domenica 30 giugno 2013

L'immagine dei neri in Francia (1797-1800)

Il 15 del mese di piovoso dell’anno II (e cioè il 3 febbraio del 1794) tutti, a Parigi, poterono finalmente vedere in faccia la Rivoluzione. La faccia era quella di Jean-Baptiste Belley, primo deputato nero e rappresentante della colonia francese di Santo Domingo alla Convenzione, cioè al parlamento rivoluzionario. Nel 1789 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino scaturita dalla Rivoluzione aveva spaccato in due la storia dell’umanità, scrivendo che “tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti”. Da allora in poi, non possiamo non dirci francesi, non possiamo non dirci rivoluzionari. Niente più re o regine, principi o duchi: solo cittadini, tutti eguali, tutti liberi. Ma ora, con l’arrivo a Parigi del deputato Belley, quelle parole avevano finalmente un volto: un volto nero, per la prima volta eguale ai volti dei bianchi. Il 16 del mese di piovoso tutta l’assemblea della Convention si alzò in piedi all’ingresso di Belley, e cominciò ad applaudire. Tutti i deputati, tutti bianchi si alzarono uno per uno, e abbracciarono il primo deputato nero della storia. Pochi minuti dopo, l’assemblea votava l’abolizione della schiavitù: non c’erano più re, e ora non c’erano più schiavi. E il grande rivoluzionario Danton poté dire: “Fino ad ora non abbiamo che dichiarato la nostra stessa libertà, una libertà egoista. Oggi proclamiamo a tutto l’universo, e per tutte le generazioni future, la Libertà universale”. L’America, figlia di una Rivoluzione ancora più antica, arrivò a fare altrettanto – solo dopo una guerra civile e grazie alla sovrumana forza di Abramo Lincoln – approvando il Tredicesimo Emendamento alla Costituzione l’ 8 aprile del 1864.
Il pittore Anne-Louis Girodet ritrasse quindi il deputato Belley in questo quadro indimenticabile. La composizione e la tradizione degli infiniti ritratti di tiranni sono state redente da questo capolavoro morale. Il magnifico nero della pelle di Belley è accostato al candido marmo di un busto all’antica che ritrae uno dei filosofi cari alla Rivoluzione. E il deputato è stretto in vita dalla fascia con il tricolore della Rivoluzione. Come dir meglio che il passato serve a costruire il futuro, che la filosofia serve a cambiare il mondo, che la cultura è un’unica cosa con la politica? Il cittadino Belley guarda lontano. Guarda fino a noi: alla nostra società finalmente multietnica. Il suo volto libero è, per sempre, il ritratto di ogni rivoluzione.

Tomaso Montanari

Anne-Louis Girodet de Roussy-Trioson (1767-1824)
Jean-Baptiste Belley, ex rappresentante delle colonie (1747-1805), 1797
 Il dipinto, realizzato solo sei anni dopo l’abolizione della schiavitù, è considerato un manifesto della emancipazione dei Neri. Il quadro verrà poi acquistato dallo Stato francese nel 1818.
Marie-Guillemine Benoist, Ritratto di negra (1800)




































Benoist, Marie-Guillemine Leroux-Delaville. - Pittrice (Parigi 1768 - ivi 1826). Allieva della Vigée Lebrun e di David, collaboratrice di Gérard; autrice di numerosi ritratti dei familiari di Napoleone; dipinse anche varî quadri di soggetto storico e di genere.





















mercoledì 26 giugno 2013

Recalcati sulle orme di Gramsci: populismo e frammentazione

Massimo Recalcati, Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, a cura di Christian Raimo, Minimum fax, Roma 2013

MR Il populismo è sempre il rifiuto della traduzione, il rifiuto della politica come traduzione. [...]

Christian Raimo Perché il popolo italiano ama questa forma di non traduzione?

