mercoledì 19 giugno 2019

Omaggio a Marc Bloch



MARC BLOCH. L’attualità stringente del suo pensiero, a settantacinque anni dalla morte. Il 16 giugno 1944, dopo mesi di prigionia e torture in quanto resistente, veniva fucilato dai nazisti a Lione. Si interroga sulla natura del potere, sui legami che tengono avvinti i ceti subalterni ai gruppi dominanti
Claudio Vercelli, Lo straniamento dello storico, il manifesto, 18 giugno 2019
Il racconto dello storico è quello che, per definizione, raccoglie e restituisce il senso del mutamento, in quanto condizione perenne dell’uomo, così come della complessa stratificazione di elementi e attori che stanno alla base del processo temporale. Marc Bloch, di cui in queste settimane ricorre l’anniversario della morte, fucilato dai nazisti a Lione il 16 giugno 1944, dopo mesi di prigionia e torture in quanto resistente, è forse tra quanti meglio hanno saputo rendere, attraverso la propria scrittura, la sensazione di straniamento che il fare e raccontare la storia induce in chi si adopera in un tale esercizio.
Tutta la sua scrittura, infatti, è sospesa tra la necessità di dare conto in maniera plausibile e accertata delle trasformazioni che il tempo induce nella collettività e, dall’altro lato, della difficoltà di discernere il fatto oggettivo dalle rappresentazioni che di esso circolano nel momento stesso in cui questo si verifica. Quella che lo accompagnava nelle sue riflessioni non è solo la questione delle manipolazioni deliberate bensì della reale conoscibilità degli eventi.
IL SUO TESTO più importante, I re taumaturghi, del 1924, oltre a essere un eruditissimo esercizio di storia della mentalità, interrogandosi su alcuni aspetti del «doppio corpo» (secolare e, al medesimo tempo, miracoloso) dei sovrani, costituisce una cavalcata di straordinaria vivacità nell’antropologia medievale. Se il ruolo dello storico non è solo quello di identificare degli eventi ma di stabilire concatenazioni logiche attraverso dei nessi, allora l’impegno che egli deve devolvere è quello di calarsi in un’epoca e coglierne i tratti prevalenti.
Non di meno, Bloch si interroga sulla natura del potere, ossia sui legami che tengono saldamente avvinti classi e ceti subalterni ai gruppi dominanti. Anche altre opere di medievistica, il suo campo d’azione per eccellenza, come Re e servi (1920), I caratteri originali della storia rurale francese (1931) e ancora La società feudale (1939-1940), rispondono a questa esigenza. La necessità di ibridare la ricostruzione storica con quelle altre discipline che si erano venute affermando a cavallo tra il Settecento e il primo Novecento, l’antropologia per l’appunto tra tutte, rimane per lo studioso un esercizio imprescindibile. Poiché il campo simbolico non è il regno della fantasia ma il contesto in cui si stabiliscono rapporti di diseguaglianza destinati a cristallizzarsi nel tempo. Così come anche il luogo delle possibilità, poiché gli uomini sono quello in cui credono e credono nella misura in cui a essi è offerta una guida che percepiscono come autorevole, ossia comprensiva, protettiva e riparatoria.
D’altro canto, la questione di capire la storia per Bloch si lega a quella di manifestare se stesso, la sua personalità, che, a sua volta, demanda alla necessità di assumersi le responsabilità dettate dalle circostanze. La sua stessa scelta, quando era oramai ultracinquantenne, di militare nella Resistenza francese, si inscrive chiaramente in questa dimensione. Ciò che studiò, disse, scrisse fu essenzialmente qualcosa che riportava a un dato personale, prima ancora che professionale. Ovvero, qualcosa che faceva dell’esercizio intellettuale un impegno morale quotidiano. Così come il racconto storico deve rendere intelligibile il presente, essendo altrimenti un esercizio barocco, autoreferenziato, in buona sostanza totalmente sterile.
BLOCH ERA CRESCIUTO intellettualmente in quella Francia che aveva digerito con grande difficoltà i miasmi dell’affaire Dreyfus, che si era confrontata con il carnaio della Prima guerra mondiale e che poi aveva seguito la lunga traiettoria declinante della Terza Repubblica. Vichy, da questo punto di vista, avrebbe costituito solo la tappa terminale di un percorso dove al declino militare, politico e geostrategico la Francia, e la stessa Europa, accompagnavano quello morale. L’assumersi una responsabilità politica implicava quindi il rifiutare la decadenza che la «collaborazione» con l’occupante portava invece con sé.
