innamorato. Per catturare i paladini cristiani, e soprattutto i due cugini campioni, Orlando e
Rinaldo, Galafrone re del Cataio (ossia della Cina) ha mandato a Parigi i suoi due figli: Angelica,
bellissima ed esperta nelle arti magiche, e Argalia, guerriero dalle armi fatate e dall'elmo a prova
d'ogni lama. Come se non bastasse hanno anche un anello che rende invisibili.
Argalia lancia una sfida: chi riuscirà a disarcionarlo avrà sua sorella, e chi sarà disarcionato da lui
diventerà suo schiavo. Appena vedono Angelica, tutti i cavalieri presenti, cristiani e infedeli (è la
tregua di Pasqua e sono tutti convenuti a un torneo), s'innamorano; perfino re Carlo perde la testa.
Argalia, dopo una serie di duelli fortunati, viene ucciso dal saraceno Ferraù (qui chiamato
Feraguto), ma a contendere la bella preda al vincitore sopraggiunge Orlando. Angelica ne
approfitta per fuggire, rendendosi invisibile, invano inseguita da Rinaldo (qui chiamato Ranaldo o
Rainaldo). Fuggendo, Angelica, assetata, beve a una fontana magica: è la fonte dell'amore; la
bella s'innamora di Rinaldo. Rinaldo beve anche lui a una fontana incantata, ma è quella del
disamore: da innamorato che era diventa nemico di Angelica e la sfugge. Angelica, che non può
vivere senza Rinaldo, lo fa rapire da una barca fatata, ma lui non ne vuoi sapere e dopo varie
avventure da un'isola all'altra riesce a sfuggirle. Ritiratasi nel Cataio, nella fortezza di Albraca o
Albracà, Angelica viene assediata da Agricane re dei Tartari e da Sacripante re dei Circassi,
anch'essi innamorati sfortunati. Il primo ha la meglio, ma in difesa di Angelica accorre Orlando,
sempre innamorato e sfuggito ad altri incantesimi. Duella un giorno e una notte con Agricane e
l'uccide. Questo duello (libro primo, canti XVIII-XIX) è giustamente l'episodio più ammirato del
poema: a un certo punto, stanchi di duellare i due campioni si sdraiano sull'erba a guardare le
stelle: Orlando parla di Dio ad Agricane che rimpiange d'esser sempre stato un grande ignorante;
ripreso il duello all'alba, Agricane ferito a morte chiederà il battesimo al suo avversario.
Raccontare le battaglie e i duelli attorno ad Albracà è difficile perché si sovrappongono sempre
nuovi eserciti e nuovi campioni, tra i quali Galafrone padre d'Angelica che vuoi vendicare il
figlio ucciso, Marfisa regina delle Indie che non si toglie mai le armi di dosso, e combattono allo
stesso tempo ognuno una sua guerra particolare, con frequenti scambi di nemici e d'alleati. Arriva
anche Rinaldo, odiando Angelica, per impedire al cugino Orlando di perdersi dietro quella vana
passione. Angelica si fa difendere da Orlando (il quale, da quel perfetto cavaliere che è, si guarda
bene dal toccarla), ma pensa solo a salvare la vita di Rinaldo dalla gelosia (immotivata) di
Orlando. Innumerevoli storie secondarie di fate e giganti e incantesimi si diramano dalle vicende
principali: per esempio Angelica riesce a distogliere Orlando dalla contesa contro Rinaldo
incaricandolo della difficile impresa di sfatare un giardino incantato.
Mentre i paladini scorazzano per l'Oriente, la Francia è insidiata da sempre nuove invasioni.
Prima era stato Gradasso re di Sericana che era riuscito a far prigioniero lo stesso re Carlo, ed era
stato poi sconfitto da Astolfo, entrato in possesso, senza darsene conto, della lancia fatata del
defunto Argalia. Poi è Agramante re d'Africa che fa sbarcare re Rodomonte (qui chiamato
Rodamonte) in Provenza e fa scavalcare i Pirenei a re Marsilio (su istigazione del solito Gano di
Maganza). Rinaldo torna a dar man forte a Carlo in pericolo, e Angelica gli corre dietro facendosi
seguire da Orlando. Passano davanti alle due fontane incantate, e stavolta è Angelica che beve
alla fonte dell'odio e Rinaldo a quella dell'amore. Orlando e Rinaldo sono di nuovo rivali; in un
momento tanto grave per le armi cristiane i due cugini non pensano che alla loro contesa.
Re Carlo allora si propone come arbitro: Angelica sarà tenuta in custodia dal vecchio duca Namo
di Baviera e verrà assegnata a quello dei due campioni che avrà più valorosamente combattuto
contro gli infedeli. E' a Montalbano presso i Pirenei che avviene la battaglia decisiva: decisiva
soprattutto perché - sebbene il poema di Boiardo continui ancora per qualche canto narrando
l'assedio di Parigi - è da questa battaglia che Ariosto prenderà le mosse del suo poema
riallacciando le fila dei vari personaggi. E decisiva anche perché è in questa battaglia che
Ruggiero, cavaliere saraceno discendente da Ettore di Troia, incontra la guerriera cristiana
Bradamante (qui chiamata Bradiamonte o Bradiamante o Brandimante o Brandiamante), sorella
di Rinaldo, e da nemici che erano si ritrovano innamorati.
L'episodio è importante perché era intento del Boiardo (pare su esplicita commissione di Ercole I
d'Este) convalidare la leggenda che la Casa d'Este traesse origine dalle nozze di Ruggiero di Risa
e Bradamante di Chiaromonte. A quel tempo una genealogia, anche se immaginaria, aveva
grande peso: i nemici degli Estensi avevano diffuso la diceria che i signori di Ferrara
discendevano dall'infame traditore Gano di Maganza; bisognava correre ai ripari. Boiardo
introdusse questo motivo genealogico quando il suo poema era già molto avanti, e non ebbe
tempo di svilupparlo; toccherà ad Ariosto portarlo a compimento. Ma nel frattempo a Ercole I,
che pareva ci tenesse molto, erano successi i figli, Alfonso I e il cardinale Ippolito, che di queste
fantasie poco si curavano. E Ariosto, del resto, non aveva certo lo spirito del cortigiano adulatore;
pure tenne fede al compito che s'era prefisso con scrupoloso impegno. Aveva le sue buone ragioni
per farlo. Primo, che era un motivo narrativo di prim'ordine: i due innamorati che sono leali
combattenti di due eserciti nemici e perciò non riescono mai a tradurre in realtà il destino nuziale
che è stato loro assegnato; e secondo, che questo lo portava a legare il tempo mitico della
cavalleria con le vicende contemporanee, col presente di Ferrara e dell'Italia.

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L'incipit dell'Orlando innamorato è questo: 

Signori e cavallier che ve adunati
Per odir cose dilettose e nove,
Stati attenti e quïeti, ed ascoltati
La bella istoria che 'l mio canto muove;
E vedereti i  gesti smisurati, 
L'alta fatica e le mirabil prove
Che fece il franco Orlando per amore
Nel tempo del re Carlo imperatore.

Quello dell'Orlando furioso invece è il seguente:

Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l'ire e i giovenil furori
d'Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.