MR Gramsci aveva messo in rilievo una doppia tradizione che attraversa la storia d'Italia:  da una parte quella che proviene dal movimento comunale e che segnala l'importanza del "particulare" come diceva Guicciardini, della localizzazione, del decentramento, del federalismo, della rivendicazione della propria etnia, del proprio territorio; e dall'altra parte la grande tradizione umanistico-rinascimentale che implica una visione universalistica dell'uomo. Il particolarismo comunale-medioevale e l'universalismo rinascimentale sono entrambi pensieri antipopulistici. Come si spiega allora la tendenza del popolo italiano a credere alle illusioni populistiche? C'è stato un "corpo in frammenti" che l'unità politica dell'Italia non ha ricomposto. Basti pensare alla questione meridionale. E dove manca l'unità [...] tra il frammento e l'unità ideale impossibile da raggiungere si colloca ogni volta lo sguardo ipnotico del leader, che funziona come punto di identificazione narcisistico ideale di tipo verticale che rende possibile una unità illusoria o che, come è accaduto per la Lega, mostra come un frammento possa assumere la dignità ideale di una nuova forma compiuta di unità. E' un'ipotesi, solo un'ipotesi di lettura... Dobbiamo forse partire dal corpo in frammenti dell'Italia per cogliere la disponibilità del popolo italiano a credere alle illusioni narcisistiche.

martedì 25 giugno 2013

Il caso Lysenko in Italia

La resistenza all'ideologia tra gli scienziati

 
Nel rapporto con la cultura, e con la cultura scientifica in specie, la presunzione ideologica dei comunisti staliniani fu sconfinata e trascinò nell'errore numerosi uomini di cultura, tra cui Emilio Sereni e Italo Calvino, senza contare gli stessi biologi aderenti al partito. E tuttavia, come scrive qui sotto Mauro Capocci nella sua recensione al fondamentale studio di Francesco Cassata in materia,  "molti furono gli scienziati che pur schierati politicamente con il Pci o comunque a sinistra (citiamo tra gli altri, Giuseppe Montalenti e Adriano Buzzati-Traverso) evidenziarono da subito le falle scientifiche e ideologiche del lysenkoismo. Ciò che crollò, con la fine dello stalinismo, fu dunque non solo un'ipotesi biologica completamente sballata, ma anche l'idea che il materialismo dialettico potesse apportare significativi contributi nel campo della scienza".
 
Antonio Carioti
Corriere della Sera, 19 giugno 2008

Aveva ragione Trofim Lysenko? Si potrebbe pensarlo, nel sentire chi oggi attacca darwinismo e biologia moderna quali matrici dell' eugenetica e del razzismo. Questo infatti, come emerge dal saggio di Francesco Cassata Le due scienze (Bollati Boringhieri), era uno degli argomenti usati dai tifosi dell' agronomo sovietico, le cui teorie ostili alla genetica mendeliana, prive di ogni base scientifica, piacevano tanto a Stalin. Il lysenkoismo, grottesco connubio fra cecità ideologica e disonestà intellettuale, fu osannato anche in Italia, dove si distinse nel propagandarlo Emilio Sereni, responsabile culturale del Pci, che incontrò scarsa resistenza da parte degli scienziati del partito: nemmeno i più seri, come Massimo Aloisi ed Emanuele Padoa, osarono dissociarsi pubblicamente. Riuscì a salvarsi l' anima Giulio Einaudi, che evitò di legittimare Lysenko con il prestigio della sua casa editrice. Invece Italo Calvino e il filosofo Antonio Banfi tributarono imbarazzanti elogi alla biologia sovietica. Quando poi la stella di Lysenko declinò, Franco Fortini rimproverò ad Aloisi il modo «sgradevole» in cui finalmente prendeva le distanze. Ma il vizio di opporre una scienza «proletaria» a quella «borghese» non scomparve, tanto che negli anni Settanta Lucio Colletti avrebbe ammonito il fisico Marcello Cini (ora tornato alla ribalta per la disputa sul Papa alla Sapienza) a non ricalcare le orme di Lysenko.
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Mauro Capocci
La bufala del "contadino" Lysenko:
quando l'ideologia dettava la biologia


