Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore...
ma non vi danno un po' di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà
si che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po' da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare.
mercoledì 31 luglio 2013
La fantascienza: Urania e oltre
Giuseppe Lippi
L'Indice, 22 luglio 2013
L'Indice, 22 luglio 2013
Tempo fuori luogo di Philip K. Dick, Cyberiade di Stanislaw Lem, Anni senza fine di Clifford Simak, Drive-in di
Joe R. Lansdale: sono soltanto alcuni dei classici della fantascienza
oggi ripubblicati, rispettivamente, da Sellerio, Marcos y Marcos, Nord
ed Einaudi che hanno visto originariamente la luce su “Urania”. Quando
una collana editoriale vanta milleseicento titoli in un catalogo che
spazia per oltre mezzo secolo e altri cinquecento tra ristampe, volumi
apparsi in collane satelliti e supplementi, smette di essere soltanto
una serie periodica (per giunta umilmente venduta nelle edicole) e
diventa patrimonio collettivo. È il caso di “Urania”, la più longeva
collana italiana di fantascienza, fondata nel 1952 da Giorgio Monicelli,
nipote acquisito di Arnoldo Mondadori, e dal secondo figlio
dell’editore, Alberto. I due cugini diedero vita a un nuovo tipo di
periodico italiano, sull’esempio delle riviste americane di science fiction,
e inventarono la parola “fantascienza”, un conio che era stato
anticipato soltanto dalla rivistina amatoriale “Fantascience Digest”,
edita negli Stati Uniti tra il 1937 e il 1941. Di quel periodico
ciclostilato e oggi rarissimo, nei giorni di Internet esiste una voce
completa su Wikipedia, ma ci si chiede quanto possa essere stato
familiare a Monicelli e Mondadori nel 1952. Influenzati o no dal
neologismo americano (e però di gusto classico), l’editore e il primo
curatore di “Urania” permisero al romanzo di fantascienza moderno di
diffondersi sul nostro mercato. Da allora la loro collezione, diretta
successivamente dalla coppia Fruttero & Lucentini, da Gianni
Montanari e dal sottoscritto, ha continuato a stuzzicare l’immaginazione
di migliaia di lettori, fino a toccare il traguardo dei sessantun anni
di pubblicazioni ininterrotte.
È
evidente come un arsenale del genere fosse destinato a diventare
sinonimo di utopia, inventiva e futuribile: per questo, fin dai primi
anni della sua vita editoriale, “Urania” non ha mai smesso di
influenzare altre collezioni con spunti, idee e una quantità di titoli
migranti. L’esodo di autori e romanzi tradotti originariamente sulle sue
pagine e passati nei cataloghi di altri editori è tanto vario quanto
vasto. La prima a riproporre i propri classici fu “Urania” stessa, che
negli anni sessanta creò la vetrina dei “Capolavori”, cioè ristampe dei
migliori titoli della fase pionieristica. Successivamente apparvero i
“Classici Urania”, una collana durata dal 1977 agli anni Duemila, cui
sarebbe seguita l’attuale “Urania collezione”.
Questo gusto di riscoprire il passato,
di ritrovare il meglio di un genere alonato di leggenda nella memoria
dei lettori, ha avuto conseguenze molto importanti tra la fine degli
anni sessanta e l’inizio dei settanta. In quel periodo alcuni editori di
battaglia diedero il via a collane rilegate o librarie volte a
presentare la science fiction a un pubblico ormai maturo. Scoppiò
la febbre delle traduzioni integrali, con il restauro dei vecchi
caposaldi spesso maltrattati o sunteggiati nelle versioni da edicola.
Prima l’esclusiva Libra di Bologna, poi la Nord di Milano e quindi, a
Roma, la Fanucci attinsero a piene mani, quando poterono, ai testi della
fantascienza eroica che la collana di Monicelli aveva divulgato
quindici o vent’anni prima. Le traduzioni vennero rifatte o aggiornate,
mentre in qualche caso si assisté al fenomeno delle versioni gonfiate,
il contrario di quelle adattate degli anni cinquanta: libri dove non
solo non si espungeva una virgola rispetto all’originale inglese, ma
addirittura si aggiungeva del proprio, chiamando in causa (a proposito e
a sproposito) non so quale lezione di Vittorini.
Fu una stagione folle e indimenticabile. Da ancella dei chioschi, per più di un decennio la science fiction diventò
un settore che “tirava” in libreria. La sovrapproduzione divenne
spaventosa, le collane specializzate si distinguevano per i marchi
d’argento e d’oro, questi ultimi riservati alle ristampe tratte da
“Urania” o da altri corni dell’abbondanza. Non che non ci fossero state,
in passato, altre iniziative librarie, a partire dalle antologie
einaudiane a cura di Sergio Solmi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini (Le meraviglie del possibile, 1959; Il secondo libro della fantascienza,
1961), per continuare con le pregevoli collezioni dello Science Fiction
Book Club di Piacenza, dirette da Roberta Rambelli: ma erano state
mosche bianche. Negli anni settanta e ottanta, invece, editori diversi
come Dall’Oglio e Sugar, Meb e Sonzogno, Nord e Fanucci (oltre,
naturalmente, alla stessa Mondadori, che nel 1963 aveva lanciato una
serie di antologie rilegate tratte dal catalogo di “Urania”, gli
“Omnibus fantascienza” a cura di Fruttero & Lucentini) portarono i
classici e le ultime novità del genere ovunque.
I
giornali ne parlavano volentieri, i dibattiti si accendevano su autori e
tendenze, le riviste letterarie e politiche si disputavano gli
approfondimenti su un genere che non solo commentava ma, in un certo
senso, creava il futuro. Forse per l’ultima volta prima del boom
informatico di metà anni ottanta, che avrebbe costretto a ripensare
tutto, sembrò davvero che la science fiction fosse la chiave per
entrare materialmente nel mondo nuovo, con la testa e non solo con i
piedi. E già i film di Kubrick della trilogia avveniristica, Il dottor Stranamore, 2001 odissea nello spazio e Arancia meccanica,
avevano dipinto un domani prossimo venturo che in qualche modo era
ormai arrivato, o un avvenire grandioso nel cosmo che sembrava in linea
con il pensiero immaginoso di Gerard O’Neill, l’autore di Colonie umane nello spazio, e di Stanislaw Lem, l’autore polacco di Solaris. Non dimentichiamo che proprio mentre in Italia usciva 2001,
per il Natale 1968, tre uomini a bordo dell’Apollo 8 circumnavigavano
per la prima volta la luna, e che il 21 luglio dell’anno successivo Neil
Armstrong e Edwin Aldrin vi sarebbero scesi davvero.
In quel periodo d’entusiasmo, e negli
anni che seguirono, le ristampe dal catalogo di “Urania” riproposero
l’aspetto più spettacolare della fantascienza, quello che aveva fatto la
fortuna del genere negli anni cinquanta, anche se non necessariamente
il più aggiornato. La Libra ritradusse City di Simak, cioè Anni senza fine,
un’elegia del lontano futuro che si risolve con la dispersione
dell’umanità in una serie di mondi nascosti e privati; la Fanucci rifece
Crociera nell’infinito di A. E. van Vogt, forse la più
elettrizzante “space opera” degli anni quaranta, fonte di ispirazione
per i futuri film di mostri nello spazio come Alien; la Nord ripropose Schiavi degli invisibili di
Eric Frank Russell, un romanzo del 1939 che illustrava la teoria
paranoide di Charles Fort secondo cui noi esseri umani saremmo il
bestiame di più evoluti e invisibili horlà. Insomma, mentre nel campo
della fantascienza nuova e aggiornata si cominciavano a riscoprire
Philip K. Dick e Lem, Robert Silverberg e il Kurt Vonnegut delle Sirene di Titano,
quando si trattava di conquistare le simpatie degli appassionati, lo
zoccolo duro della fantascienza, non si poteva sbagliare. Un classico
degli anni trenta-quaranta, importato da “Urania” nei cinquanta e
ritradotto per la gioia dei lettori dei settanta.
Ma
poi questa situazione finì, e del resto già gli “Omnibus” di Fruttero
& Lucentini avevano privilegiato un altro genere di produzione,
quella più moderna degli anni sessanta, saccheggiando il catalogo
recente di “Urania”. A metà anni ottanta i due torinesi abbandonarono la
direzione della loro collana e un’altra rivoluzione, quella del
computer domestico, mutò ancora una volta la faccia del presente, quindi
del futuro. Niente sarebbe stato più come prima: videoscrittura,
televisione ventiquattr’ore su ventiquattro e negli anni novanta
Internet, i telefoni cellulari. Un modo di vivere avveniristico e sempre
più dispendioso, che tuttavia non aveva alle spalle la spinta ideale
dei tre decenni precedenti, ma anzi una rigida programmazione
neo-capitalista. Quando Sellerio, negli anni novanta, provò a tradurre
alcuni titoli di fantascienza letteraria, alcuni li ripescò anche dal
catalogo di “Urania” e non furono certo titoli trionfalistici: Orfani del cielo alias Universo di
Robert A. Heinlein postulava il volo in un’astronave tanto grande da
essere scambiata, dai suoi occupanti, per il mondo, anzi l’universo
intero: si potrebbe chiamarlo il classico della science fiction claustrofobica. L’anno successivo (1996) lo stesso editore ripropose un gioiellino dei primi anni sessanta, Il viaggio di Joenes di
Robert Sheckley, opportunamente ritradotto e manifestamente cinico: un
“viaggio sentimentale nel lontano Ventesimo secolo”, una crociera per il
mondo dorato del consumismo e delle promesse pubblicitarie. Terzo e
importante recupero da “Urania” fu L’uomo dei giochi a premio di Philip K. Dick, dato in questa versione con il titolo Tempo fuori luogo (1959):
un incubo che promette lo sfaldarsi del reale quotidiano a favore di
“giochi” apocalittici manovrati dal futuro. L’errore di Sellerio, se
vogliamo definirlo così, fu di inserire questi capolavori in una collana
segregata, dedicata appunto alla fantascienza. Andarono male. Liberati
dalla gabbia e immessi nella fortunata collezione della “Memoria”,
alcuni di essi continuano a essere goduti dai lettori ancora oggi.
Negli anni Duemila, numerosi editori
letterari hanno accolto la celestiale eredità di “Urania”, soffermandosi
anche sulla produzione più recente: Marcos y Marcos ha riproposto la Cyberiade e altri titoli di Stanislaw Lem, Einaudi si è portato a casa il dittico del Drive-in di
Joe R. Lansdale (un autore che noi avevamo importato in Italia nel
1993), Fazi ha volto le sue attenzioni a Ray Bradbury e Fanucci a
Richard Matheson, tutti capisaldi della gloriosa collezione
fantascientifica. E intanto almeno un autore italiano, apparso per la
prima volta su “Urania” nel 1994, conquistava i vertici di una meritata
popolarità nel campo dell’utopia fantastorica: Valerio Evangelisti. Ma
quello è uno scrittore che Mondadori si tiene gelosamente in casa.
lunedì 29 luglio 2013
Una rivista, uno stile: Carlo Ferdinando Russo
Il comunicato della Scuola Normale
E’ scomparso oggi Carlo Ferdinando Russo, filologo classico, grande umanista, allievo della Scuola Normale dal 1939 al 1943 (Corso ordinario) e dal 1945 al 1946 (Perfezionamento). Direttore dal 1961 della rivista “Belfagor”, Carlo Ferdinando Russo è stato per generazioni di studiosi una coscienza critica di grande respiro e ha lasciato una traccia durevole negli studi di greco: soprattutto Aristofane, Giuliano, Omero. A lungo docente di Letteratura greca all’Università di Bari (di cui era docente emerito), Carlo Ferdinando era figlio di Luigi Russo, critico letterario e italianista che diresse la Scuola Normale negli anni Quaranta.
Pisa, 26 luglio 2013
----------------------------------------------------
La chiusura della rivista
Mirella Appiotti
La Stampa, 8 settembre 2012
La Olschki, Costanza prima di tutti, ci ha provato in ogni modo, a fare «resistenza».
La più aristocratica editrice italiana lo tiene tra i suoi gioielli. Il mondo degli studi lo annovera tra i suoi sinora irrinunciabili punti di riferimento. A diversi livelli, il mondo della cultura (quel che ne resta nel nostro Paese) ha già dimostrato il proprio dispiacere. Perché, da Bari, la decisione di Carlo Ferdinando Russo è irrevocabile: Belfagor, la «rassegna di varia umanità» fondata da suo padre, l’italianista princeps Luigi Russo (con Adolfo Omodeo) e poi lungamente guidata dal grande «Lallo», filologo classico, instancabile, vulcanico, geniale-rigorosissimo maieuta che l’ha mantenuta sino a oggi alla massima tensione, chiude con il numero del 28 novembre, dopo 66 anni e 400 fascicoli bimestrali (maniacalmente puntuali), abbonamenti in 80 nazioni, «fascia A» nella valutazione internazionale.
Un addio meditato, reo il tempo «che fugge» (non i «conti», buoni persino nella crisi, né certo la mancanza di interlocutori), mentre intatto resta quell’«aroma infernale» (machiavellico) ampiamente gustato da Garin nei Novanta ma che già, dalla prima uscita il 15 gennaio 1946, con la sua testata irrispettosa («mi pare che come titolo laico possa andare sempre»: Luigi Russo a Croce), laica alla maniera di chi non ha bisogno dell’accademia, ha attratto i maestri e i futuri leader del sapere a cominciare da Cantimori e Pampaloni, Natta, Carlo Levi, Ragghianti, poi Ceserani, Terracini sino a Segre, a Mario Isnenghi, in questi ultimi tempi condirettore della rivista, a Antonio Resta, cui si deve anche la curatela, recentissima, degli Indici 1946-2010 aperti dalla «voce» di Carlo Ferdinando Russo.
Il suo Congedo è una vitalissima summa dell’avventura che nei decenni ha esplorato italianistica e letterature straniere, filosofia e cinema, filologia, educazione, politica - fuori dalla politica, nessun moralismo, funambolismo mai gratuito, con la miriade di documenti (e la parabola si chiude come era iniziata: l’ultimo Belfagor porta una lettera inedita di Croce), le famose rubriche al vetriolo, Minima personalia, frutto non di malizia ma di totale libertà, «un rempart contre les abus de l’industrie culturelle», come sigillava Le Monde nel ’69. Un viatico, non un «congedo».
E’ scomparso oggi Carlo Ferdinando Russo, filologo classico, grande umanista, allievo della Scuola Normale dal 1939 al 1943 (Corso ordinario) e dal 1945 al 1946 (Perfezionamento). Direttore dal 1961 della rivista “Belfagor”, Carlo Ferdinando Russo è stato per generazioni di studiosi una coscienza critica di grande respiro e ha lasciato una traccia durevole negli studi di greco: soprattutto Aristofane, Giuliano, Omero. A lungo docente di Letteratura greca all’Università di Bari (di cui era docente emerito), Carlo Ferdinando era figlio di Luigi Russo, critico letterario e italianista che diresse la Scuola Normale negli anni Quaranta.
