Monica Maggioni
Quella follia di Trump che porta all'intesa
La Stampa, 9 ottobre 2025
C'è un solo vero elemento che rende la storia di queste ore di negoziato mediorientale diversa da tutte le altre vissute fin qui. La presenza di Donald Trump. Sembrerà paradossale ma proprio l’imprevedibilità, l’irruenza e il totale menefreghismo istituzionale del più irrituale presidente nella storia degli Stati Uniti stanno costituendo il vero fattore di svolta su un tavolo negoziale che segna comunque una rottura con il passato. Gli stessi elementi che lo rendono a tratti inquietante rispetto alla tenuta del sistema democratico americano diventano decisivi nella trattativa di Sharm el-Sheikh e forse, questa volta, la gente di Gaza (di cui probabilmente gli importa pochissimo) può provare a sperare. Trump minaccia, e gli altri sanno che fa sul serio. Appartengono a un’altra storia i tentativi di Biden e gli innumerevoli viaggi sull’oceano di Tony Blinken, il segretario di Stato che si è davvero speso fino in fondo alla disperata ricerca di un modo per far ragionare Benjamin Netanyahu all’epoca di Biden. Adesso attorno ai tavoli delle discussioni i nemici, gli alleati, i mediatori, gli affaristi, sembrano tutti attori divenuti altro da sé, costretti a un diverso ruolo in commedia, proprio a causa dell’intervento di quel burattinaio fuori misura che a tratti minaccia, poi plaude, per poi tornare ad alzare la voce senza nessun’altra regola se non la propria decisione. E il bisogno di essere obbedito.
Come andrà a finire è ancora difficile dirlo. Motivi per sperare in una tregua ce ne sono molti, mentre alcuni elementi stanno diventando via via più chiari. Il premier israeliano Netanyahu vive un senso di incertezza come non gli accadeva da due anni a questa parte. La guerra e l’orrore del massacro di Hamas gli avevano restituito una centralità politica insperata e lui si era convinto di poter contare per sempre sul favore di un’amicizia con Trump che aveva nutrito con cura sin dai giorni della campagna elettorale.
Bibi però non ha fatto i conti con il fatto che Trump questa volta ha due obiettivi: quello di sempre – fare moltissimi affari – e uno nuovo, ancora più decisivo, passare alla storia. E per questo secondo obiettivo è disposto a mettere in discussione tutto. Figurarsi un Netanyahu qualsiasi, specie adesso che i sondaggi sulle opinioni della comunità ebraica americana vedono il favore verso le scelte politiche del premier israeliano in netto ribasso.
Dunque al tavolo egiziano, Netanyahu è debole. Hamas non è certo più forte. Al di là delle ovvie difficoltà di chi sta combattendo da mesi una guerra durissima, deve fare i conti con il fatto che il suo principale sostenitore e finanziatore, il Qatar, non ha nessuna intenzione di perdere l’occasione di consolidarsi nel ruolo di principale alleato americano nella regione. Quindi per Hamas il vero rischio è di trovarsi senza finanziamenti ed appoggi esterni: quindi tecnicamente finito. Per tutti gli altri la costruzione di uno spazio politico può essere l’unica vera via di sopravvivenza (Jihad islamica e Fatah fanno i conti con la morsa israeliana in Cisgiordania e l’aggressività crescente dei coloni appoggiati dall’estrema destra religiosa).
Fermare il massacro a Gaza, far tornare a casa gli ostaggi ancora in vita sono comunque obiettivi giganteschi. Che sembravano ormai fuori dalla portata di chiunque. Ma non sono la pace. Se i segnali positivi di queste ore troveranno conferma, ci sarà un’interruzione del conflitto che significherà la sopravvivenza per molti gazawi praticamente condannati a morte e la fine di una prigionia disumana per gli ostaggi. E non ci sono parole per descrivere l’importanza di questo risultato. La pace però è una cosa diversa. Implica un progetto, anche politico, che difficilmente potrà realizzarsi attraverso il piano teoricamente affidato a Tony Blair che assomiglia, pericolosamente, a quei progetti di autorità provvisoria che abbiamo visto fallire tristemente negli ultimi venti anni, dall’Afghanistan all’Iraq.
Dunque, se davvero la sospensione del conflitto dovesse realizzarsi, sarebbe l’inizio del percorso, non la fine. E nemmeno le minacce di Trump, ammesso che funzionino al tavolo negoziale, basteranno a costruire la pace: a quel punto forse anche noi, che abbiamo lasciato che Gaza si trasformasse in un angolo di mondo dimenticato sotto il totale controllo di Hamas, dovremmo decidere di tornare a fare la nostra parte

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