Ma anche denunciare, a prescindere da qualsiasi affiliazione partitica, i limiti di un regime liberale, incapace di fare concretamente fronte all’evoluzione della società francese all’insegna di quei principi di emancipazione e integrazione di cui si dichiarava invece integrale depositario. Tre opere sul metodo, prima ancora che di merito, caratterizzano il lavoro di Bloch. Sono le Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra, redatte tra il 1914 e il 1915; La strana disfatta, del 1940; l’Apologia della storia, la cui curatela, per le mani di Lucien Febvre, vedrà la luce solo a cose fatte, nel 1949, cinque anni dopo la morte dell’autore. Il tratto comune a scritti tra di loro altrimenti diversi è quello della ricerca urgente di una dimensione simbolica nella quale celebrare il senso degli eventi correnti. Le Riflessioni demandano alla guerra parallela delle dicerie e dei passaparola, che si fa conflitto a sé, capace non solo di condizionare quello materialmente combattuto nelle trincee e sui campi di battaglia ma anche di generare un universo di significati, e con essi di aspettative e quindi di condotte, autonomi dai riscontri di fatto. Dei quali, almeno in parte, condizionano addirittura l’esito.
LA «DISFATTA», scritta sotto l’impellenza della repentina e clamorosa sconfitta francese dinanzi alla guerra lampo tedesca del 1940, è un vero e proprio regolamento di conti generazionale. Poiché al suo centro c’è il tracollo morale del Paese, ossia la rottura del patto tra le diverse parti della società francese, e quindi la consunzione delle ragioni e delle idealità che dal 1789 in poi ne avevano accompagnato la storia. Il disastro, per Bloch, che fu anche militare e come tale ragionò sulle cronache che lo vedevano chiamato in causa, non giungeva inatteso. Tuttavia, le sue proporzioni erano tali da rendere impossibile, con le sole forze allora presenti, il ricomporre le cesure che si erano nel mentre generate.
Anche per via di una tale premessa, lo storico sceglierà di lì a non molto la strada della Resistenza, vista come l’unico percorso possibile per dare un futuro non solo al suo Paese ma all’intero Continente, dinanzi al rullo compressore nazista del «nuovo ordine europeo». Lo stesso lavoro dello storico diveniva peraltro impossibile nell’asfissiante e mortificante regime di occupazione. Impraticabile non solo materialmente ma soprattutto moralmente, dinanzi alla decadenza dei quadri culturali e ideologici di un’intera collettività. L’Apologia, quindi, risponde anche all’esigenza di fare fronte ad un lavoro di ricostruzione, non esclusivamente intellettuale, del senso del passato, per meglio intendere la natura dell’intervento politico diretto sul presente.
D’ALTRO CANTO, Marc Bloch se precedentemente si era interrogato sul tessuto connettivo delle società feudali, sulle infinite ramificazioni delle dipendenze, delle sudditanze e delle credenze, insieme alla forza centripeta dei differenziali sociali (il paradosso della diseguaglianza che lega invece che dividere), con le opere redatte frammentariamente a ridosso della tragedia bellica cerca invece di rendere conto della radice di una sconfitta che interpreta e vive come evento totale.
L’impreparazione bellica è solo un aspetto di quella che viene intesa come una resa definitiva. Alla mobilità delle truppe tedesche, specchio efficace di un’intraprendenza feroce, disinvolta e amorale della società nazista, si contrappone quell’inerzia dell’esercito francese che è il prodotto del lungo stallo della Terza Repubblica (quella delle «biblioteche dagli scaffali vuoti»).
La destra nazionalista, fingendo di tradire le sue stesse premesse, si consegna allora all’occupante, coltivando l’inconfessabile desiderio di riceverne un dividendo, mentre ciò che resta dell’opposizione di sinistra, afasica e inconsistente, non riesce neanche a concepire quale possa essere l’esigenza di un discorso sulla rigenerazione nazionale. L’una, traditrice, così come l’altra, inessenziale, sono semmai destinate a essere surclassate dalla signoria tedesca. In una Francia sottomessa, dove le classi abbienti contrattano il regime di occupazione nel nome della compromissione, i ceti medi e la piccola borghesia cercano una finta normalità che sarà l’anticamera della collaborazione nei suoi aspetti più livorosi e intollerabili e le comunità lavoratrici si piegano a una visione particolarista e corporativa del proprio ruolo.
LO STORICO, che avrebbe senz’altro proseguito nel suo lavoro se non fosse stato ucciso anzitempo, coglie i lineamenti di questo drastico mutamento di quadro. Non fa in tempo ad ultimare l’affresco di un’epoca che lo vede diretto protagonista, come militante politico. E tuttavia riesce ancora a formulare, tra le righe, l’esigenza di un’altra Europa, così come il bisogno di un’altra idea di nazione. L’una e l’altro prodotto della disillusione e del disincanto. Quanto di quella lezione su un tramonto repentino, che però ha lontane radici, si riproponga per il nostro presente, sarà il futuro prossimo venturo a raccontarcelo. In un’età, la nostra, che è anch’essa di declino, per alcuni aspetti comparabile a quella che Bloch visse sulla sua viva carne