Pisa, 26 luglio 2013
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La chiusura della rivista
Mirella Appiotti
La Stampa, 8 settembre 2012
La Olschki, Costanza prima di tutti, ci ha provato in ogni modo, a fare «resistenza».
La più aristocratica editrice italiana lo tiene tra i suoi gioielli. Il mondo degli studi lo annovera tra i suoi sinora irrinunciabili punti di riferimento. A diversi livelli, il mondo della cultura (quel che ne resta nel nostro Paese) ha già dimostrato il proprio dispiacere. Perché, da Bari, la decisione di Carlo Ferdinando Russo è irrevocabile: Belfagor, la «rassegna di varia umanità» fondata da suo padre, l’italianista princeps Luigi Russo (con Adolfo Omodeo) e poi lungamente guidata dal grande «Lallo», filologo classico, instancabile, vulcanico, geniale-rigorosissimo maieuta che l’ha mantenuta sino a oggi alla massima tensione, chiude con il numero del 28 novembre, dopo 66 anni e 400 fascicoli bimestrali (maniacalmente puntuali), abbonamenti in 80 nazioni, «fascia A» nella valutazione internazionale.
Un addio meditato, reo il tempo «che fugge» (non i «conti», buoni persino nella crisi, né certo la mancanza di interlocutori), mentre intatto resta quell’«aroma infernale» (machiavellico) ampiamente gustato da Garin nei Novanta ma che già, dalla prima uscita il 15 gennaio 1946, con la sua testata irrispettosa («mi pare che come titolo laico possa andare sempre»: Luigi Russo a Croce), laica alla maniera di chi non ha bisogno dell’accademia, ha attratto i maestri e i futuri leader del sapere a cominciare da Cantimori e Pampaloni, Natta, Carlo Levi, Ragghianti, poi Ceserani, Terracini sino a Segre, a Mario Isnenghi, in questi ultimi tempi condirettore della rivista, a Antonio Resta, cui si deve anche la curatela, recentissima, degli Indici 1946-2010 aperti dalla «voce» di Carlo Ferdinando Russo.
Il suo Congedo è una vitalissima summa dell’avventura che nei decenni ha esplorato italianistica e letterature straniere, filosofia e cinema, filologia, educazione, politica - fuori dalla politica, nessun moralismo, funambolismo mai gratuito, con la miriade di documenti (e la parabola si chiude come era iniziata: l’ultimo Belfagor porta una lettera inedita di Croce), le famose rubriche al vetriolo, Minima personalia, frutto non di malizia ma di totale libertà, «un rempart contre les abus de l’industrie culturelle», come sigillava Le Monde nel ’69. Un viatico, non un «congedo».
Grey's Anatomy al microscopio
Aldo Grasso e Cecilia Penati
Corriere della Sera, La Lettura, 28 luglio 2013
Non chiamatela guilty pleasure, ossia qualcosa che ci piace, ma di cui ci vergogniamo. Potreste fare arrabbiare la sua creatrice, Shonda Rhimes, la produttrice più influente della televisione americana contemporanea. Meredith Grey è molto di più. Non è solo un personaggio che «ci vergogniamo di amare», non è solo l’ultima erede della narrativa popolare di consumo, l’ennesima pollastrella da chick lit. E in fondo, come spiega Rhimes, «quando dici che uno show è un guilty pleasure, non è certo un complimento. In pratica, stai dicendo che fa schifo».
Chi è allora Meredith Grey? È un affermato aiuto primario presso la divisione di chirurgia generale al Grey Sloan Memorial Hospital di Seattle: la sua carriera è partita da molto lontano, per l’esattezza otto anni e nove stagioni fa, quando la notte precedente al suo primo giorno come tirocinante di chirurgia è finita a letto con un tizio conosciuto per caso in un bar, di cui stentava a ricordare il nome e che prevedeva di non rivedere mai più dopo quell’unico one-night-stand. Per poi scoprire, la mattina dopo, che il tizio in questione era Derek Shepherd, il miglior neurochirurgo dello Stato di Washington, nonché suo superiore tra le mura dell’ospedale. Il destino non si scompone mai senza una ragione. Shepherd è presto ribattezzato dottor McDreamy (in italiano si sono inventati «Dottor Stranamore») e, da lì in avanti, per Meredith la carriera inizia a intrecciarsi irrimediabilmente con il sesso, i drammi chirurgici iniziano a confondersi con quelli sentimentali.
Meredith è il personaggio che dà il titolo a una delle serie più importanti dell’ultimo decennio, in onda su Abc, una delle poche con una forte female lead, forse non la più bella, sicuramente non quella maggiormente acclamata dalla critica, ma senz’altro quella più amata dal pubblico, come testimoniano la sua longevità e i suoi ascolti stellari (al debutto 21 milioni, diminuiti solo nelle ultime due stagioni). Il titolo della serie, Grey’s Anatomy, oltre a mettere Meredith al centro del racconto, è un gioco di parole che richiama il famoso manuale di anatomia descrittiva e chirurgica scritto nel 1918 da Sir Henry Gray e ancora in uso nelle scuole di medicina. Tra le altre cose, Meredith è anche costretta a portare lo stigma di «predestinata», perché «figlia di», nello specifico del famoso chirurgo Ellis Grey: una specie di star della medicina, vincitrice di due premi Harper Avery, ideatrice di un divaricatore per l’addome e di molte procedure chirurgiche all’avanguardia. Una madre devota solo alla medicina, sposata con un uomo debole, che finisce per lasciare dopo averlo a lungo tradito con il più vigoroso collega Richard Webber. Quando Meredith decide di iscriversi a medicina, la scoraggia dicendole che «non ha il carattere». Sarebbe già abbastanza per evocare i più potenti traumi psicologici legati al rapporto madre e figlia, ma le cose si complicano quando Ellis viene colpita da un’aggressiva forma di Alzheimer precoce. Non ricorda più nulla, disconosce la figlia, lascia l’ospedale per trasferirsi in una casa di cura e infine muore per le complicazioni della malattia.
Meredith rimane sola con se stessa, è solo la vocazione per la medicina a sostenerla. È così che, come nella migliore tradizione seriale americana, si costruisce giorno dopo giorno una famiglia sostitutiva, composta dai colleghi tirocinanti e dai primari, che diventano alternativamente mentori, antagonisti, amanti. Un gruppo di medici in carriera, ma anche in tumulto ormonale, espressione di un’ampia varietà etnica e di gender molto cara a Rhimes. Cristina Yang, sua collega di specializzazione, è il doppio di Meredith, quella che lei chiama «la sua persona»: arrivista e talentuosa, disinteressata alla vita familiare almeno quanto Grey desidera ricostruire quel nido che le è sempre mancato
In Grey’s, ogni personaggio risponde a profili narrativi semplici, in fondo quasi schematici, mantenuti con coerenza e costanza nel tempo, accompagnati da dialoghi sempre costruiti in perfetta aderenza alla biografia del personaggio. Il romanzo di formazione dei tirocinanti racconta l’apprendimento delle pratiche chirurgiche, ma è soprattutto una formazione sentimentale, una soap di alta qualità. Insomma, in Grey’s Anatomy, il letto più importante non è certo quello che sta in corsia, tanto che il «New York Times» ha fatto presto a ribattezzare la serie Sex and the City Hospital. Grey’s è un «Luogo d’angoscia», come si confà a un medical drama, ma anche un Nonluogo di avventure sentimentali. A differenza di altre serie, non si preoccupa tanto di descrivere i particolari tecnici delle operazioni mediche (diagnosi, interventi, cure), quanto piuttosto di rappresentare le emozioni dei primi atti terapeutici, così intrinsecamente legati agli intrecci amorosi. Nella sala operatoria, i tirocinanti se la cavano bene, è la vita fuori da lì, con tutte le complicazioni delle relazioni umane, a riservare le insidie maggiori: «Con un bisturi in mano, ti senti inarrestabile. Non provi più paura, né dolore. Ti senti un gigante invincibile. Ma poi esci dalla sala operatoria. E tutta quella perfezione, tutto quello splendido autocontrollo, va in malora».
Il punto di vista di Meredith filtra tutto il racconto, il fulcro narrativo è stretto su di lei, anche grazie all’espediente della sua voce fuori campo (come quella di Carrie in Sex and the City e di Mary Alice in Desperate Housewives) che incornicia ogni episodio con mielose frasi «di genere» in apertura e chiusura, una prosa emozionale e molto ripetitiva, facile a trasformarsi in citazione: «Mi amerai anche quando mi odierai» fa promettere nei voti nuziali redatti su un post-it al dottor McDreamy, in procinto di diventare suo marito. Nel corso delle stagioni, lo sguardo della serie si è allargato a comprendere in modo più bilanciato, ma anche più convenzionale, gli altri personaggi del cast, calcando ancora di più la mano su un’impostazione soapish. Meredith è l’ultima esemplare di una lunga tradizione letteraria (e poi televisiva) di rappresentazione delle eroine sentimentali, ma il suo personaggio aggiorna la categoria da molti punti di vista. In lei non c’è solo virtù, ma è disposta a usare il suo corpo anche in modo divertente e spregiudicato; non vede le cose bianche o nere, ma secondo molte sfumature di grigio, «many shades of Grey», appunto. Frequentare un uomo sposato? Va bene, se sua moglie è a sua volta un’algida traditrice. Manomettere la sperimentazione clinica sull’Alzheimer? Va bene, se è fatto per aiutare la moglie malata del primario di chirurgia, che molti anni prima era stato l’amante di sua madre. Senso di colpa, eterna vocazione al masochismo sentimentale, spirito da crocerossina? Non si sa che cosa l’abbia spinta.
In fondo Meredith è una a cui soffrire non dispiace, soprattutto nelle prime stagioni della serie, quando è per la maggior parte del tempo umbratile e cinica, sempre accompagnata da un velo di pessimismo cosmico. Solo lentamente diventa una donna più sicura e fiduciosa, addirittura disposta a essere felice (e la minore originalità delle ultime stagioni della serie forse va proprio imputata a questo cambio nel personaggio). Helen Eisenbach ha scritto su «Salon»: «Oggi forse abbiamo dimenticato l’impatto che Grey’s ha avuto nel 2005, al suo debutto. Anni prima dell’approccio brillante ed esplicito di Lena Dunham (Girls) o Elizabeth Meriwether (New Girl), Leslye Headland (Assistance) e Mindy Kaling (The Office, The Mindy Project), Grey’s ha rappresentato una svolta trasgressiva. Ci ha fatto capire che i personaggi femminili possono essere ambiziosi, severi, rudi, felicemente promiscui e anche imperfetti, essere antieroi per i quali facciamo il tifo e non solo ragazze carine, fidanzate bollenti e ammirabili eroine. Anche se, certo, a volte possono essere tutte queste cose. È stato esilarante e ha creato dipendenza nel pubblico».
Come le eroine del romanzo epistolare, alla Pamela di Samuel Richardson per intenderci, il personaggio di Meredith funziona come un parafulmine narrativo per sventure e disgrazie di ogni genere (un vero marchio di fabbrica di Shonda Rhimes). Le cose peggiori accadono per darle l’occasione di soffrire, toccare il fondo e rialzarsi, e allo stesso tempo per permettere allo spettatore di simpatizzare con lei: è sopravvissuta nell’ordine a un paziente con una bomba in corpo (letteralmente), a un annegamento, alla sparatoria di un folle in ospedale e a un conseguente aborto spontaneo, alla caduta di un aereo in cui muore anche la sua sorellastra, alle complicazioni di un parto cesareo che avvengono durante un black-out elettrico causato da un uragano. Senza dimenticare la minaccia genetica dell’Alzheimer che pesa su di lei come una spada di Damocle. Ma Meredith è una che sulle sue sfighe sa anche ironizzare. Per annunciare al marito la sua prima gravidanza sente il bisogno di mettere le mani avanti: «Ho sempre l’utero ostile, e mi capitano in continuazione cose terribili».
Negli Stati Uniti, la critica impegnata si è scatenata: è lagnosa, lunatica, prende decisioni spesso irrazionali. È stata criticata dalle femministe per i suoi tratti stereotipati di donna in carriera (alla Mary Taylor Moore): professionalmente competente, personalmente un disastro. A difenderla ci ha pensato la sua creatrice, Shonda Rhimes: «La verità è che sua madre è morta di Alzheimer, nessun altro della sua famiglia le parla, e l’uomo che ama è sposato. È sola come un cane. Ha tutto il diritto di essere lamentosa. Quando inciampa è anche perché non ha nulla a cui aggrapparsi». Il lavoro di Shonda nel costruire i suoi personaggi sta tutto in queste sfumature, niente è solo giusto o solo sbagliato, la morale si può costruire. Parlando di Olivia Pope, la protagonista della sua ultima serie Scandal che con Meredith ha molto in comune compreso il fatto di ricoprire il ruolo di amante, ha raccontato a «Salon»: «L’assunto di base della maggior parte degli show televisivi è quello che, in fondo, le persone sono buone. E c’è sempre un eroe contrapposto ai cattivi. Certo, questi sono i fondamentali della fiction generalista. Ma qui non c’è nessun eroe. Fai il tifo per Olivia, ma lei non è un’eroina. Forziamo il pubblico a identificarsi con lei, e poi gli chiediamo di identificarsi con qualcuno che sta facendo qualcosa di sbagliato».
Le nove stagioni della serie ci hanno permesso di conoscere Meredith da vicino, di vederla trasformare nel tempo: Ellen Pompeo, l’attrice che la impersona, ha avuto la bravura di interpretarne le sfumature più sentimentali e comiche come quelle più cupe e drammatiche. «How to save a life», come salvare una vita, recita una delle ballad usate come colonna sonora per gli episodi della serie (tutti prendono il titolo da una canzone). Il senso del personaggio di Meredith è questo, imparare a salvare vite, possibilmente anche la sua.
Corriere della Sera, La Lettura, 28 luglio 2013
Non chiamatela guilty pleasure, ossia qualcosa che ci piace, ma di cui ci vergogniamo. Potreste fare arrabbiare la sua creatrice, Shonda Rhimes, la produttrice più influente della televisione americana contemporanea. Meredith Grey è molto di più. Non è solo un personaggio che «ci vergogniamo di amare», non è solo l’ultima erede della narrativa popolare di consumo, l’ennesima pollastrella da chick lit. E in fondo, come spiega Rhimes, «quando dici che uno show è un guilty pleasure, non è certo un complimento. In pratica, stai dicendo che fa schifo».
Chi è allora Meredith Grey? È un affermato aiuto primario presso la divisione di chirurgia generale al Grey Sloan Memorial Hospital di Seattle: la sua carriera è partita da molto lontano, per l’esattezza otto anni e nove stagioni fa, quando la notte precedente al suo primo giorno come tirocinante di chirurgia è finita a letto con un tizio conosciuto per caso in un bar, di cui stentava a ricordare il nome e che prevedeva di non rivedere mai più dopo quell’unico one-night-stand. Per poi scoprire, la mattina dopo, che il tizio in questione era Derek Shepherd, il miglior neurochirurgo dello Stato di Washington, nonché suo superiore tra le mura dell’ospedale. Il destino non si scompone mai senza una ragione. Shepherd è presto ribattezzato dottor McDreamy (in italiano si sono inventati «Dottor Stranamore») e, da lì in avanti, per Meredith la carriera inizia a intrecciarsi irrimediabilmente con il sesso, i drammi chirurgici iniziano a confondersi con quelli sentimentali.
