Gian Antonio Stella
La rivolta del Sud dopo l'Unità "Fu guerra civile"
Corriere della Sera, 21 ottobre 2025
«Dimodoché conchiuderò, per mettere d’accordo le varie sentenze, che è metà brigantaggio e metà guerra civile». Era il 4 dicembre 1861 e il deputato Giuseppe Ricciardi, figlio di Francesco già ministro della Giustizia del Regno di Napoli sotto Murat e poi del Regno delle Due Sicilie nel periodo costituzionale del 1820, tentò invano di spiegare che non si potevano liquidare le rivolte nel Sud come una faccenda di criminalità. Due giorni prima, nella stessa aula parlamentare, il milanese Giuseppe Ferrari, che aveva voluto scendere di persona a Pontelandolfo e Casalduni per capire come fosse andata una durissima rappresaglia sulla popolazione dopo l’uccisione di un gruppo di militari, aveva tuonato: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; voi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri...». Macché... Fatto sta che solo oggi, 164 anni dopo, arriva un libro, edito da Mondadori, che porta quella tesi ustionante nel titolo: La prima guerra civile. Rivolte e repressione nel Mezzogiorno dopo l’unità d’Italia, di Gianni Oliva.
Intorno al tema, certo, hanno già scritto in tanti. Eppure, sottolinea Oliva, «“Guerra civile” è definizione controversa nella memoria italiana: per il primo dopoguerra si è preferito a lungo parlare di «biennio rosso» 191920 e «squadrismo» 1921-22; per utilizzarlo in riferimento al 194345, si è dovuto attendere il 1991 e il fondamentale saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza; per il brigantaggio essa è stata usata solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento». Perché? Perché «c’è una sorta di pregiudizio ideologico che si riflette nel lessico, per cui “guerra civile” equivarrebbe a una sorta di equiparazione dei protagonisti e legittimerebbe gli sconfitti riabilitandoli».
È così? «In realtà “guerra civile” significa lotta armata tra forze di uno stesso Paese, comunque organizzate e quantitativamente significative. È stato così nel 191922; è stato così nel 1943-45; e prima ancora è stato così nel Meridione dopo l’unità. Accettare il termine e ripercorrere le tappe di quanto avvenuto non significa ribaltare i giudizi storici, né indulgere alla storiografia neoborbonica (che partendo da una forte componente di rivalsa regionale, ha portato alla formulazione di tesi estreme): significa, più semplicemente, collocare i fatti nella loro prospettiva, cercare di comprendere perché e come nel Mezzogiorno, dopo l’unificazione, ci sono stati anni di tensione, che hanno impegnato quasi due terzi del Regio esercito e provocato un numero di vittime superiore alle tre guerre di indipendenza assommate insieme».
Quanti morti di più? Mah... Sicuramente non il mezzo milione (bum!), il milione (bum!) o addirittura il milione e mezzo (bum!) sparati da certi siti web e pubblicazioni e manifesti neoborbonici spintisi a denunciare «il secondo genocidio della storia dopo l’olocausto». Sui numeri esatti però non si avventura nessuno. Neppure i curatori, da Carmine Pinto (autore de La guerra per il Mezzogiorno, Laterza) a Silvia Cavicchioli, Gian Luca Fruci, Silvano Montaldo, Alessio Petrizzo e Giulio Tatasciore di Briganti! Storie e immagini dal Risorgimento a oggi, la prima mostra che «esplora il brigantaggio come fenomeno storico complesso e mito culturale» e si apre dopodomani, 23 ottobre, al Museo Nazionale del Risorgimento di Torino.
Certo la repressione, come ricordano le foto dell’epoca di briganti decapitati come il siciliano Gioacchino Di Pasquale o della casertana Michelina Di Cesare il cui cadavere fu esposto nudo e marcato da vistose violenze nella piazza di Mignano Monte Lungo, fu feroce. «Un messaggio di potere con cui la propaganda unitaria vuole accreditare la propria vittoria e delegittimare gli sconfitti», scrive Oliva, «lo Stato unitario diventa così garante non solo dell’ordine pubblico, ma anche dell’ordine morale, mentre ai “briganti” non viene riconosciuta alcuna legittimità, né politica, né etica, né sociale». L’ordine diffuso nel febbraio 1864 dopo l’uccisione di alcuni bersaglieri, del resto, dice tutto: «È un grido di vendetta quello che prorompe dal petto esanime dei vostri commilitoni! Raccogliete l’appello, vendicateli e siate inesorabili come il destino».
Uno scontro frontale. In un’italia in cui, come scriverà nel 1900 il pugliese Raffaele De Cesare, «i reazionari temevano i liberali; i liberali i reazionari; gli unitari cavouriani temevano i garibaldini e i mazziniani; i militari temevano i borghesi e, questi, i militari; e il governo temeva tutti, senza essere temuto da nessuno». «Gli autori più importanti del cosiddetto “meridionalismo classico”, da Pasquale Villari a Giustino Fortunato», ricorda Oliva, «tendono a stabilire un legame tra la sperequazione socioeconomica esistente nell’ottocento al Sud tra “galantuomini” e “cafoni” e il brigantaggio, collegando le insorgenze alla questione fondiaria. Questa tesi, rafforzata dal paradigma marxista, alimenta l’interpretazione gramsciana che vede nel fenomeno una manifestazione della lotta di classe condotta da masse inconsapevoli, prive della necessaria guida politica rivoluzionaria: “La lotta di classe si confondeva con il brigantaggio, con il ricatto, con l’incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne, con l’assalto al municipio. Era una forma di terrorismo elementare, senza conseguenze stabili ed efficaci”».
«Non c’è tempo per comprendere il Mezzogiorno, per assicurare lavoro con investimenti pubblici, per presentare l’italia con il volto della modernizzazione: per fare in fretta servono i battaglioni di bersaglieri e gli squadroni di cavalleria, le fucilazioni, i rastrellamenti cioè quell’apparato repressivo che finisce per non fare distinzione tra “briganti” e “civili”», accusa Oliva. Il prezzo pagato sarà altissimo. E finirà per travolgere persone che forse avrebbero avuto un destino diverso. Come Filomena Pennacchio, una ragazza irpina orfana giovanissima, compagna di un sergente borbonico spinto alla latitanza, descritta come brigantessa «alta, bella, con occhi scintillanti, chioma nera e cresputa, profilo greco», catturata e condannata ai lavori forzati prima di potere finalmente rifarsi una vita sposando un facoltoso torinese e dedicarsi alle opere pie. Col peso nel cuore (anche se Filomena, la regina delle selve di Valentino Romano racconta una storia diversa) di un bimbo nato in galera e registrato con un nome che diceva tutto: «Prigioniero».
L’esito di quelle tensioni Impegnati quasi due terzi del Regio esercito; più vittime di quelle delle tre guerre di indipendenza
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