Liberazione, 2 luglio 2008

Nel giro di pochi mesi un altro libro di storia della scienza rimette in ballo la figura di Emilio Sereni e il ruolo del Pci nella politica culturale italiana. Dopo Il caso Pontecorvo di Simone Turchetti (già recensito su queste pagine), è ancora un giovane storico ad affrontare un altro "caso" della scienza italiana. Mentre nel caso Pontecorvo fu un italiano che varcò la cortina di ferro, qui troviamo un percorso inverso: dall'Urss staliniana giunsero in Europa occidentale le idee ‘rivoluzionarie' di un agronomo, destinate a generare dibattiti decennali e ad addurre molti lutti - non solo metaforici, purtroppo - nella comunità dei biologi. È questo viaggio concettuale che viene descritto da Francesco Cassata in Le due scienze. Il caso Lysenko in Italia, da poco uscito per Bollati Boringhieri [...].
Trofim Denisovic Lysenko, in base a esperienze pratiche maturate nei campi sovietici, sostenne di aver dimostrato la possibilità di trasformare specie vegetali e animali: non mediante la selezione artificiale sulle mutazioni casuali all'interno di una popolazione, come si è fatto per millenni, ma direzionando il cambiamento verso le caratteristiche volute. Lysenko riproponeva, sotto altro nome, l'eredità dei caratteri acquisiti (lamarckiana), e asseriva quindi di poter produrre nuove varietà di grano e di altre specie di interesse agricolo capaci di sovvertire i normali cicli biologici: per esempio, piante da seminare in primavera e raccogliere in autunno, così da evitare i pericoli delle gelate. Una rivoluzione scientifica, accompagnata da una dura critica nei confronti della genetica nata nei paesi capitalisti, darwiniana e fortemente centrata sulla distinzione tra il germe e il soma, ovvero tra le immutabili particelle ereditarie e le cellule che compongono l'organismo adulto. Lysenko e un ristretto numero di altri scienziati vedevano invece nelle loro teorie l'applicazione dell'aspirazione socialista a cambiare il corso della natura, laddove la scienza capitalista era conservatrice, reazionaria, nella sua metafisica meccanicista che negava la possibilità di un cambiamento rapido e direzionale. L'opposizione al lysenkismo nell'accademia sovietica, che pure era all'avanguardia nella genetica e vantava di gran credito anche all'estero, fu rapidamente stroncata dall'efficiente apparato staliniano. Nikolaj Vavilov, direttore dell'Istituto di Genetica nell'Accademia delle Scienze e principale avversario del nuovo corso della genetica sovietica, rimosso da ogni carica, fu condannato nel 1941 per spionaggio (aveva mantenuto rapporti con i suoi colleghi inglesi) e morì in carcere nel 1943.
In Italia, alcuni biologi interni al Pci si fecero portavoce della nuova istanza scientifica che proveniva dall'Urss. Francesco Cassata ha ricostruito nel dettaglio questo caso di cieca obbedienza ideologica, fortemente caldeggiata dal Partito, che si tradusse in una sconfitta culturale epocale e che ha influenzato quasi 4 decenni di dibattito interni al marxismo e sul rapporto tra ideologia e scienza. Emilio Sereni, la cui fedeltà all'Urss lo portò a più di un errore (ça va sans dire, con il senno di poi), fu sicuramente il più attivo esponente del partito nel predicare il verbo lysenkoista. Con articoli su riviste, convegni, pubblicazioni, Sereni impiegò ogni mezzo di propaganda culturale, mettendo in moto la vasta rete di contatti su cui poteva contare il partito per mettere in crisi il modello scientifico della genetica occidentale. Con lui si mossero in molti, mettendo in luce più che gli aspetti strettamente biologici e sperimentali della scienza sovietica (peraltro estremamente deboli nel caso di Lysenko & co.), il nuovo rapporto che in Urss esisteva tra ricerca e società. La dimensione applicativa era predominante, in contrasto con la scienza di laboratorio che caratterizzava le strutture di ricerca capitaliste. Il "contadino" Lysenko era superiore ai tanti professori in camice bianco che invece di studiare il grano o le patate si affannavano a capire i segreti di un inutile insetto, la drosofila, oggetto della ricerca nel capitalismo decadente.
Furono diversi i biologi che si esposero in favore della biologia sovietica: ricordiamo tra tutti Massimo Aloisi (attivo sostenitore del ruolo del materialismo dialettico nella scienza, ma con numerose riserve sul lysenkoismo e per questo più volte richiamato da Sereni) e Franco Graziosi, protagonisti di molte pagine di questo libro. La lotta fu comunque durissima, e molti furono gli scienziati che pur schierati politicamente con il Pci o comunque a sinistra (citiamo tra gli altri, Giuseppe Montalenti e Adriano Buzzati-Traverso) evidenziarono da subito le falle scientifiche e ideologiche del lysenkoismo. Ciò che crollò, con la fine dello stalinismo, fu dunque non solo un'ipotesi biologica completamente sballata, ma anche l'idea che il materialismo dialettico potesse apportare significativi contributi nel campo della scienza.
L'ottimo lavoro di Cassata, che utilizza una montagna di documenti inediti provenienti da numerosi archivi, non si ferma tuttavia al "caso". Se da un lato mette a fuoco anche il formarsi della genetica come disciplina istituzionale in Italia, dall'altro osserva l'ombra di Lysenko, dura a morire. A ogni tentativo di analizzare in modo critico le influenze socio-politiche sulla scienza, l'ambiente culturale italiano - anche legato al Pci - ha reagito con una difesa della scienza "pura", libera da qualsivoglia legame con la società che la produce, e il nome di Lysenko tuttora emerge per screditare chi "viola" il tempio positivista della scienza, magari facendo solamente notare che la ricerca risponde sempre più a logiche economiche. Ben venga quindi un libro che va alle radici di un tic culturale tipicamente italiano e che fa riflettere sull'incapacità di questo paese di produrre una seria riflessione sul rapporto tra scienza e società. Un'assenza culturale che purtroppo si rispecchia nella mancanza di una vera politica scientifica, che non sia asservita a polemiche da cortile (come nel caso dell'uso delle cellule staminali embrionali) e abbia un orizzonte più ampio dei soli interessi del mercato e della difesa (o più raramente della riforma) dei poteri accademici.