Meredith è il personaggio che dà il titolo a una delle serie più importanti dell’ultimo decennio, in onda su Abc, una delle poche con una forte female lead, forse non la più bella, sicuramente non quella maggiormente acclamata dalla critica, ma senz’altro quella più amata dal pubblico, come testimoniano la sua longevità e i suoi ascolti stellari (al debutto 21 milioni, diminuiti solo nelle ultime due stagioni). Il titolo della serie, Grey’s Anatomy, oltre a mettere Meredith al centro del racconto, è un gioco di parole che richiama il famoso manuale di anatomia descrittiva e chirurgica scritto nel 1918 da Sir Henry Gray e ancora in uso nelle scuole di medicina. Tra le altre cose, Meredith è anche costretta a portare lo stigma di «predestinata», perché «figlia di», nello specifico del famoso chirurgo Ellis Grey: una specie di star della medicina, vincitrice di due premi Harper Avery, ideatrice di un divaricatore per l’addome e di molte procedure chirurgiche all’avanguardia. Una madre devota solo alla medicina, sposata con un uomo debole, che finisce per lasciare dopo averlo a lungo tradito con il più vigoroso collega Richard Webber. Quando Meredith decide di iscriversi a medicina, la scoraggia dicendole che «non ha il carattere». Sarebbe già abbastanza per evocare i più potenti traumi psicologici legati al rapporto madre e figlia, ma le cose si complicano quando Ellis viene colpita da un’aggressiva forma di Alzheimer precoce. Non ricorda più nulla, disconosce la figlia, lascia l’ospedale per trasferirsi in una casa di cura e infine muore per le complicazioni della malattia.
Meredith rimane sola con se stessa, è solo la vocazione per la medicina a sostenerla. È così che, come nella migliore tradizione seriale americana, si costruisce giorno dopo giorno una famiglia sostitutiva, composta dai colleghi tirocinanti e dai primari, che diventano alternativamente mentori, antagonisti, amanti. Un gruppo di medici in carriera, ma anche in tumulto ormonale, espressione di un’ampia varietà etnica e di gender molto cara a Rhimes. Cristina Yang, sua collega di specializzazione, è il doppio di Meredith, quella che lei chiama «la sua persona»: arrivista e talentuosa, disinteressata alla vita familiare almeno quanto Grey desidera ricostruire quel nido che le è sempre mancato
In Grey’s, ogni personaggio risponde a profili narrativi semplici, in fondo quasi schematici, mantenuti con coerenza e costanza nel tempo, accompagnati da dialoghi sempre costruiti in perfetta aderenza alla biografia del personaggio. Il romanzo di formazione dei tirocinanti racconta l’apprendimento delle pratiche chirurgiche, ma è soprattutto una formazione sentimentale, una soap di alta qualità. Insomma, in Grey’s Anatomy, il letto più importante non è certo quello che sta in corsia, tanto che il «New York Times» ha fatto presto a ribattezzare la serie Sex and the City Hospital. Grey’s è un «Luogo d’angoscia», come si confà a un medical drama, ma anche un Nonluogo di avventure sentimentali. A differenza di altre serie, non si preoccupa tanto di descrivere i particolari tecnici delle operazioni mediche (diagnosi, interventi, cure), quanto piuttosto di rappresentare le emozioni dei primi atti terapeutici, così intrinsecamente legati agli intrecci amorosi. Nella sala operatoria, i tirocinanti se la cavano bene, è la vita fuori da lì, con tutte le complicazioni delle relazioni umane, a riservare le insidie maggiori: «Con un bisturi in mano, ti senti inarrestabile. Non provi più paura, né dolore. Ti senti un gigante invincibile. Ma poi esci dalla sala operatoria. E tutta quella perfezione, tutto quello splendido autocontrollo, va in malora».
Il punto di vista di Meredith filtra tutto il racconto, il fulcro narrativo è stretto su di lei, anche grazie all’espediente della sua voce fuori campo (come quella di Carrie in Sex and the City e di Mary Alice in Desperate Housewives) che incornicia ogni episodio con mielose frasi «di genere» in apertura e chiusura, una prosa emozionale e molto ripetitiva, facile a trasformarsi in citazione: «Mi amerai anche quando mi odierai» fa promettere nei voti nuziali redatti su un post-it al dottor McDreamy, in procinto di diventare suo marito. Nel corso delle stagioni, lo sguardo della serie si è allargato a comprendere in modo più bilanciato, ma anche più convenzionale, gli altri personaggi del cast, calcando ancora di più la mano su un’impostazione soapish. Meredith è l’ultima esemplare di una lunga tradizione letteraria (e poi televisiva) di rappresentazione delle eroine sentimentali, ma il suo personaggio aggiorna la categoria da molti punti di vista. In lei non c’è solo virtù, ma è disposta a usare il suo corpo anche in modo divertente e spregiudicato; non vede le cose bianche o nere, ma secondo molte sfumature di grigio, «many shades of Grey», appunto. Frequentare un uomo sposato? Va bene, se sua moglie è a sua volta un’algida traditrice. Manomettere la sperimentazione clinica sull’Alzheimer? Va bene, se è fatto per aiutare la moglie malata del primario di chirurgia, che molti anni prima era stato l’amante di sua madre. Senso di colpa, eterna vocazione al masochismo sentimentale, spirito da crocerossina? Non si sa che cosa l’abbia spinta.
In fondo Meredith è una a cui soffrire non dispiace, soprattutto nelle prime stagioni della serie, quando è per la maggior parte del tempo umbratile e cinica, sempre accompagnata da un velo di pessimismo cosmico. Solo lentamente diventa una donna più sicura e fiduciosa, addirittura disposta a essere felice (e la minore originalità delle ultime stagioni della serie forse va proprio imputata a questo cambio nel personaggio). Helen Eisenbach ha scritto su «Salon»: «Oggi forse abbiamo dimenticato l’impatto che Grey’s ha avuto nel 2005, al suo debutto. Anni prima dell’approccio brillante ed esplicito di Lena Dunham (Girls) o Elizabeth Meriwether (New Girl), Leslye Headland (Assistance) e Mindy Kaling (The Office, The Mindy Project), Grey’s ha rappresentato una svolta trasgressiva. Ci ha fatto capire che i personaggi femminili possono essere ambiziosi, severi, rudi, felicemente promiscui e anche imperfetti, essere antieroi per i quali facciamo il tifo e non solo ragazze carine, fidanzate bollenti e ammirabili eroine. Anche se, certo, a volte possono essere tutte queste cose. È stato esilarante e ha creato dipendenza nel pubblico».
Come le eroine del romanzo epistolare, alla Pamela di Samuel Richardson per intenderci, il personaggio di Meredith funziona come un parafulmine narrativo per sventure e disgrazie di ogni genere (un vero marchio di fabbrica di Shonda Rhimes). Le cose peggiori accadono per darle l’occasione di soffrire, toccare il fondo e rialzarsi, e allo stesso tempo per permettere allo spettatore di simpatizzare con lei: è sopravvissuta nell’ordine a un paziente con una bomba in corpo (letteralmente), a un annegamento, alla sparatoria di un folle in ospedale e a un conseguente aborto spontaneo, alla caduta di un aereo in cui muore anche la sua sorellastra, alle complicazioni di un parto cesareo che avvengono durante un black-out elettrico causato da un uragano. Senza dimenticare la minaccia genetica dell’Alzheimer che pesa su di lei come una spada di Damocle. Ma Meredith è una che sulle sue sfighe sa anche ironizzare. Per annunciare al marito la sua prima gravidanza sente il bisogno di mettere le mani avanti: «Ho sempre l’utero ostile, e mi capitano in continuazione cose terribili».
Negli Stati Uniti, la critica impegnata si è scatenata: è lagnosa, lunatica, prende decisioni spesso irrazionali. È stata criticata dalle femministe per i suoi tratti stereotipati di donna in carriera (alla Mary Taylor Moore): professionalmente competente, personalmente un disastro. A difenderla ci ha pensato la sua creatrice, Shonda Rhimes: «La verità è che sua madre è morta di Alzheimer, nessun altro della sua famiglia le parla, e l’uomo che ama è sposato. È sola come un cane. Ha tutto il diritto di essere lamentosa. Quando inciampa è anche perché non ha nulla a cui aggrapparsi». Il lavoro di Shonda nel costruire i suoi personaggi sta tutto in queste sfumature, niente è solo giusto o solo sbagliato, la morale si può costruire. Parlando di Olivia Pope, la protagonista della sua ultima serie Scandal che con Meredith ha molto in comune compreso il fatto di ricoprire il ruolo di amante, ha raccontato a «Salon»: «L’assunto di base della maggior parte degli show televisivi è quello che, in fondo, le persone sono buone. E c’è sempre un eroe contrapposto ai cattivi. Certo, questi sono i fondamentali della fiction generalista. Ma qui non c’è nessun eroe. Fai il tifo per Olivia, ma lei non è un’eroina. Forziamo il pubblico a identificarsi con lei, e poi gli chiediamo di identificarsi con qualcuno che sta facendo qualcosa di sbagliato».
Le nove stagioni della serie ci hanno permesso di conoscere Meredith da vicino, di vederla trasformare nel tempo: Ellen Pompeo, l’attrice che la impersona, ha avuto la bravura di interpretarne le sfumature più sentimentali e comiche come quelle più cupe e drammatiche. «How to save a life», come salvare una vita, recita una delle ballad usate come colonna sonora per gli episodi della serie (tutti prendono il titolo da una canzone). Il senso del personaggio di Meredith è questo, imparare a salvare vite, possibilmente anche la sua.
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giovedì 25 luglio 2013
François Furet su Marx e la Rivoluzione francese
A mio parere la Rivoluzione francese è connotata, in ciò che
ha di più interessante e di più fecondo, dalla scoperta
dell'universo politico moderno. Intendo dire che può essere
vista come una vittoria della borghesia sull'aristocrazia -
che è uno dei suoi aspetti più incontestabili -, ma anche
come la scoperta, da parte della nuova classe media,
dell'universo liberal-democratico, cioè dell'universo
politico moderno, in cui i cittadini sono liberi e uguali.
Trovo appassionante, nella Rivoluzione francese, la rapidità
con cui consegue i suoi successi sul piano sociale: il
rovesciamento dell'aristocrazia e l'insediamento di una
nuova classe dirigente sono acquisiti immediatamente, fin
dal l789, e consacrati dalle celebri leggi del 4 agosto, che
instaurano in Francia e per sempre - o almeno fino ai nostri
giorni - l'eguaglianza civile, l'eguaglianza davanti alla
legge, il regime moderno della società civile. Una conquista
della Rivoluzione francese che non è stata più rimessa in
questione, né meno dal ritorno della Monarchia nel 1814 e
nel 1815. Dunque sul piano sociale la Rivoluzione si è data
subito nuove regole. Viceversa, a partire da questa vittoria
decisiva sull'aristocrazia, la Rivoluzione francese si
caratterizza per una serie di insuccessi politici. Trovo
appassionante nella Rivoluzione francese la straordinaria
accelerazione nella ricerca dell'universo politico moderno.
Se la consideriamo nell'arco di dieci anni, tra il 1789 e
l'avvento del Bonaparte, la Rivoluzione ha espresso
successivamente quattro regimi: una monarchia
costituzionale, una repubblica fondata sull'arbitrio e sul
terrore, un tentativo di regime parlamentare, di repubblica
parlamentare, che sarebbe il Direttorio, e infine il ritorno
a un regime molto più autoritario dell'Ancien Régime, che
potrebbe essere qualificato come dittatura democratica, nel
senso che Napoleone mutua la sua legittimità dalla sovranità
popolare. Dunque io credo che il mio apporto alla storia
della Rivoluzione francese, per cui mi sono ispirato del
resto a una storiografia estremamente ricca, che il marxismo
aveva malauguratamente occultata o lasciata in oblio, il mio
apporto - dicevo - alla storia della Rivoluzione francese è
nell'aver mostrato che è questo il primo evento in cui si
manifestano i grandi problemi della moderna democrazia
liberale. Tutta la ricchezza e il carattere enigmatico della
Rivoluzione francese risiedono per me in questa costante
ricerca di un nuovo corpo politico corrispondente alla
società civile borghese. Ma la Rivoluzione questo nuovo
corpo politico non è riuscita a trovarlo.
La storiografia dominante all'epoca in cui ero studente, faceva della Rivoluzione un movimento, quasi esclusivamente sociale, che andava dal rovesciamento dell'aristocrazia all' avvento di una nuova diseguaglianza di classe. E in fondo la Rivoluzione francese in quanto rivoluzione borghese, era vista quasi soltanto come la premessa di un'altra rivoluzione a venire, destinata ad adempiere le promesse che la Rivoluzione francese non aveva mantenuto. In quella storiografia che Lei chiama tradizionale - ma che io preferirei chiamare marxista-leninista - era iscritta una visione teleologica della storia. La rettifica da me apportata è questa: i problemi lasciati insoluti dalla Rivoluzione francese non sono affatto quelli dell'eguaglianza civile, che furono regolati assai presto e definitivamente - o almeno per i due secoli avvenire. Il problema più importante è invece l'articolazione del nuovo corpo politico, il progresso della libertà, perché dopo tutto, nella Rivoluzione francese, dei quattro regimi che ho enumerato prima, ce ne sono due liberali, per esprimersi concisamente, e due del tutto illiberali: il Terrore e Napoleone. In seguito, rileggendo attentamente Marx, scrivendo su di lui, ho scoperto che Marx, nelle opere della giovinezza, aveva già visto tutto ciò e che la storiografia del XX secolo, che avevamo chiamato marxista, era una storiografia leninista, piuttosto che una storiografia marxista propriamente detta. Come sempre Marx è stato atrocemente semplificato, mutilato proprio dalla sua vittoria e dal leninismo. Marx nelle opere della giovinezza, ne "La Sacra Famiglia", ne "La questione ebraica", nelle opere del l844-46, descrive la Rivoluzione francese come la dialettica del politico nella società moderna. Il problema della società politica moderna nasce dal presupposto che il corpo politico debba essere dedotto dalla società civile. E' costantemente presente nella società liberale moderna una debolezza della sfera politica, una difficoltà a costruire la sfera politica. E' questo che la Rivoluzione francese mostra con grande ricchezza di esempi.