domenica 9 giugno 2019

La vittoria della socialdemocrazia danese


Gianpasquale Santomassimo

Avendo deciso da tempo, per dogmatismo europeista, che la politica economica e sociale dell'austerità non può essere disattesa, se non a parole che diventano flatus vocis, la visione del mondo della sinistra italiana, moderata e radicale, si è completamente rinserrata nella sfera valoriale ed etica, rubando il mestiere alle parrocchie e alle benemerite istituzioni di volontariato. 
Questo fa sì che quando una forza socialista come quella danese decide di infrangere i limiti imposti da Bruxelles, rilanciando sul terreno del welfare e dell'ecologia, ma proponendo una seria politica di controllo dei flussi immigratori che serva anche ad assicurare diritti e benefici agli immigrati che lavorano nel paese, il pilota automatico della sinistra senza popolo traduca tutto questo come "xenofobia", senza riuscire ancora a porre le basi per una dignitosa analisi della propria sconfitta.


Massimo Lizzi

I socialdemocratici danesi avrebbero vinto le elezioni con una politica rosso-bruna: ritorno al Welfare e linea dura contro l'immigrazione. Una politica che ha paura di condividere il Welfare con gli immigrati e non vede l'opportunità di mantenerlo e rafforzarlo proprio grazie a loro.
La "linea dura" è una politica assimilazionista e vessatoria sul piano simbolico: asilo obbligatorio per i figli degli immigrati dall'età di un anno, separati per almeno 25 ore settimanali dalle loro famiglie per essere educati ai valori culturali e religiosi danesi; esclusione dal servizio sanitario nazionale per le famiglie che si sottraggono al programma di educazione; pene più alte, persino doppie per i reati commessi nelle zone ghetto, i quartieri degli immigrati; espulsione per le famiglie che con i loro bambini si trattengono troppo nel paese d'origine; confinamento in un isolotto per i richiedenti asilo respinti; obbligo di stringere la mano ai funzionari pubblici nelle cerimonie di regolarizzazione per gli immigrati accolti, costringendoli dunque al contatto fisico con persone dell'altro sesso; esternalizzazione a paesi terzi, per il trattenimento delle quote di accoglienza spettanti alla Danimarca (tipo gli accordi con la Turchia).
Queste sono le misure "severe" o "rigorose" del governo danese di centrodestra, appoggiate e rilanciate dai socialdemocratici: aggravare la vita degli stranieri, in particolare quelli di origine musulmana, per scoraggiarne la permanenza e i nuovi arrivi. Misure al limite o oltre il limite del rispetto dei diritti civili e dei diritti umani, che prima o dopo si riverseranno sugli stessi danesi.


Ska Keller, un volto per l'Europa del futuro


Franziska Keller è nata il 22 novembre 1981 a Guben, in Brandeburgo, allora parte della Germania Est. Ha effettuato studi islamici, studi turchi ed ebrei alla Libera Università di Berlino e alla Sabancı Universitas di Istanbul. Si è laureata nel 2010.
Alle elezioni del 2009 è entrata a 27 anni a far parte del Parlamento europeo per il partito tedesco Alleanza '90/I Verdi, che aderisce al Partito Verde Europeo. Fa parte della Commissione per il commercio internazionale e della Delegazione alla commissione parlamentare mista UE-Turchia.
È stata la candidata dei Green Italia - Verdi Europei alla presidenza della Commissione alle elezioni europee del 2014 insieme a José Bové e, nota per il suo impegno contro la corruzione nell'Ue, nel febbraio 2018 ha partecipato alle proteste contro la corruzione in Bulgaria.
È stata eletta per condurre i Verdi anche alle elezioni europee del 2019 insieme all'olandese Bas Eickhout con un programma in dodici punti: lotta per il cambiamento climatico e sostegno alle energie rinnovabili, reddito minimo dignitoso, difesa dello stato di diritto e lotta alla corruzione, produzione di cibo privo di ogm e pesticidi, allevamenti senza crudeltà sugli animali, accesso gratuito a un'istruzione di qualità, posti di lavoro dignitosi per i giovani.[4]