Si veda inoltre  la recensione dedicata da Alessandro Delfanti al libro di Cassata in Le Scienze, luglio 2008

Palmiro e Nilde, un amore dolce e terribile

Simonetta Fiori 
a  proposito di
Luisa Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, Donzelli, Roma 2013
la Repubblica, 23 giugno 2013

La voce di Togliatti è contenuta in uno scrigno intarsiato, di quelli antichi dell’artigianato sorrentino. Non solo la sua voce, ma anche la sua emotività, la scoperta di sé, il tempestoso viaggio interiore di un uomo passato alla storia per la glaciale razionalità. Il mitico totus politicus alle prese con un sentimento terrorizzante quale l’amore. Quando credevamo di saper tutto di quella storia sentimentale, già consegnata ai polverosi annali del comunismo, affiorano quaranta lettere scambiate tra Palmiro e Nilde al principio della relazione. Il racconto del primo anno di segreta passione, dall’incontro a Montecitorio nell’estate del 1946 fino alla convivenza nell’abbaino di Botteghe Oscure. Una vicenda che intreccia clandestinità, ostilità del partito e nascita dell’Italia repubblicana.
Amore e politica, per la prima volta parla Palmiro. E alla testimonianza di Nilde, arricchita negli anni con riserbo, si affianca quella del compagno. La loro storia sentimentale — gli affanni, il gioco e le gelosie, il lento scivolare l’uno nel bisogno dell’altro — ci viene raccontata anche da lui, il gran capo del comunismo italiano, allora ancora legato alla moglie Rita Montagnana. Una confessione a tratti sorprendente che si può leggere nella nuova e bellissima biografia Nilde Iotti. Una storia politica al femminile scritta da Luisa Lama, che ha avuto accesso al carteggio inedito ritrovato da Marisa Malagoli Togliatti, figlia adottiva della coppia.
Tutto cominciò da una «piccola carezza » azzardata sui capelli di Nilde, lungo lo scalone di Montecitorio. È il 30 luglio del 1946, da due settimane fervono a Roma i lavori per la nuova Carta Costituzionale. Ma nel retrobottega della grande Storia sta maturando la storia più minuta tra il mitico segretario comunista e la giovane deputata di Reggio Emilia. Li separano ventisette anni — 53 lui, 26 lei — e una gran quantità di cose: radici famigliari, formazione, status ed esperienza. Però lei è brillante, colta, di naturale eleganza. Chiacchierano di tutto, Ariosto, Boiardo e naturalmente politica. «Sei come una striscia di sole in una stanza buia», la corteggia lui in una delle prime lettere. Il tono è lieve, quasi allegro. Ma presto subentra il «sentimento di vertigine, come davanti all’abisso». Uno sperdimento che lo abbaglia, Palmiro se ne ritrae piacevolmente spaventato. Non aveva mai provato quell’«impulso più forte della sua volontà», e teme di perderne il controllo. Da Parigi — dove è volato in agosto per parlare con Molotov del confine jugoslavo — arrivano i primi segni di resa. «Ho abbandonato me stesso a te come mai avrei pensato». E ancora: «Nec tecum vivere possum nec sine te». Né con te né senza di te. Pagine di block notes e fogli dell’Assemblea Costituente vanno riempendosi di parole d’amore, scritte a matita o a penna, mai con il leggendario inchiostro verde usato per il partito. «Nina mia». «Non posso più vivere così». No, questa è davvero un’altra storia.
L’aria è particolarmente frizzante, in parlamento e nel Paese. Si costruisce una nuova Italia, e i vecchi capi comunisti — quelli che avevano subito le vessazioni del fascismo e temuto le purghe staliniane — cominciano ad assaporare il gusto della libertà, anche il piacere delle comodità borghesi. Non c’è più spazio mentale per le antiche compagne, quelle di taglia forte e scarpa 41, che gli erano state accanto nelle tante battaglie della clandestinità. Succede a Togliatti, ma anche a Longo e Terracini. E nell’estate del 1946 i rapporti tra Palmiro e la moglie sono incrinati da tempo, sin dagli anni del Comintern trascorsi a Mosca. Li divide anche la grave condizione fisica e psichica del figlio Aldo, che il padre fatica ad accettare. È in questa «situazione intollerabile», come lui dice, che arriva il sorriso di Nilde.

Il nuovo amore costringe Palmiro a un viaggio dentro di sé, lo stesso che lo porterà a sfidare il partito e perfino il Cremlino. È tempo di bilanci affettivi, che non lo soddisfano. Fino a quel momento è stato un uomo in fuga dalle emozioni, «non sai tu quante immagini di donne ho respinto dal mio cuore». Addirittura una volta, pur di resistere alla seduzione femminile, aveva rischiato di morire per gli alti sentieri di montagna. Lui, il gran capo temuto e adorato, che scappa davanti a un’amica richiedente. Sempre a Parigi rivede Carmen, la comunista spagnola che dieci anni prima l’aveva amato nelle traversie della Guerra civile. Improvvidamente, rievocando l’antico sodalizio, vi fa cenno in una lettera per Nilde: «È commovente come una donna possa amare senza chiedere nulla». Poi ne straccia platealmente l’indirizzo, ma Nilde non è un’amante gretta né sprovveduta: «Ho pensato con un po’ di compassione a quella donna che certo ti ha amato. Quando non amerai più me, ti prego, non cancellarmi così».