Il giacobinismo nel suo senso originario, che è non soltanto quello di credere nello stato, ma più profondamente quello di effettuare una rottura nel tempo, mediante il volontarismo politico, l'essenza del giacobinismo è il trionfo della volontà sulle inerzie della società, mediante l'azione rivoluzionaria soggettiva degli uomini. Da questo punto di vista il bolscevismo è un giacobinismo. D'altronde i bolscevichi non hanno mai smesso di dichiararlo e nella loro prospettiva avevano ragione. Lenin viene dalla tradizione giacobina, attraverso mediazioni che si potrebbero facilmente ripercorrere attraverso il XIX secolo francese e russo. La filiazione giacobina dei bolscevichi non implica che le due Rivoluzioni si possano confrontare o anche semplicemente accostare. Al contrario, mi sembrano straordinariamente diverse. La Rivoluzione francese è una rivoluzione che consolida la proprietà borghese, che crea una massa di nuovi possidenti; la Rivoluzione russa distrugge la società civile, l'aristocrazia, la borghesia, e in seguito i contadini e la classe operaia, fino a che non c'è più società nel senso di una società organizzata. Mentre in Francia il giacobinismo è durato solamente due anni, dal l792 al l794, nella Rivoluzione russa, il bolscevismo può essere analizzato, nella stessa prospettiva, come un giacobinismo catastrofico, un giacobinismo spinto alle estreme conseguenze. Se si prolunga idealmente la dittatura di Robespierre fino al l840 si ottiene l'immagine della Rivoluzione russa. E' piuttosto curioso che tanti spiriti lucidi abbiano potuto istituire un parallelo tra la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa, quando in fondo le due rivoluzioni non hanno altro in comune che quel rapporto immaginario, quell'ambizione prometeica, che ci ha fatto sognare tutti e donde la Rivoluzione russa ha tratto i suoi sortilegi, la magia che ha esercitato sugli uomini del XX secolo.
La società moderna che possiamo chiamare anche "società borghese" - è una definizione come un'altra: non mi disturba affatto - o "società capitalista", è una società che non si può amare. Non si può amare perché manca di una legittimazione profonda. La società aristocratica ha una legittimità profonda, perché l'aristocrazia ha origini remote, la legittimità le è conferita dal suo passato. La società monarchica è legittima nella misura in cui un re è qualcosa di più del suo corpo, della sua semplice presenza: è una presenza immaginaria nella quale l'insieme del corpo sociale si può riconoscere. Un socialista trae la sua legittimità morale dal fatto di combattere per un mondo di cui non farà parte: vedo in ciò una forma di disinteresse. Un borghese non è nulla, consiste tutto nella sua ricchezza, non ha legittimità nell'immaginazione degli uomini. E poi la ricchezza è aleatoria. Il borghese è ricco, ma avrebbe potuto essere povero, così come il povero avrebbe potuto essere ricco. In altri termini, nella società borghese c'è un consenso debole, perché l'autorità non è legittima. Proprio quando le società hanno più bisogno del consenso dei governati, poiché le società democratiche sono fondate sul consenso della volontà, proprio allora è più difficile ottenere il consenso, perché manca una classe dirigente politica rispettabile. Da qui nasce la crisi della società borghese, da cui non siamo ancora usciti, perché la fine del comunismo non ha reso più accettabili le società borghesi, ma le ha lasciate con tutti i loro difetti. Ha semplicemente privato una parte delle frustrazioni di quella specie di sbocco illusorio che era una società di tipo sovietico. Questo è il problema di fondo. Il fatto che le masse, come anche gli intellettuali d'altronde, siano entrate nell'illusione non è affatto misterioso, mi sembra anzi comprensibile. Anche in ciò che concerne il fascismo, si sa che oggi è diventato quasi impossibile parlare del fascismo: è un po' come se ci fosse una interdizione morale, che per lo storico è un elemento di disturbo. La storia cerca di comprendere il passato, e in passato il fascismo ha suscitato in Europa - non soltanto in Italia o in Germania, ma anche in altri paesi d'Europa - l'entusiasmo di milioni di uomini e questo è un fatto storico che bisogna comprendere. Non basta criminalizzare il fascismo, per darne una interpretazione storica, perché se lo si criminalizza, non si comprende più la sua forza d'attrazione. La sola maniera di comprendere la seduzione che ha esercitato il fascismo - io credo - è quella che ho tentato io, provando a ricomporre che cosa ha potuto essere, negli anni Trenta, una speranza fascista, quali erano le aspettative della gente. Quelle aspettative per me erano chiaramente: una rottura con l'angoscia dell'individualismo borghese, una ricerca della comunità fraterna, il superamento del mondo dell' interesse e del denaro. La società liberale veniva colpita nel suo punto debole. Potrei fare un'analisi differente, ma un po' negli stessi termini, della speranza comunista. Il comunismo non è più una speranza vissuta sotto il segno dell'elemento nazionale o della comunità nazionale, ma in nome dell'universalmente umano, dell'emancipazione dell'umanità. In questo senso ritrova l'utopia liberale, perché già l'utopia liberale non ha più la nazione, ma il genere umano come orizzonte, è universalista, come mostra la Rivoluzione francese dell'89. Il comunismo ha conferito un supplemento di verosimiglianza all'universalismo liberale.
Il comunismo è stato una tragedia soprattutto per il popolo russo, nei confronti del quale gli europei occidentali hanno manifestano sempre una profonda indifferenza. Perciò la tragedia russa è stata considerata come un'occasione perduta, mentre i comunisti italiani e francesi si sono trovati dal lato giusto. Sono stati protetti in un certo modo dall'antifascismo, che è stato la grande benedizione e al tempo stesso la grande maschera del comunismo. Non si può non essere profondamente colpiti dalla differenza del trattamento che subiscono nei nostri paesi comunismo e fascismo. Il fascismo è esecrato, criminalizzato, al punto che è quasi vietato tenere su di esso un discorso storico e d'altronde è bizzarramente, costantemente riesumato sotto le forme dell'antifascismo. Non si riflette abbastanza al fatto che mentre da cinquant'anni non esiste più un regime fascista, non c'è mai stato un antifascismo così forte come oggi. C'è una frase di Orwell che mi ha sempre meravigliato, ma che continua ad essere vera: la sinistra europea è antifascista, non antitotalitaria. E' profondamente vero: la sinistra europea non ha un autentico amore per la libertà. Allora che cosa succede in Francia? Quello che ho detto è particolarmente vero per la Francia. In Francia c'è un forte partito socialista che ha mantenuto un completo silenzio sul crollo dell'Unione Sovietica e un partito comunista, in via di riconversione - anche se meno del Partito Democratico della Sinistra in Italia - composto in gran parte di quadri anziani, che dal punto di vista intellettuale sono ancora fermi alla vecchia idea di pianificazione statale dell'economia, ecc. ecc. Noi abbiamo questa sinistra a metà riconvertita e a metà non riconvertita, che continua a incarnare una tradizione antiliberale, da duecento anni assai forte, in Francia, come in Italia. Dunque non è morta, ma è stata ripresa su un modo minore, perché questi partiti antiliberali sono tuttavia europeisti. E qui vedo una contraddizione fondamentale, perché l'Europa si fa essenzialmente in nome di valori liberali. Soltanto l'avvenire potrà togliere questa contraddizione.
Io ho il più grande rispetto per la sinistra socialista, che è rimasta libertaria. Noto d'altronde che molte lucide critiche del bolscevismo sono state fatte all'inizio da gente di sinistra, come Kautsky, Léon Blum, Koestler, Souvarine: la critica dell'esperienza bolscevica è cominciata a sinistra. Ma sono rimaste voci inascoltate, a cui non si è dato credito. Quanto a me, quello che mi interessa è precisamente che l'Unione sovietica nonostante il suo corso sia riuscita a cristallizzare intorno a sé la speranza. Perché, quando si prende in esame la storia del XX secolo, si è obbligati a riconoscere, se si fa storia con obbiettività, che la fede comunista si è largamente, massicciamente incarnata nell'Unione Sovietica. Il fatto sorprendente è che questa fede si sia sviluppata nonostante la tragicità di quella esperienza. Con ciò non intendo dire che a sinistra non ci siano state delle menti lucide. Ce ne sono state e ne ho il massimo rispetto. Io considero Koestler come uno dei maggiori scrittori del secolo, Kautsky come uno dei più grandi marxisti della storia europea, ma non hanno avuto credito, sono rimasti delle voci isolate. Si osservi la scena politica francese o italiana negli anni Quaranta, alla fine della guerra: l'Unione sovietica è riuscita a incarnare di nuovo la speranza comunista. E' questo il problema che mi appassiona: la storia di una speranza impiantata su una tragedia, il fatto che il tragico corso del bolscevismo non abbia distrutto la speranza. E in fondo la speranza è rimasta viva fino a Gorbacev, perché ancora sotto Gorbacev si spera di trovare una via d'uscita. Solo dopo la caduta di Gorbacev la speranza è venuta meno.
Nella storia della Chiesa agisce la divinità, la cui realtà è trascendente, esterna al mondo e quindi non può essere vinta dalla storicità. Il fatto inaudito nella storia del comunismo è che siamo di fronte a una religione dell'immanenza, che sopravvive allo spettacolo dell'immanenza. In questo senso le cose sono, nei due casi, completamente diverse. D'altronde così si spiega, probabilmente anche perché l'idea comunista ha avuto vita breve. In fondo è durata solo settant'anni: un tempo straordinariamente breve. Ma, per il suo carattere di universalità, l'idea comunista è arrivata più lontano, nel mondo, dell'idea cristiana. Parecchi paesi asiatici, non raggiunti dal cristianesimo, sono stati mobilitati, nel XX secolo, dall'idea comunista. E' un'idea con una enorme forza di penetrazione, ma di breve durata. Il compito che mi sono posto è stato di mostrare che si poteva fare una storia dell'immaginazione politica, che l'immaginazione politica poteva essere un soggetto storico. Come si è nutrita, che cosa l'ha costituita? Come si è sviluppata? Dopo tutto, quando fanno politica i cittadini moderni, che generalmente non sono religiosi, la fanno per convinzione, non per interesse. Fanno politica perché hanno un'idea dell'avvenire, perché hanno un'idea dell'interesse generale, del benessere dei loro concittadini ecc. E anche qui il discorso si annoda con la mia biografia, perché in fondo tento di comprendere la mia vita. In gioventù sono stato comunista e poi ho voluto capire perché questa idea è stata così forte, com'è stato possibile che una persona come me, che sono così analitico, e che lo ero anche da giovane, sia potuta entrare in quella illusione.
Pensare la Rivoluzione francese, 1978
La storiografia dominante all'epoca in cui ero studente, faceva della Rivoluzione un movimento, quasi esclusivamente sociale, che andava dal rovesciamento dell'aristocrazia all' avvento di una nuova diseguaglianza di classe. E in fondo la Rivoluzione francese in quanto rivoluzione borghese, era vista quasi soltanto come la premessa di un'altra rivoluzione a venire, destinata ad adempiere le promesse che la Rivoluzione francese non aveva mantenuto. In quella storiografia che Lei chiama tradizionale - ma che io preferirei chiamare marxista-leninista - era iscritta una visione teleologica della storia. La rettifica da me apportata è questa: i problemi lasciati insoluti dalla Rivoluzione francese non sono affatto quelli dell'eguaglianza civile, che furono regolati assai presto e definitivamente - o almeno per i due secoli avvenire. Il problema più importante è invece l'articolazione del nuovo corpo politico, il progresso della libertà, perché dopo tutto, nella Rivoluzione francese, dei quattro regimi che ho enumerato prima, ce ne sono due liberali, per esprimersi concisamente, e due del tutto illiberali: il Terrore e Napoleone. In seguito, rileggendo attentamente Marx, scrivendo su di lui, ho scoperto che Marx, nelle opere della giovinezza, aveva già visto tutto ciò e che la storiografia del XX secolo, che avevamo chiamato marxista, era una storiografia leninista, piuttosto che una storiografia marxista propriamente detta. Come sempre Marx è stato atrocemente semplificato, mutilato proprio dalla sua vittoria e dal leninismo. Marx nelle opere della giovinezza, ne "La Sacra Famiglia", ne "La questione ebraica", nelle opere del l844-46, descrive la Rivoluzione francese come la dialettica del politico nella società moderna. Il problema della società politica moderna nasce dal presupposto che il corpo politico debba essere dedotto dalla società civile. E' costantemente presente nella società liberale moderna una debolezza della sfera politica, una difficoltà a costruire la sfera politica. E' questo che la Rivoluzione francese mostra con grande ricchezza di esempi.
Il giacobinismo nel suo senso originario, che è non soltanto quello di credere nello stato, ma più profondamente quello di effettuare una rottura nel tempo, mediante il volontarismo politico, l'essenza del giacobinismo è il trionfo della volontà sulle inerzie della società, mediante l'azione rivoluzionaria soggettiva degli uomini. Da questo punto di vista il bolscevismo è un giacobinismo. D'altronde i bolscevichi non hanno mai smesso di dichiararlo e nella loro prospettiva avevano ragione. Lenin viene dalla tradizione giacobina, attraverso mediazioni che si potrebbero facilmente ripercorrere attraverso il XIX secolo francese e russo. La filiazione giacobina dei bolscevichi non implica che le due Rivoluzioni si possano confrontare o anche semplicemente accostare. Al contrario, mi sembrano straordinariamente diverse. La Rivoluzione francese è una rivoluzione che consolida la proprietà borghese, che crea una massa di nuovi possidenti; la Rivoluzione russa distrugge la società civile, l'aristocrazia, la borghesia, e in seguito i contadini e la classe operaia, fino a che non c'è più società nel senso di una società organizzata. Mentre in Francia il giacobinismo è durato solamente due anni, dal l792 al l794, nella Rivoluzione russa, il bolscevismo può essere analizzato, nella stessa prospettiva, come un giacobinismo catastrofico, un giacobinismo spinto alle estreme conseguenze. Se si prolunga idealmente la dittatura di Robespierre fino al l840 si ottiene l'immagine della Rivoluzione russa. E' piuttosto curioso che tanti spiriti lucidi abbiano potuto istituire un parallelo tra la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa, quando in fondo le due rivoluzioni non hanno altro in comune che quel rapporto immaginario, quell'ambizione prometeica, che ci ha fatto sognare tutti e donde la Rivoluzione russa ha tratto i suoi sortilegi, la magia che ha esercitato sugli uomini del XX secolo.
La società moderna che possiamo chiamare anche "società borghese" - è una definizione come un'altra: non mi disturba affatto - o "società capitalista", è una società che non si può amare. Non si può amare perché manca di una legittimazione profonda. La società aristocratica ha una legittimità profonda, perché l'aristocrazia ha origini remote, la legittimità le è conferita dal suo passato. La società monarchica è legittima nella misura in cui un re è qualcosa di più del suo corpo, della sua semplice presenza: è una presenza immaginaria nella quale l'insieme del corpo sociale si può riconoscere. Un socialista trae la sua legittimità morale dal fatto di combattere per un mondo di cui non farà parte: vedo in ciò una forma di disinteresse. Un borghese non è nulla, consiste tutto nella sua ricchezza, non ha legittimità nell'immaginazione degli uomini. E poi la ricchezza è aleatoria. Il borghese è ricco, ma avrebbe potuto essere povero, così come il povero avrebbe potuto essere ricco. In altri termini, nella società borghese c'è un consenso debole, perché l'autorità non è legittima. Proprio quando le società hanno più bisogno del consenso dei governati, poiché le società democratiche sono fondate sul consenso della volontà, proprio allora è più difficile ottenere il consenso, perché manca una classe dirigente politica rispettabile. Da qui nasce la crisi della società borghese, da cui non siamo ancora usciti, perché la fine del comunismo non ha reso più accettabili le società borghesi, ma le ha lasciate con tutti i loro difetti. Ha semplicemente privato una parte delle frustrazioni di quella specie di sbocco illusorio che era una società di tipo sovietico. Questo è il problema di fondo. Il fatto che le masse, come anche gli intellettuali d'altronde, siano entrate nell'illusione non è affatto misterioso, mi sembra anzi comprensibile. Anche in ciò che concerne il fascismo, si sa che oggi è diventato quasi impossibile parlare del fascismo: è un po' come se ci fosse una interdizione morale, che per lo storico è un elemento di disturbo. La storia cerca di comprendere il passato, e in passato il fascismo ha suscitato in Europa - non soltanto in Italia o in Germania, ma anche in altri paesi d'Europa - l'entusiasmo di milioni di uomini e questo è un fatto storico che bisogna comprendere. Non basta criminalizzare il fascismo, per darne una interpretazione storica, perché se lo si criminalizza, non si comprende più la sua forza d'attrazione. La sola maniera di comprendere la seduzione che ha esercitato il fascismo - io credo - è quella che ho tentato io, provando a ricomporre che cosa ha potuto essere, negli anni Trenta, una speranza fascista, quali erano le aspettative della gente. Quelle aspettative per me erano chiaramente: una rottura con l'angoscia dell'individualismo borghese, una ricerca della comunità fraterna, il superamento del mondo dell' interesse e del denaro. La società liberale veniva colpita nel suo punto debole. Potrei fare un'analisi differente, ma un po' negli stessi termini, della speranza comunista. Il comunismo non è più una speranza vissuta sotto il segno dell'elemento nazionale o della comunità nazionale, ma in nome dell'universalmente umano, dell'emancipazione dell'umanità. In questo senso ritrova l'utopia liberale, perché già l'utopia liberale non ha più la nazione, ma il genere umano come orizzonte, è universalista, come mostra la Rivoluzione francese dell'89. Il comunismo ha conferito un supplemento di verosimiglianza all'universalismo liberale.
Il comunismo è stato una tragedia soprattutto per il popolo russo, nei confronti del quale gli europei occidentali hanno manifestano sempre una profonda indifferenza. Perciò la tragedia russa è stata considerata come un'occasione perduta, mentre i comunisti italiani e francesi si sono trovati dal lato giusto. Sono stati protetti in un certo modo dall'antifascismo, che è stato la grande benedizione e al tempo stesso la grande maschera del comunismo. Non si può non essere profondamente colpiti dalla differenza del trattamento che subiscono nei nostri paesi comunismo e fascismo. Il fascismo è esecrato, criminalizzato, al punto che è quasi vietato tenere su di esso un discorso storico e d'altronde è bizzarramente, costantemente riesumato sotto le forme dell'antifascismo. Non si riflette abbastanza al fatto che mentre da cinquant'anni non esiste più un regime fascista, non c'è mai stato un antifascismo così forte come oggi. C'è una frase di Orwell che mi ha sempre meravigliato, ma che continua ad essere vera: la sinistra europea è antifascista, non antitotalitaria. E' profondamente vero: la sinistra europea non ha un autentico amore per la libertà. Allora che cosa succede in Francia? Quello che ho detto è particolarmente vero per la Francia. In Francia c'è un forte partito socialista che ha mantenuto un completo silenzio sul crollo dell'Unione Sovietica e un partito comunista, in via di riconversione - anche se meno del Partito Democratico della Sinistra in Italia - composto in gran parte di quadri anziani, che dal punto di vista intellettuale sono ancora fermi alla vecchia idea di pianificazione statale dell'economia, ecc. ecc. Noi abbiamo questa sinistra a metà riconvertita e a metà non riconvertita, che continua a incarnare una tradizione antiliberale, da duecento anni assai forte, in Francia, come in Italia. Dunque non è morta, ma è stata ripresa su un modo minore, perché questi partiti antiliberali sono tuttavia europeisti. E qui vedo una contraddizione fondamentale, perché l'Europa si fa essenzialmente in nome di valori liberali. Soltanto l'avvenire potrà togliere questa contraddizione.
Io ho il più grande rispetto per la sinistra socialista, che è rimasta libertaria. Noto d'altronde che molte lucide critiche del bolscevismo sono state fatte all'inizio da gente di sinistra, come Kautsky, Léon Blum, Koestler, Souvarine: la critica dell'esperienza bolscevica è cominciata a sinistra. Ma sono rimaste voci inascoltate, a cui non si è dato credito. Quanto a me, quello che mi interessa è precisamente che l'Unione sovietica nonostante il suo corso sia riuscita a cristallizzare intorno a sé la speranza. Perché, quando si prende in esame la storia del XX secolo, si è obbligati a riconoscere, se si fa storia con obbiettività, che la fede comunista si è largamente, massicciamente incarnata nell'Unione Sovietica. Il fatto sorprendente è che questa fede si sia sviluppata nonostante la tragicità di quella esperienza. Con ciò non intendo dire che a sinistra non ci siano state delle menti lucide. Ce ne sono state e ne ho il massimo rispetto. Io considero Koestler come uno dei maggiori scrittori del secolo, Kautsky come uno dei più grandi marxisti della storia europea, ma non hanno avuto credito, sono rimasti delle voci isolate. Si osservi la scena politica francese o italiana negli anni Quaranta, alla fine della guerra: l'Unione sovietica è riuscita a incarnare di nuovo la speranza comunista. E' questo il problema che mi appassiona: la storia di una speranza impiantata su una tragedia, il fatto che il tragico corso del bolscevismo non abbia distrutto la speranza. E in fondo la speranza è rimasta viva fino a Gorbacev, perché ancora sotto Gorbacev si spera di trovare una via d'uscita. Solo dopo la caduta di Gorbacev la speranza è venuta meno.
Nella storia della Chiesa agisce la divinità, la cui realtà è trascendente, esterna al mondo e quindi non può essere vinta dalla storicità. Il fatto inaudito nella storia del comunismo è che siamo di fronte a una religione dell'immanenza, che sopravvive allo spettacolo dell'immanenza. In questo senso le cose sono, nei due casi, completamente diverse. D'altronde così si spiega, probabilmente anche perché l'idea comunista ha avuto vita breve. In fondo è durata solo settant'anni: un tempo straordinariamente breve. Ma, per il suo carattere di universalità, l'idea comunista è arrivata più lontano, nel mondo, dell'idea cristiana. Parecchi paesi asiatici, non raggiunti dal cristianesimo, sono stati mobilitati, nel XX secolo, dall'idea comunista. E' un'idea con una enorme forza di penetrazione, ma di breve durata. Il compito che mi sono posto è stato di mostrare che si poteva fare una storia dell'immaginazione politica, che l'immaginazione politica poteva essere un soggetto storico. Come si è nutrita, che cosa l'ha costituita? Come si è sviluppata? Dopo tutto, quando fanno politica i cittadini moderni, che generalmente non sono religiosi, la fanno per convinzione, non per interesse. Fanno politica perché hanno un'idea dell'avvenire, perché hanno un'idea dell'interesse generale, del benessere dei loro concittadini ecc. E anche qui il discorso si annoda con la mia biografia, perché in fondo tento di comprendere la mia vita. In gioventù sono stato comunista e poi ho voluto capire perché questa idea è stata così forte, com'è stato possibile che una persona come me, che sono così analitico, e che lo ero anche da giovane, sia potuta entrare in quella illusione.
Pensare la Rivoluzione francese, 1978
mercoledì 24 luglio 2013
Lucy Riall su Bronte
Masolino D'Amico
La Stampa, 19 luglio 2013
Nel 1860 il paesino etneo di Bronte era tra i luoghi più depressi di tutta la Sicilia, ma quando, incoraggiati dalle notizie dello sbarco dei Mille, i contadini affamati si provarono a occupare le terre, la loro ribellione fu sanguinosamente repressa dagli stessi garibaldini, pronti a schierarsi con l'ordine costituito. L'episodio è stato rievocato, più o meno polemicamente, più volte, anche in una pellicola di Florestano Vancini del 1972 (Bronte, cronaca di un massacro), che la Rai dopo averla commissionata come serie di tre puntate mandò in onda una volta sola, in veste ridotta e in un giorno diverso da quelli in cui abitualmente si trasmettevano film. Oggi il libro di una storica inglese, Lucy Riall - Under the Volcano - Revolution in a Sicilian Town (Oxford University Press) - ricostruisce con eccellente documentazione la vicenda, i cui antecedenti e il cui seguito sembrano istruttivi almeno quanto il fatto stesso.
Tutto ebbe inizio molti anni prima del 1860, addirittura nel 1799. In quell'anno re Ferdinando - III di Sicilia, IV di Napoli e I delle Due Sicilie -, minacciato dall'avanzata delle truppe francesi, fuggì a Palermo a bordo della nave da guerra dell'ammiraglio Nelson; e una volta tratto in salvo ricompensò grandiosamente il suo salvatore nominandolo duca di Bronte e regalandogli in quel luogo una ampia tenuta, che comprendeva il paesino stesso e il convento in disuso di Maniace. Nelson non vide mai il suo feudo, ma prima di morire a Trafalgar fece in tempo a vagheggiare di stabilirvisi un giorno con la sua amante Lady Hamilton. Il dono passò poi ai suoi discendenti Bridport, che, pur continuando a tenersi alla larga dal luogo, si fregiarono del titolo. A quanto pare «Bronte» suonava bene; così quando si trasferì in Inghilterra per farvi carriera un oscuro ma ambizioso parroco irlandese cambiò proprio in «Bronte» il suo cognome poco nobile - si chiamava Patrick Brunty - scrivendolo con una dieresi sulla e finale per garantirsi che fosse pronunciato bisillabo; ed è come Brontë che le tre grandi romanziere sue figlie diventarono famose.
Occupando le terre di Bronte, i contadini del 1860 reagivano dunque a un caso di assenteismo ancora più clamoroso di quello vigente in altri latifondi: qui i proprietari erano addirittura stranieri che nessuno aveva mai visto. Ma l'Inghilterra era una potente nazione da tenersi amica, tanto più in quel momento. Così a reprimere la sommossa fu mandato il più energico e il meno scrupoloso dei conquistatori, ovvero Nino Bixio. La Riall lo tratta meglio di altri cronisti, attribuendogli anche un certo rammarico per l'azione compiuta, ma non tace sui suoi metodi spicci, che comportarono la fucilazione di cinque insorti scelti senza troppo discriminare (tra loro c'erano lo scemo del villaggio e l'avvocato liberale Niccolò Lombardo, che aveva tentato di calmare le acque).
Dopodiché Bronte rimase a disposizione dei suoi lontani e invisibili padroni inglesi ancora per un altro secolo. Solo negli anni 1930 il quinto Duca si trasferì sul posto e tentò di impiantarvi un'attività; D. H. Lawrence, che lo incontrò durante il suo viaggio in Sicilia, lo descrisse come un cretino. Né lui né i suoi successori comunque si mescolarono mai alla popolazione locale. Da ultimo, nel 1969, lo Stato italiano acquistò la proprietà. Oggi il latifondo è un parco pubblico, e Bronte si autodefinisce non senza fierezza la «capitale mondiale del pistacchio».
La Stampa, 19 luglio 2013
Nel 1860 il paesino etneo di Bronte era tra i luoghi più depressi di tutta la Sicilia, ma quando, incoraggiati dalle notizie dello sbarco dei Mille, i contadini affamati si provarono a occupare le terre, la loro ribellione fu sanguinosamente repressa dagli stessi garibaldini, pronti a schierarsi con l'ordine costituito. L'episodio è stato rievocato, più o meno polemicamente, più volte, anche in una pellicola di Florestano Vancini del 1972 (Bronte, cronaca di un massacro), che la Rai dopo averla commissionata come serie di tre puntate mandò in onda una volta sola, in veste ridotta e in un giorno diverso da quelli in cui abitualmente si trasmettevano film. Oggi il libro di una storica inglese, Lucy Riall - Under the Volcano - Revolution in a Sicilian Town (Oxford University Press) - ricostruisce con eccellente documentazione la vicenda, i cui antecedenti e il cui seguito sembrano istruttivi almeno quanto il fatto stesso.
Tutto ebbe inizio molti anni prima del 1860, addirittura nel 1799. In quell'anno re Ferdinando - III di Sicilia, IV di Napoli e I delle Due Sicilie -, minacciato dall'avanzata delle truppe francesi, fuggì a Palermo a bordo della nave da guerra dell'ammiraglio Nelson; e una volta tratto in salvo ricompensò grandiosamente il suo salvatore nominandolo duca di Bronte e regalandogli in quel luogo una ampia tenuta, che comprendeva il paesino stesso e il convento in disuso di Maniace. Nelson non vide mai il suo feudo, ma prima di morire a Trafalgar fece in tempo a vagheggiare di stabilirvisi un giorno con la sua amante Lady Hamilton. Il dono passò poi ai suoi discendenti Bridport, che, pur continuando a tenersi alla larga dal luogo, si fregiarono del titolo. A quanto pare «Bronte» suonava bene; così quando si trasferì in Inghilterra per farvi carriera un oscuro ma ambizioso parroco irlandese cambiò proprio in «Bronte» il suo cognome poco nobile - si chiamava Patrick Brunty - scrivendolo con una dieresi sulla e finale per garantirsi che fosse pronunciato bisillabo; ed è come Brontë che le tre grandi romanziere sue figlie diventarono famose.
Occupando le terre di Bronte, i contadini del 1860 reagivano dunque a un caso di assenteismo ancora più clamoroso di quello vigente in altri latifondi: qui i proprietari erano addirittura stranieri che nessuno aveva mai visto. Ma l'Inghilterra era una potente nazione da tenersi amica, tanto più in quel momento. Così a reprimere la sommossa fu mandato il più energico e il meno scrupoloso dei conquistatori, ovvero Nino Bixio. La Riall lo tratta meglio di altri cronisti, attribuendogli anche un certo rammarico per l'azione compiuta, ma non tace sui suoi metodi spicci, che comportarono la fucilazione di cinque insorti scelti senza troppo discriminare (tra loro c'erano lo scemo del villaggio e l'avvocato liberale Niccolò Lombardo, che aveva tentato di calmare le acque).
Dopodiché Bronte rimase a disposizione dei suoi lontani e invisibili padroni inglesi ancora per un altro secolo. Solo negli anni 1930 il quinto Duca si trasferì sul posto e tentò di impiantarvi un'attività; D. H. Lawrence, che lo incontrò durante il suo viaggio in Sicilia, lo descrisse come un cretino. Né lui né i suoi successori comunque si mescolarono mai alla popolazione locale. Da ultimo, nel 1969, lo Stato italiano acquistò la proprietà. Oggi il latifondo è un parco pubblico, e Bronte si autodefinisce non senza fierezza la «capitale mondiale del pistacchio».
martedì 23 luglio 2013
Goldrake alla terza generazione
Massimo Soumaré
recensione per L'Indice
Il cartone animato nipponico UFO Robot Goldrake (in originale UFO Robo Gurendaizâ),
creazione del fumettista Go Nagai, trasmesso dalla Rai per la prima
volta nel 1978, ha rappresentato per tutta una generazione o forse, a
ben riflettere, per almeno tre generazioni d’italiani una folgorante
novità rispetto al passato. Un cambiamento radicale i cui effetti si
sono incominciati ad analizzare solo di recente. Esistono, infatti,
attualmente diversi saggi sull’argomento, ma merito di Davide Tarò è
quello di aver trasposto per la prima volta questo tema in forma di
romanzo.