È una storia d’amore «dolce e terribile », quella tra il segretario e la giovane parlamentare. Incontri furtivi, strette di mano in pubblico. Ma in novembre la stampa satirica comincia a bersagliarli, ritraendoli sul divanetto di Montecitorio in pose ridicole. A Botteghe Oscure i pettegolezzi si caricano di tinte velenose. E certo non resta a guardare la “marquisa” Montagnana. Alla Camera Nilde ne incrocia lo sguardo «duro, pieno di rancore e odio, appena filtrato dalle palpebre socchiuse ». Ma il nemico più temibile è il partito, un’entità entusiasmante e crudele che per mille motivi non accetta questo amore irregolare. In un momentodi malinconia Togliatti arriva a evocare «il povero Gramsci, anch’egli ha amato e voluto essere amato, e ha cercato tramite l’amore di essere compreso ». Chissà quante volte in passato la fragilità emotiva di Nino l’aveva indispettito. Ora no, perfino l’antico amico- avversario gli appare sentimentalmentevicino. Nel febbraio del 1947, una pausa inaspettata rallenta l’intensità del carteggio. Palmiro non risponde alle lettere, e Nilde scopre che è a casa ammalato, per giunta accudito dalla legittima moglie. «Sono certa che tu guariresti prima se potessi curarti io», incalza Nilde con modi quasi infantili. Sembra disposta a tutto, perfino a chiedere notizie all’autista-custode Armandino, che non le mostra grande simpatia. «Solo allora ho rinunciato a venire a casa tua», scrive a Palmiro in toni sommessamente minacciosi. In una lettera successiva accenna anche a un desiderio di maternità, «a volte vorrei davvero che qualche cosa di te restasse in me, forse allora capiresti ciò che sei per me». Dopo qualche anno quel figlio desiderato sarebbe stato concepito, ma il triste epilogo resta avvolto nel mistero.
In quegli stessi mesi, in parlamento, le sinistre combattono per una famiglia moderna, fondata sull’eguaglianza tra coniugi e sulla parità legale dei figli, nati dentro e fuori del matrimonio. Fortificata dalla sua stessa esperienza privata, Nilde resterà sul fronte a difendere i nuovi diritti. E il divorzio? No, su quel terreno non può battersi. C’è il rischio di una rottura con i cattolici, e Togliatti preferisce lasciar cadere. Ma nel privato — come già Longo e Terracini— prova a ricorrere alla “Sacra Rota Comunista”. Nel dicembre del 1953 fa domanda per risiedere almeno un anno a San Marino, dove il divorzio è cosa lecita. Ma sarà costretto a rinunciarvi, scoraggiato dal clamore mediatico che colpisce Longo. Sono i paradossi della doppia morale.
Nell’album della famiglia comunista, Nilde dovrà aspettare ancora molti anni prima di trovare ufficialmente posto accanto a Palmiro. Accadde nell’agosto del 1964. Ai funerali di Togliatti le viene concesso un ruolo d’onore, prima fila dietro il feretro. Se come sposa era rimasta invisibile, in qualità di vedova poteva ottenere l’agognato riconoscimento. La coppia, finalmente, non c’era più. La morale del partito salva per sempre.

lunedì 24 giugno 2013

La 181. Da Basaglia al fare-assieme

DALLA “180” ALLA “181"
A 35 anni dalla “180”, inizia la raccolta firme per la “181”: una proposta di legge di iniziativa popolare per valorizzare la partecipazione attiva di utenti, familiari, operatori e cittadini nei Servizi di salute mentale e per garantire buone cure in tutta Italia
Trentacinque anni fa, il 13 maggio 1978, l'Italia ha assistito ad una grande rivoluzione. Veniva approvata la Legge 180, meglio conosciuta come Legge Basaglia, che chiudeva per sempre i manicomi e sanciva che le cure legate alle malattie mentali sarebbero state attuate da servizi territoriali. A 35 anni di distanza da questa grande conquista si può dire che in alcune zone d'Italia molto è stato fatto per garantire cure dignitose a chi soffre di malattie mentali. Questo, però, non è avvenuto dappertutto, proprio per l'assenza di direttive precise a livello nazionale. La Legge 180 ha portato alla grande conquista della chiusura dei manicomi, ma è rimasta “incompiuta” proprio perché non era nata per indicare le cose da fare nel quotidiano della salute mentale e non è stata seguita da atti che andassero in questa direzione. Ecco perché, 35 anni dopo, arriva questa proposta di “Legge 181”, con l'obiettivo di dare “gambe” alla “180” e, quindi, andare verso una buona salute mentale in tutta Italia.
Nell'Italia dello spread, delle famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese, dei giovani senza lavoro, a molti sembrerà secondario soffermarsi sul tema della salute mentale. In realtà proprio la situazione di crisi che stiamo attraversando rende ancor più importante interrogarsi su queste tematiche, perché una buona salute mentale rappresenta un requisito fondamentale in una società moderna e civile.