Emina OrfaniRobot
(pp. 256, €16, Torino 2012) edito dalla 001 Edizioni è l’opera prima
nel campo della narrativa dell’autore, già noto per saggi sul cinema e
sull’animazione giapponesi quali Oshii Mamoru, le affinità sotto il guscio, Morpheo Edizioni, 2006, e Satoshi Kon, il cinema attraverso lo specchio scritto con Enrico Azzano ed Andrea Fontana, Ass. Culturale Il Foglio, 2009.
Forte delle sue conoscenze nel settore, Tarò è
riuscito a creare un romanzo dall’impianto narrativo di estremo
interesse il quale non si limita a una mera forma d’imitazione di una
storia fantascientifica rielaborata da qualche manga o anime,
ma descrive le speranze e le delusioni di varie generazioni d’italiani
che hanno visto man mano frantumarsi le speranze della propria
fanciullezza. S’innesta inoltre abilmente sugli eventi politici e
sociali che hanno turbato la nostra penisola a partire dagli anni
sessanta fino ad oggi.
La fantascienza, per l’appunto, è un altro degli
elementi chiave di quest’opera ambientata in una Torino attuale ma al
contempo ucronica, in cui l’autore riesce anche ad analizzare le radici
dei miti della genesi di quella che è definita la “generazione mille euro”.
Protagonista di Emina OrfaniRobot
è il trentenne Nataniele Tandro, un alter-ego dello scrittore, il quale
rappresenta al contempo il meglio e il peggio degli individui prodotti
da una società che aveva promesso loro un futuro radioso e che invece ha
finito per erigergli intorno un muro di disperazione. Sostanzialmente
leale e sostenitore d’ideali positivi, Tandro è però privo di carattere e
apatico, divenendo perciò vittima della società. Il suo riscatto sembra
arrivare quando è assunto dalla Emina, una multinazionale che
inevitabilmente richiama alla mente certe note grandi industrie, per
pilotare una specie di robot gigante chiamato Simulacrum. Il
sogno avuto da bambino guardando Goldrake e gli altri cartoni animati
del Sol Levante sembra avverarsi, ma il protagonista scoprirà amaramente
che c’è una grande differenza tra gli ideali immaginati
nell’adolescenza e la cruda realtà del mondo dell’economia e della
politica.
Si tratta di un romanzo inconsueto, con una storia
affascinante dalle forti componenti sociali. Alcuni brani sono davvero
ispirati e capaci di coinvolgere profondamente il lettore. Certo, come
ci si può aspettare da un’opera prima, è innegabile che presenti dei
difetti. Alcune parti risultano prolisse e finiscono per appesantire la
scorrevolezza del testo senza, però, apportare elementi di rilievo alla
storia. Sembra quasi si sia tentato, troppo forzatamente, di voler
trasformare un buon romanzo di genere in uno di letteratura alta. Anche
gli eccessivi riferimenti agli anime giapponesi possono
confondere il lettore non esperto di questo genere. I brani tratti dalle
sigle italiane di varie serie animate che fungono da incipit all'inizio
di ogni capitolo non sono così necessari, giacché non hanno una vera
attinenza con i contenuti stessi. In ultimo, tutta la parte cronologica
in appendice avrebbe potuto tranquillamente essere eliminata.
Probabilmente un altro tipo di editing da parte dell’editore avrebbe
maggiormente giovato al volume.
Nonostante questi difetti, Emina OrfaniRobot
resta comunque un libro che vale la pena leggere e la cui originalità
non si può negare. Simbolo di una creatività sempre più presente al di
fuori dei prodotti della grande editoria e che meriterebbe una maggiore
considerazione anche da parte della critica letteraria.
Il volume è impreziosito da un’introduzione del saggista e sociologo Marco Pellitteri.
domenica 21 luglio 2013
Fenomenologia di Luciana Littizzetto 2
Guido Vitiello
L'Internazionale, 19 dicembre 2012
a proposito di Madama Sbatterflay, Mondadori
... c’è stato un momento, sul principio degli anni ottanta, in cui parevano contendersi la scena due tradizioni, due visioni della vita, due linguaggi e soprattutto due ritmi. C’era un umorismo flemmatico, filosofico, conviviale, ironico più che comico, che veniva dalla Magna Grecia e si era impiantato saldamente nella coscienza (e nella tv) nazionale grazie alle roccaforti di Quelli della notte e Indietro tutta, le due trasmissioni di Renzo Arbore.
Dal nord calavano invece i Longobardi del Drive in di Antonio Ricci, con i loro ritmi frenetici, la loro ilarità un po’ isterica, le loro risate registrate e un’attenzione mimetica (ancorché sociologicamente curiosa, e in questo ammirevole) per certi gerghi raccapriccianti dell’epoca, dai paninari ai bocconiani. Da quell’originario showdown, la geografia dell’umorismo italiano è cambiata: lasciando da canto la questione dei toscani (l’ultima parola a riguardo l’ha già detta Stanis LaRochelle), si può dire che i Padani hanno vinto, annettendosi anche una parte dell’umorismo dell’Italia centrale (il tipo parodistico del “coatto” romano, per dirne una, è ormai una macchietta da Drive in sotto mentite spoglie). Una colonizzazione che si è accompagnata alla funesta diffusione, in tutta la penisola, del costume celtico dell’aperitivo. Gli umoristi del “pensiero meridiano”, ahinoi, si sono pressoché estinti.
Luciana Littizzetto è il prodotto più basso di questo lungo processo, un punto di capitolazione su cui si scaricano il peggio dell’antonioriccismo nella variante Gabibbo, il peggio del beppegrillismo e della tradizione ligure, il peggio del cabaret televisivo alla Zelig e una nota di virtuosismo verbale da coattismo neoverdoniano, il tutto tenuto insieme da una visione del mondo da Bagaglino ripulito e democratico. Dimentichiamoci per un attimo, con sovrumani sforzi di autocontrollo, della voce della Littizzetto e della cadenza della sua parlata (il nostro è un processo inquisitorio e rigorosamente cartolare, dove l’oralità non trova spazio) e dedichiamoci a questa sua pagina. Distinguendo, alla buona, tra il cosa e il come, poiché “la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l’ornamento de le parole”.
L’ornamento de le parole, qui, è fatto per lo più di similitudini iperboliche e immaginose nello stile del “barocco coatto”: i vip si rifidanzano nel “tempo di evacuazione di una rondine”, alla “velocità del bosone di Ginevra”, o ancora nel “tempo che ci metteva il Trota per dire una boiata”; Belén che ti si offre è “come vedere le cascate del Niagara andare al contrario”, e così via. Poca cosa, ne converrete: modi artificiosi per travestire banalità (il Trota è stupido, le bellone della tv non te la daranno mai, ahahah).
Poi c’è tutto un metaforeggiare facilotto intorno agli organi sessuali: “poco bijoux” (con una x di troppo), “poco asparago”, un “cucchiaino da caffè”, sul versante fallico; la “cruna”, sull’altro versante (e almeno per una pagina ci è risparmiata la “Jolanda”, che ci fa piangere calde lacrime di nostalgia per l’Ubalda dei decamerotici). E c’è infine un continuo rifarsi ai tic verbali e alle parlate in voga (“per questi qua rifidanzarsi è un attimo”), rispetto alle quali la Littizzetto ha la sola funzione di spugna, che assorbe e risputa sciattamente, e non già quella di cozza, che quanto meno depura le acque torbide.
Fin qui l’ornamento. Ma che cosa adorna, questo ornamento? Dov’è la “bontade” della sentenza? Tutto questo ammiccare, questo dar gomitatine d’intesa, su cosa ci chiede di convenire? Non vogliamo farne una questione politica o ideologica, beninteso, siamo solo ipersensibili alla banalità e alla noia. E sotto la bigiotteria grossolana del linguaggio-Littizzetto si cela la banalissima, noiosissima Weltanschauung-Littizzetto (lei direbbe Walterschauung, e sai che ridere). Una cosa a metà tra il Bagaglino, la commedia sexy degli anni settanta – che rimane a confronto un vertice di eleganza inarrivabile –, il tormentone Marte/Venere e il lamento ironico della casalinga esasperata.
Una visione ossessionata non tanto dal sesso, che è pur sempre una delle fonti della grande comicità, quanto proprio dagli organi genitali (il meglio che la Littizzetto sa inventarsi su Corona è “quel suo pendere in avanti”) e da relazioni uomo-donna ferme alla terza media. I maschi sono erotomani che sbavano indistintamente se una bella donna “gliela tira dietro”, “gliela porge”, “sventola il lepidottero” o “la dona”. Le donne, le altre, quelle escluse dalla partita scimmione-vuole-oca, sono pettegole che guardano alla vita dei belli o dei vip con un misto di ironia, di orgoglio da bruttine-ma-simpatiche e di blanda condiscendenza (modello, peraltro, che vanta molte sciagurose carriere giornalistiche al femminile). E va bene che non vogliamo farne una questione politica, ma il lepidottero di Belén fa meno danni all’immagine della donna delle battute della Littizzetto sul lepidottero di Belén.
L'Internazionale, 19 dicembre 2012
a proposito di Madama Sbatterflay, Mondadori
... c’è stato un momento, sul principio degli anni ottanta, in cui parevano contendersi la scena due tradizioni, due visioni della vita, due linguaggi e soprattutto due ritmi. C’era un umorismo flemmatico, filosofico, conviviale, ironico più che comico, che veniva dalla Magna Grecia e si era impiantato saldamente nella coscienza (e nella tv) nazionale grazie alle roccaforti di Quelli della notte e Indietro tutta, le due trasmissioni di Renzo Arbore.
Dal nord calavano invece i Longobardi del Drive in di Antonio Ricci, con i loro ritmi frenetici, la loro ilarità un po’ isterica, le loro risate registrate e un’attenzione mimetica (ancorché sociologicamente curiosa, e in questo ammirevole) per certi gerghi raccapriccianti dell’epoca, dai paninari ai bocconiani. Da quell’originario showdown, la geografia dell’umorismo italiano è cambiata: lasciando da canto la questione dei toscani (l’ultima parola a riguardo l’ha già detta Stanis LaRochelle), si può dire che i Padani hanno vinto, annettendosi anche una parte dell’umorismo dell’Italia centrale (il tipo parodistico del “coatto” romano, per dirne una, è ormai una macchietta da Drive in sotto mentite spoglie). Una colonizzazione che si è accompagnata alla funesta diffusione, in tutta la penisola, del costume celtico dell’aperitivo. Gli umoristi del “pensiero meridiano”, ahinoi, si sono pressoché estinti.
Luciana Littizzetto è il prodotto più basso di questo lungo processo, un punto di capitolazione su cui si scaricano il peggio dell’antonioriccismo nella variante Gabibbo, il peggio del beppegrillismo e della tradizione ligure, il peggio del cabaret televisivo alla Zelig e una nota di virtuosismo verbale da coattismo neoverdoniano, il tutto tenuto insieme da una visione del mondo da Bagaglino ripulito e democratico. Dimentichiamoci per un attimo, con sovrumani sforzi di autocontrollo, della voce della Littizzetto e della cadenza della sua parlata (il nostro è un processo inquisitorio e rigorosamente cartolare, dove l’oralità non trova spazio) e dedichiamoci a questa sua pagina. Distinguendo, alla buona, tra il cosa e il come, poiché “la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l’ornamento de le parole”.
L’ornamento de le parole, qui, è fatto per lo più di similitudini iperboliche e immaginose nello stile del “barocco coatto”: i vip si rifidanzano nel “tempo di evacuazione di una rondine”, alla “velocità del bosone di Ginevra”, o ancora nel “tempo che ci metteva il Trota per dire una boiata”; Belén che ti si offre è “come vedere le cascate del Niagara andare al contrario”, e così via. Poca cosa, ne converrete: modi artificiosi per travestire banalità (il Trota è stupido, le bellone della tv non te la daranno mai, ahahah).
Poi c’è tutto un metaforeggiare facilotto intorno agli organi sessuali: “poco bijoux” (con una x di troppo), “poco asparago”, un “cucchiaino da caffè”, sul versante fallico; la “cruna”, sull’altro versante (e almeno per una pagina ci è risparmiata la “Jolanda”, che ci fa piangere calde lacrime di nostalgia per l’Ubalda dei decamerotici). E c’è infine un continuo rifarsi ai tic verbali e alle parlate in voga (“per questi qua rifidanzarsi è un attimo”), rispetto alle quali la Littizzetto ha la sola funzione di spugna, che assorbe e risputa sciattamente, e non già quella di cozza, che quanto meno depura le acque torbide.
Fin qui l’ornamento. Ma che cosa adorna, questo ornamento? Dov’è la “bontade” della sentenza? Tutto questo ammiccare, questo dar gomitatine d’intesa, su cosa ci chiede di convenire? Non vogliamo farne una questione politica o ideologica, beninteso, siamo solo ipersensibili alla banalità e alla noia. E sotto la bigiotteria grossolana del linguaggio-Littizzetto si cela la banalissima, noiosissima Weltanschauung-Littizzetto (lei direbbe Walterschauung, e sai che ridere). Una cosa a metà tra il Bagaglino, la commedia sexy degli anni settanta – che rimane a confronto un vertice di eleganza inarrivabile –, il tormentone Marte/Venere e il lamento ironico della casalinga esasperata.
Una visione ossessionata non tanto dal sesso, che è pur sempre una delle fonti della grande comicità, quanto proprio dagli organi genitali (il meglio che la Littizzetto sa inventarsi su Corona è “quel suo pendere in avanti”) e da relazioni uomo-donna ferme alla terza media. I maschi sono erotomani che sbavano indistintamente se una bella donna “gliela tira dietro”, “gliela porge”, “sventola il lepidottero” o “la dona”. Le donne, le altre, quelle escluse dalla partita scimmione-vuole-oca, sono pettegole che guardano alla vita dei belli o dei vip con un misto di ironia, di orgoglio da bruttine-ma-simpatiche e di blanda condiscendenza (modello, peraltro, che vanta molte sciagurose carriere giornalistiche al femminile). E va bene che non vogliamo farne una questione politica, ma il lepidottero di Belén fa meno danni all’immagine della donna delle battute della Littizzetto sul lepidottero di Belén.
Per non dire dell’immagine dei maschi, amabili
bestioni che hanno il solo problema del pisellino o del pisellone, che
sono ipocondriaci, che si fanno male la doccia, che non puliscono i
bicchieri o che lasciano “merde a forma di piede” (orrore) per essere
passati “avanti e indietro nella fanga” (doppio orrore). Ma il solo
citare queste parole ci riporta il sangue alla testa, e prima di
commettere qualche imprudenza convochiamo in fretta il plotone e
facciamola finita, per chiudere questo libro e non doverlo riaprire mai
più.
Fenomenologia di Luciana Littizzetto 1
Antonio D'Orrico
Corriere della Sera, la Lettura
a proposito di Luciana Littizzetto Franca Valeri, L'educazione delle fanciulle, Einaudi
Quando leggi Franca Valeri senti che è vicina di pianerottolo di Gadda e Arbasino. Abita in quel condominio. Prendete questo pezzetto sulla Signorina Snob, il suo famoso personaggio: «La Signorina Snob, se vogliamo tirarla in ballo, per viaggi, cene, teatri era più fornita di amici maschi (amicizia, s’intende), il Pierone, il Mimi genio, il Lodo e il Tato inseparabili come pappagalli, eccetera. Era meno benevola con le amiche. Quella tonta integrale dell’Ildefonsa, sai che non legge al di là di Pinocchio? La Camillona (40 di piede) non ti si presenta alla Scala col vestito dell’anno scorso?». Oltre a Gadda e Arbasino, si sente anche un po’ di Moravia: «La noia siamo noi. Ho concluso dopo molti anni di vita che lei non esiste. È un tema letterario». E non manca naturalmente la perfida grazia settecentesca: «Mi torna in mente Madame de la Ferté, che in Bavardages (vuol dire “chiacchiere”) scrisse: “Le donne non hanno ancora capito che i gatti sono più belli di loro”». La prosa di Luciana Littizzetto è tutt’altra cosa. È così: «A proposito di cuoche, e cambiando argomento ché ne ho bisogno, io sono molto affezionata alla minestrina. Quand’ero piccola mi faceva cagarissimo». Ed è anche così: «Lui dice: “Che film preferisci?”. E tu: “Mah, fai tu!”. “Vuoi vedere un western?”. E tu: “Sì, sì, figurati!”. Che poi magari ti fa orrore il western… Oppure: “Senti, andiamo a mangiar la trippa?”. E tu: “Ah, non l’ho mai assaggiata la trippa. Uao!”. In realtà ti fa cagarissimo!». La cosa più incredibile è che, in copertina, il nome della Littizzetto precede quello della Valeri, come se fosse la sua la firma più importante. Direbbe Madame de la Ferté: «La Littizzetto (che mi fa cagarissimo!) non ha ancora capito che la Valeri è molto più grande di lei».
Corriere della Sera, la Lettura
a proposito di Luciana Littizzetto Franca Valeri, L'educazione delle fanciulle, Einaudi
Quando leggi Franca Valeri senti che è vicina di pianerottolo di Gadda e Arbasino. Abita in quel condominio. Prendete questo pezzetto sulla Signorina Snob, il suo famoso personaggio: «La Signorina Snob, se vogliamo tirarla in ballo, per viaggi, cene, teatri era più fornita di amici maschi (amicizia, s’intende), il Pierone, il Mimi genio, il Lodo e il Tato inseparabili come pappagalli, eccetera. Era meno benevola con le amiche. Quella tonta integrale dell’Ildefonsa, sai che non legge al di là di Pinocchio? La Camillona (40 di piede) non ti si presenta alla Scala col vestito dell’anno scorso?». Oltre a Gadda e Arbasino, si sente anche un po’ di Moravia: «La noia siamo noi. Ho concluso dopo molti anni di vita che lei non esiste. È un tema letterario». E non manca naturalmente la perfida grazia settecentesca: «Mi torna in mente Madame de la Ferté, che in Bavardages (vuol dire “chiacchiere”) scrisse: “Le donne non hanno ancora capito che i gatti sono più belli di loro”». La prosa di Luciana Littizzetto è tutt’altra cosa. È così: «A proposito di cuoche, e cambiando argomento ché ne ho bisogno, io sono molto affezionata alla minestrina. Quand’ero piccola mi faceva cagarissimo». Ed è anche così: «Lui dice: “Che film preferisci?”. E tu: “Mah, fai tu!”. “Vuoi vedere un western?”. E tu: “Sì, sì, figurati!”. Che poi magari ti fa orrore il western… Oppure: “Senti, andiamo a mangiar la trippa?”. E tu: “Ah, non l’ho mai assaggiata la trippa. Uao!”. In realtà ti fa cagarissimo!». La cosa più incredibile è che, in copertina, il nome della Littizzetto precede quello della Valeri, come se fosse la sua la firma più importante. Direbbe Madame de la Ferté: «La Littizzetto (che mi fa cagarissimo!) non ha ancora capito che la Valeri è molto più grande di lei».
sabato 20 luglio 2013
Gian Enrico Rusconi, L'esecutivo perde credibilità
La credibilità del governo non si misura soltanto con l'intenzione di mantenere gli impegni di crescita interna e di rispondere alle attese europee. La credibilità del governo dipende dalla sua dignità politica. Ai «compiti a casa» deve corrispondere trasparenza e coerenza su questioni che toccano i diritti fondamentali.
La responsabilità per la «storia inaudita» del caso Ablyazov (come l'ha definita il presidente Giorgio Napolitano) va chiarita e risolta in modo esemplare. Non sotto il ricatto della caduta del governo. Con quale faccia infatti Enrico Letta si presenterà agli incontri europei se «una reticente e distorta rappresentazione del caso e di pressioni e interferenze» (parole di Napolitano) ha coinvolto i vertici del ministero degli interni, ma viene banalizzata e manipolata? «Risolta all'italiana» - come già ridacchiano all'estero.
È inutile chiederci che cosa sarebbe successo in Germania se si fosse verificato qualcosa del genere. Il paradosso ora è che da noi si cerca di disinnescare malamente la gravità dell'episodio per non turbare i tedeschi. I mercati magari saranno contenti che il governo Letta sopravviva, ma il prestigio italiano e la sua credibilità scenderanno ancora più in basso. Non credo che la drammatica raccomandazione del Presidente della Repubblica a non mettere «a repentaglio la continuità di quest» governo», comprendesse questo prezzo. Ma evidentemente non la pensano così i senatori del Pd che oggi voteranno «no» alla sfiducia individuale ad Alfano. Le raccomandazioni del Presidente li sollevano dalla responsabilità politica di risparmiare un ministro inadeguato per salvare il governo. Non è un buon servizio all'Italia.
Ancora una volta Giorgio Napolitano ha svolto il suo ruolo autorevole - unica autorità di fatto in un sistema politico alla deriva. Ma, come mai prima d'ora, sta toccando il limite della sua capacità di persuasione. Non c'è dubbio che «oggi nella attenzione collettiva deve avere il primo posto la criticità delle condizioni economiche e sociali del paese» e quindi «il cronoprogramma di diciotto mesi per le riforme» (come precisa Napolitano). Ma non al prezzo di metter a repentaglio altri valori fondamentali.
Questo obiettivo minimale si sarebbe potuto ottenere con una semplice operazione: Angelino Alfano si ritira dalle sue cariche ministeriali e cede il posto ad un altro rappresentante del Pdl. Se una soluzione tanto ovvia non si verifica, vuoi dire che nella compagine delle «larghe intese» non funziona il requisito fondamentale per cui chi mostra incompetenza o inadeguatezza o dabbenaggine deve pagare. Perché ha (giustamente) pagato la ministra Josefa Idem per un errore meno grave, e non deve pagare Alfano per una inadeguatezza enormemente più seria.
So bene che le mie parole suonano ingenue ai sofisticati commentatori della cronaca politica. Il clima nel Pdl infatti è profondamente alterato per il profilarsi di un altro evento che potrebbe essere ben più drammatico dell'allontanamento di Alfano. È l'imminente sentenza giudiziaria finale per Berlusconi. L'ipotesi di una condanna definitiva sta facendo perdere la testa ai vertici del Pdl. Ma evidentemente anche ad una parte dell'alta nomenklatura del Pd.
In questo clima l'invito di Napolitano ad affidarsi con fiducia alla Cassazione suona illusorio. In realtà la sentenza potrebbe creare uno di quei momenti che (per usare ancora una volta le parole del Presidente della Repubblica, riferite al recente passato) potrebbero contenere «rischi di paralisi nella vita pubblica senza precedenti». Non voglio credere che quello che accadrà nelle prossime ore nel mondo politico possa essere l'anticipazione dello scenario, assai più traumatico, di fine mese. Per Napolitano sarà l'ultima sfida alla sua autorevolezza politica.
La Stampa, 19 luglio 2013, pp. 1 e 29.
La responsabilità per la «storia inaudita» del caso Ablyazov (come l'ha definita il presidente Giorgio Napolitano) va chiarita e risolta in modo esemplare. Non sotto il ricatto della caduta del governo. Con quale faccia infatti Enrico Letta si presenterà agli incontri europei se «una reticente e distorta rappresentazione del caso e di pressioni e interferenze» (parole di Napolitano) ha coinvolto i vertici del ministero degli interni, ma viene banalizzata e manipolata? «Risolta all'italiana» - come già ridacchiano all'estero.
È inutile chiederci che cosa sarebbe successo in Germania se si fosse verificato qualcosa del genere. Il paradosso ora è che da noi si cerca di disinnescare malamente la gravità dell'episodio per non turbare i tedeschi. I mercati magari saranno contenti che il governo Letta sopravviva, ma il prestigio italiano e la sua credibilità scenderanno ancora più in basso. Non credo che la drammatica raccomandazione del Presidente della Repubblica a non mettere «a repentaglio la continuità di quest» governo», comprendesse questo prezzo. Ma evidentemente non la pensano così i senatori del Pd che oggi voteranno «no» alla sfiducia individuale ad Alfano. Le raccomandazioni del Presidente li sollevano dalla responsabilità politica di risparmiare un ministro inadeguato per salvare il governo. Non è un buon servizio all'Italia.
Ancora una volta Giorgio Napolitano ha svolto il suo ruolo autorevole - unica autorità di fatto in un sistema politico alla deriva. Ma, come mai prima d'ora, sta toccando il limite della sua capacità di persuasione. Non c'è dubbio che «oggi nella attenzione collettiva deve avere il primo posto la criticità delle condizioni economiche e sociali del paese» e quindi «il cronoprogramma di diciotto mesi per le riforme» (come precisa Napolitano). Ma non al prezzo di metter a repentaglio altri valori fondamentali.
Questo obiettivo minimale si sarebbe potuto ottenere con una semplice operazione: Angelino Alfano si ritira dalle sue cariche ministeriali e cede il posto ad un altro rappresentante del Pdl. Se una soluzione tanto ovvia non si verifica, vuoi dire che nella compagine delle «larghe intese» non funziona il requisito fondamentale per cui chi mostra incompetenza o inadeguatezza o dabbenaggine deve pagare. Perché ha (giustamente) pagato la ministra Josefa Idem per un errore meno grave, e non deve pagare Alfano per una inadeguatezza enormemente più seria.
So bene che le mie parole suonano ingenue ai sofisticati commentatori della cronaca politica. Il clima nel Pdl infatti è profondamente alterato per il profilarsi di un altro evento che potrebbe essere ben più drammatico dell'allontanamento di Alfano. È l'imminente sentenza giudiziaria finale per Berlusconi. L'ipotesi di una condanna definitiva sta facendo perdere la testa ai vertici del Pdl. Ma evidentemente anche ad una parte dell'alta nomenklatura del Pd.
In questo clima l'invito di Napolitano ad affidarsi con fiducia alla Cassazione suona illusorio. In realtà la sentenza potrebbe creare uno di quei momenti che (per usare ancora una volta le parole del Presidente della Repubblica, riferite al recente passato) potrebbero contenere «rischi di paralisi nella vita pubblica senza precedenti». Non voglio credere che quello che accadrà nelle prossime ore nel mondo politico possa essere l'anticipazione dello scenario, assai più traumatico, di fine mese. Per Napolitano sarà l'ultima sfida alla sua autorevolezza politica.
La Stampa, 19 luglio 2013, pp. 1 e 29.
venerdì 19 luglio 2013
Salvatore Lupo, La trattativa
Salvatore Parlagreco
SiciliaInformazioni.com
14 luglio 2013
SiciliaInformazioni.com
14 luglio 2013
La
trattativa Stato-mafia regala al processo penale un fascino
irresistibile. Non è l’errore giudiziario che suscita grande interesse
ma la prospettiva che il processo affaccia: lo Stato che si fa
anti-Stato. Se l’atteggiamento dell’imputato determina generalmente il
stile del processo penale (connivenza, falsa o reale, o inconfessata
rottura), nel caso del processo di Palermo, è l’atteggiamento della pubblica accusa a determinarlo.
La pubblica accusa non è l’avamposto della giustizia, ma è portatrice
di valori: non cerca solo la verità processuale, ma la verità della
storia.
Salvatore Lupo, storico stimato e competente
– le sue analisi sul fenomeno mafioso sono molto apprezzate – è entrato
nel club degli eretici del processo alla trattativa, al quale si sono
iscritti, di diritto (nomen-omen), il giurista Giovanni Fiandaca e l’ex
magistrato antimafia, Peppino Di Lello ed Emanuele Macaluso, entrambi
esponenti della sinistra nazionale, relatori al convegno dello Steri di
Palermo, ormai pensato come il luogo dell’eresia nel silenzio dei media.
In un processo che sembra cercare la verità della storia, Salvatore Lupo non siede in platea, ma rivendica, senza avere alcuna voglia di costruire un contro-processo, il suo diritto alla ricerca storica.
“La storia che si fa scenario pubblico”, esordisce Salvatore Lupo, “è quella dei magistrati di Palermo”. Il processo è stato sempre un grande spettacolo pubblico. Perché dovrebbe fare eccezione il processo di Palermo?
Lo storico nega la premessa che giustifica il processo, al pari di Fiandaca e di Di Lello: “Non c’è mafia senza trattativa permanente con lo Stato”,
sostiene Lupo. “Qualunque crimine organizzato tratta con gli apparati
di sicurezza e qualunque apparato di sicurezza possiede una delega a
trattare con le mafie”.
Lo Stato, corregge Lupo, non può in ogni caso essere chiamato in causa, è semmai il governo che risponde dei suoi atti. Fu il governo democratico appena costituito a trattare con la mafia, non lo Stato, per catturare Salvatore Giuliano, ricorda Lupo. Fu la polizia fascista, il governo di Mussolini, a stipendiare il boss Jo Bonanno per spiare i nemici del regime.
La trattativa, di per sé, non è reato, perché è atto di governo.
Sono in tanti oggi a credere che
bisognasse trattare per liberare Aldo Moro. Ferdinando Impositato
attribuisce gravi responsabilità sull’assassinio dello statista
democristiano, è affermazione recente, a Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, che impedirono la trattativa.
Bisognava trattare per liberare Moro? Bisognava evitare per impedire la
strage di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma? “Sarebbe stata
ottima cosa trattare per prevenire la morte di decine di carabinieri”,
afferma senza esitazione Salvatore Lupo.
“La pretesa di combattere tutte le mafie non sta in piedi”, avverte quindi lo storico. Occorre trattare di volta in volta con la parte che serve per sconfiggere il crimine organizzato.
La mafia non è una sola. Con i collaboratori di giustizia si tratta
anche quando appare evidente che le loro rivelazioni sono parziali ed
interessate, al fine di servirsi degli apparati di sicurezza per
sconfiggere i clan avversi.
Non solo la trattativa governo-mafia è “condizione” del crimine organizzato, ma la trattativa del 92/93 di Palermo, sale senza alcun movente plausibile sul banco degli imputati.
Essa, osserva Lupo, “non registra alcun successo, anzi subisce una
sconfitta”, perché il regime carcerario di massima sicurezza, il 41 bis, viene mantenuto sia ai boss di prima grandezza quanto alle mezze tacche.
L’equilibrio fra i poteri dello Stato è
in pericolo, osserva Lupo, la cultura democratica sembra fare passi
indietro. La sicurezza, ricorda lo storico, appartiene agli apparati di
polizia, al Ministero degli Interni, è affidata alla responsabilità del
governo, non alla magistratura, cui spetta invece il compito di
perseguire il delitto, punire il reato, perseguire l’illecito.
“Non si chiama il magistrato per rendere la piazza del comizio più sicura, ma il questore o il prefetto”. Il processo penale va usato con parsimonia, ammonisce Lupo, “è la grande scure dello Stato, un modo estremamente violento di risolvere i conflitti”.
Il protagonismo della magistratura, conclude lo storico, è figlio della “supplenza” della politica e della debolezza delle forze di sicurezza.
L’equilibrio dei poteri, è nostra
considerazione, non si conquista per sempre. Le dinamiche sociali, la
cognizione dei valori e dei bisogni, i bisogni emergenti, l’evoluzione
della civiltà giuridica, dei diritti dei doveri, delle libertà
individuali e collettive, modificano continuamente il luogo su cui
poggia l’equilibrio, per sua natura instabile.
giovedì 18 luglio 2013
Gorbačëv, il percorso di una vita
Demetrio Volcic
recensione per L'Indice
Michail Gorbačëv, Ogni cosa a suo tempo. Storia della mia vita, ed. orig. 2013, trad. dal russo di Nadia Cicognini e Francesca Gori, pp. 493, € 20, Marsilio, Venezia 2013
Il titolo Ogni cosa a suo tempo indicherebbe
una vicenda ordinata, cosa che la vita di Gorbačëv proprio non è stata:
sbagliò mosse, compì passi troppo lunghi per superare la stagnazione o
troppo corti perché non trovava il guado. Ha avuto il tempo per finire
la guerra fredda. La perestrojka non è riuscita a produrre
risultati duraturi, per la brevità della gestione, dal 1985 al 1991, e
non ha dato molta gioia ai pensionati e alla gente semplice. Ha tuttavia
prodotto con El’cin oltre mille miliardari, secondo le stime degli
americani. Il regime ha alfabetizzato il paese, ha scritto un capitolo
di grande significato per la Russia, che si è iscritta nell’elenco delle
nobili utopie.
L’impero del male, l’Urss, per il presidente Reagan è diventato un
paese amico, e Gorbačëv ha trovato particolarmente simpatici gli indiani
che si battevano per un mondo denuclearizzato. Sobrio nel descrivere la
professione e la vita, privo di cinismo, semmai in alcuni momenti
innocente, per uno che dirige un variegato impero con migliaia di agenti
segreti e generali. Le sue ricette avrebbero dovuto valere per il
mondo, non solo per un paese in crisi. Finché parlava dell’atomo aveva
molto ascolto dappertutto.
A una festicciola universitaria conobbe una ragazza e
la invitò a fare due passi. Dopo alcune ore lui disse di aver gradito
la passeggiata e lei anche. Senza parlare eccessivamente degli affetti,
si amarono per cinquantasette anni. Raissa è stata la colonna portante
della loro vita, Gorbačëv la voleva sempre accanto nei momenti decisivi.
Prima delle visite all’estero lei si studiava le guide dei musei. Le
mogli degli statisti erano perplesse, consideravano le visite culturali
all’estero come momenti protocollari da sbrigare in cinque minuti.
Trattenendole a lungo, Raissa dimostrava la sua cultura e quella della
sua Russia. Piccole soddisfazioni.
Michail e Raissa venivano da villaggi dove non
esistevano né luce né telefono e quando si partiva per Mosca le valigie
di cartone erano enormi, ma buona parte del contenuto erano viveri. Il
nonno contadino di Raissa fu accusato di trotzkismo, condannato alla
fucilazione, ma la pena non fu eseguita. I genitori di Michail, anche
loro contadini, conobbero la persecuzione e il padre qualche anno di
prigione. Il futuro presidente non sapeva come presentare le biografie
dei genitori quando chiese l’iscrizione al Partito comunista.
Finiti
i quattro anni di studi a Mosca, la coppia tornò nella città di lui,
Stavropol, in una stanza con il letto di ferro troppo stretto e con la
rete che si piegava fino a toccare terra. Come tavolo usavano una
cassetta di legno per la frutta. Era un passo in avanti rispetto al
grande dormitorio dell’università sulle colline di Lenin, dove anche gli
studenti sposati non potevano stare insieme. Se Michail veniva a
trovare Raissa, poco dopo suonava il telefono per ammonire contro la
presenza di uno straniero nella stanza. Che i giovani imparino a essere
controllati! Si sono sposati a settembre, ma sono diventati di fatto
marito e moglie a ottobre, in un boschetto dietro all’università. Dopo
tre anni a Stavropol l’amministrazione cittadina assegnò ai due e alla
neonata figlia un monolocale di 38 mq, con una cucina di 12 mq, un
bagno, un gabinetto e un corridoio. Ai Gorbačëv sembrava di non aver più
bisogno di nient’altro nella vita.
I dissidenti di tutte le democrazie popolari, da
Dubček a Nagy, i grandi e piccoli Trockij, si battevano per un comunismo
diverso. La cornice socialista non è stata mai messa in dubbio. Le
vittime sono state spesso personaggi per una metà poeti e per l’altra
sognatori. I grandi dissidenti Solženicyn e Sacharov non sono mai stati
comunisti di professione, ma sono più noti all’estero che a casa loro.
Senza la crisi del regime pochi li avrebbero conosciuti. La salita era
riservata a chi aveva cominciato da piccolo.
I profili dei colleghi disegnati da Gorbačëv sembrano più esatti rispetto alla media dell’abituale cremlinologia.
Senza
Andropov probabilmente non sarebbe sorto un forte movimento riformista
nel partito. Il suo passato lasciava perplessità: ambasciatore sovietico
a Budapest nel 1956 durante l’intervento sovietico, per molti anni capo
dei servizi segreti sovietici, anche durante l’invasione della
Cecoslovacchia nel 1968. Gorbačëv, uno dei suoi cinque-sei figli
spirituali, racconta come arrostivano spiedini sul falò, quando con
Andropov trascorsero due vacanze estive insieme, ma l’autore si chiede
se fossero stati veramente amici: “Credo di sì. Dico questo con una
certa prudenza, perché più tardi avrei scoperto che i sentimenti hanno
un significato diverso negli alti gradi del potere. Nonostante il
riserbo di Andropov, potevo sentire che era ben disposto nei miei
confronti anche quando discutevamo”.
Un giudizio favorevole riguarda Kosygin, dall’aria
quasi sempre dimessa, che restava avvolto nella sua corazza. La sua
cautela, secondo Gorbačëv, era comprensibile, essendo l’unico vivo di un
gruppo fatto uccidere da Stalin. Kosygin di regola guardava. Dal suo
silenzio l’interlocutore poteva forse capirne il pensiero. Se fosse
stato in dissenso, avrebbe troncato il dialogo. “Dovunque andassi, non
ero mai solo”, disse Kosygin in un raro momento di apertura, e si
riferiva al controllo assoluto della sua vita personale. Gorbačëv gli
chiese una volta perché aveva abbandonato la riforma nel 1965. Kosygin
rispose con una domanda: “Perché lei, già membro del comitato centrale,
non intervenne al plenum in difesa delle riforme?”. Ambedue sapevano che
tre anni dopo la primavera di Praga aveva preso molte (forse troppe)
idee dal repertorio del primo ministro.
I dirigenti si davano tutti del voi o del lei,
patronimico compreso. Soltanto alcuni, tra questi il segretario
generale, davano del tu a una decina di collaboratori più stretti. Dopo
l’arrivo a Mosca, Gorbačëv invitò nella sua dacia per una colazione
l’ideologo Suslov, rigido e severo, che venne con la famiglia e fu
un’occasione piacevole. Invitò pure Andropov e questi rifiutò spiegando:
“Michail non deve meravigliarsi, Brežnev avrebbe saputo in poche ore
del nostro incontro il che non avrebbe servito al più giovane di noi
due”.
Senza Gorbačëv non sarebbe finita la guerra fredda,
senza Andropov non sarebbero usciti allo scoperto i riformatori o
sarebbero stati diversi. Sono dati necessari per il bilancio dei meriti
(o demeriti) del XX secolo. La riforma non aveva gli strumenti per poter
procedere velocemente. I politologi di Harvard, d’accordo con gli
economisti liberal russi, raccomandavano la chiusura dei grandi impianti
paramilitari, obsoleti e senza mercato. Il presidente in un incontro mi
disse: “Gli esperti che propongono il licenziamento di quattro milioni
di lavoratori non sanno ciò che dicono”.
Un
giorno andò nella clinica del Cremlino per una visita a Brežnev e trovò
uno slogan che entusiasmò il malato. Pane e difesa. Tornato al Cremlino
comunicò il consenso del capo supremo almeno su uno dei punti per i
quali si batteva: la gara con la storia, la vodka, l’agricoltura e la
Difesa: l) la storia: pochi giorni prima della caduta del Muro, Michail
Sergeevič ricordava a Berlino al padrone di casa Honecker che “la storia
non perdona chi è in ritardo”; 2) alcool: con uno dei primi
provvedimenti fissò i limiti alla produzione e alla vendita della vodka;
3) contadini: ogni autunno lo stato concedeva un prestito milionario
alle imprese agricole statali, significa a tutte. Nessuno ha mai
restituito un solo centesimo. Gorbačëv propose di alzare solo di pochi
centesimi il prezzo del pane per rientrare nell’economia normale e
abbandonare i simbolismi. Ma per anni non riuscì a vincere. Costava meno
acquistare ingenti quantità di grano all’estero e pagare il deficit con
il petrolio che cozzare contro il tabù del pane per tutti. 4) Difesa:
nella zona industriale caucasica si sfasciavano i carri armati, si
trasportava l’acciaio in un altra fabbrica per costruire un nuovo tank
identico al precedente. L’operazione di risurrezione si ripeteva e così
lavoravano cinquecento specialisti.
Le prime memorie di Gorbačëv del 1995 (oltre milleduecento pagine, dal titolo Vita e riforme,
edito dall’agenzia Novosti, con tiratura di sole tremila copie)
risalgono alla vigilia delle elezioni nazionali. Il suo avversario
principale era lo spaccamontagne Boris El’cin, spesso cattivo e ogni
tanto con un sottofondo alcolico, ma dal cuore cagionevole. Nel periodo
più teso stava sotto i ferri del cardiochirurgo americano DeBakey. Ma
El’cin impazzava su tutte le reti di tutte le televisioni, ballava,
raccontava, prometteva, e stravinse. Aveva registrato gli spot in
anticipo. Se fosse morto, il successore si sarebbe trovato nei guai.
Il primo volume di memorie servi da canovaccio al
secondo, ora tradotto in italiano. L’autore lo ha ridotto a meno della
metà, togliendo alcune sintesi dei suoi colloqui con i grandi del
periodo: Mitterand, Thatcher, Brandt, Kohl, Andreotti e tutti i
responsabili della politica americana. Il secondo libro è dedicato alla
moglie morta nell’autunno 1999: “L’anno successivo è stato il più
difficile, la vita ha perso ogni significato, dopo una convivenza di
quasi mezzo secolo”. Gli inizi della malattia di Raissa risalgono alla
tarda estate del 1991, quando il golpe contro Gorbačëv fallì, perché
condotto in modo confuso. Quasi all’alba del giorno dopo al Cremlino
nessuno dei congiurati voleva assumersi la responsabilità. La vodka fece
il resto e per l’attacco etilico dovette essere trasferito in ospedale
il primo ministro Pavlov. Si schierarono con Gorbačëv alcuni reparti di
aviazione e una divisione alle porte di Mosca. Poche ore più tardi
El’cin poté salire su un carro armato, maledire il golpe e chiedersi
come mai il pericolo non fosse stato previsto. Quando la coppia
presidenziale rientrò dal Caucaso a Mosca, Raissa si copriva le braccia
con un plaid per mascherare l’inizio di una paralisi. Prima di morire,
il suo principale tarlo, scrive il marito, era lasciare il destino del
paese nelle mani di “individui disonesti, irresponsabili e senza
scrupoli”.
Per il fallimento delle riforme Gorbačëv accusa
soprattutto il personale politico, le satrapie che si annidavano nei
capoluoghi delle quindici repubbliche federative, ma anche nei tanti
uffici della metropoli. Al Cremlino interessavano la stabilità e
l’equilibrio tra i gruppi sgomitanti in una lotta anche nazionale assai
ruvida, in cui il ritrovato senso nazionale contava più dei valori
ideologici. Gorbačëv pensò di non essersi “trovato impreparato quando
cominciò a profilarsi nel paese la questione delle nazionalità. Uno del
Caucaso ha un’inclinazione innata a creare compromessi in tutte le
situazioni”. Il suo modo di agire non sarebbe stato una debolezza di
carattere come sostenevano gli avversari.
Quando tuttavia un generale sovietico prende la guida
della rivolta cecena, quando la polizia interviene con inusitata
violenza contro le piazze delle città baltiche, quando Sacharov
rientrato dall’esilio interno si procura milioni di tifosi ai dibatti in
tv, mentre El’cin puntava senza nasconderlo alla presidenza, il
Cremlino avrebbe dovuto consultare almeno il Kgb se non la Cia,
abbandonare la tesi economica che tutto si sarebbe sistemato con le
migliorate condizioni di vita. Gorbačëv capì le possibili reazioni
negative alle riforme, ma non le nuove derive che si sarebbero
presentate, e tanto meno faceva ipotesi sulle derive delle derive. Il
barometro della vita nel socialismo doveva salire. I capi dei paesi
comunisti non la presentavano come un’ipotesi, ma come una legge della
storia, come dicevano molti storicisti, marxisti compresi.
martedì 16 luglio 2013
Primo Levi, poesia per il partigiano giustiziato
EPIGRAFE
O tu che segni, passeggero del colle,
|
Uno fra i molti, questa non è più solitaria
neve,
|
Porgimi ascolto: ferma per pochi istanti il tuo corso
|
Qui dove m'hanno sepolto, senza
lacrime, i miei compagni:
|
Dove, per ogni estate, di me nutrita cresce
|
Più folta e verde che altrove l'erba mite del campo.
|
Da non molti anni qui giaccio io, Micca partigiano,
|
Spento dai miei compagni per mia non lieve colpa,
|
Né molti più ne avevo quando l'ombra mi colse.
|
|
Passeggero, non chiedo a te né ad altri perdono,
|
non preghiera né pianto, non singolare ricordo.
|
Solo una cosa chiedo: che questa mia pace duri,
|
Che perenni su me s'avvicendino il caldo e il gelo,
|
Senza che nuovo sangue, filtrato attraverso le zolle,
|
Penetri fino a me col suo calare funesto
|
Destando a nuova doglia quest'ossa oramai fatte pietra.
|
|
6
ottobre 1952
|
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