A scrivere il testo è stata l'Associazione “Le Parole ritrovate”, che è pronta a raccogliere le 50.000 firme necessarie in tutta Italia con il motto “Tutti pazzi per la 181”. Le Parole ritrovate dal 2000 promuovono il ’fareassieme’ tra utenti, familiari e operatori della salute mentale, valorizzando il sapere di ciascuno e organizzando eventi nazionali e internazionali contro lo stigma e il pregiudizio (traversata dell’Oceano atlantico in barca a vela, viaggio in treno a Pechino, costruzione di una scuola in Kenya, coast to coast nelle Università USA).
Il testo della legge è originale e fuori dagli schemi. I pilastri sono “parole-chiave” come fiducia e speranza, ma soprattutto si sottolinea la necessità di rendere i Servizi di salute mentale luoghi “accoglienti e colorati”. 
 Un aspetto innovativo introdotto dalla legge sono gli UFE, ovvero “Utenti Familiari Esperti”. Si parte dal presupposto che, oltre al “sapere” degli operatori, sia indispensabile il “sapere esperienziale” di utenti e familiari, che possono mettere al servizio degli altri le loro esperienze vissute in prima persona.
Insomma, si parla di luoghi accoglienti e caldi, utenti e familiari al centro, apertura alla cittadinanza, reinserimento nella società attraverso il lavoro, indipendenza nell'abitare. Concetti che possono sembrare astratti ed utopici, ma che in diverse zone d'Italia sono diventati realtà grazie alla perseveranza e alla concretezza di operatori, familiari e semplici cittadini. Un vero e proprio “modello” che si traduce in una parola: “fareassieme”. Un concentrato di “buone pratiche” ed esperienze concrete virtuose che sono state raccolte in questa proposta di legge (composta da 19 articoli) e che vengono quindi messe a disposizione della salute mentale italiana affinché da Bolzano a Palermo tutti i pazienti dei Servizi possano avere cure uguali e dignitose. 


Per info : www.leparoleritrovate.com
                www.menteinpace.it

domenica 23 giugno 2013

Il viaggio, la sosta, il ritorno

Claudio Magris
L'infinito viaggiare
Mondadori, Milano 2005







... Il viaggio dunque come persuasione. Forse è soprattutto nei viaggi che ho conosciuto la persuasione, nel senso dato a questa parola da Carlo Michelstaedter; quella vita autosufficiente, libera e appagata che Enrico, il personaggio del mio romanzo Un altro mare, insegue con autodistruttivo e vano accanimento. La persuasione: il possesso presente della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo e non solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro, senza annientarlo nei progetti e nei programmi, senza considerarlo semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcosa d’altro. Quasi sempre, nella propria esistenza, si hanno troppe ragioni per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente diventi quanto più velocemente futuro, che il domani arrivi quanto prima, perché si attende con ansia il responso del medico, l’inizio delle vacanze, il compimento di un libro, il risultato di un’attività o di un’iniziativa e così si vive non per vivere ma per avere già vissuto, per essere più vicini alla morte, per morire. Il viaggio incalzante e incalzato, imposto sempre più freneticamente dal lavoro e dalla sua necessaria spettacolarizzazione - specialmente a quel manager di se stesso e dello Spirito che è l’intellettuale, enfasi e caricatura del manager industriale -, è la negazione della persuasione, della sosta, del vagabondare; assomiglia piuttosto a quella eiaculazione precoce che Joseph Roth, riprendendo nel suo romanzo I cento giorni un pettegolezzo in materia riguardante Napoleone,attribuisce all’Empereur, il quale non vuol tanto fare all’amore, quanto averlo subito già fatto, sbrigato e liquidato. Il viaggio del conferenziere, tra un aeroporto o un albergo e l’altro, non è dissimile da questo orgasmo assillato. Ma quando viaggiavo nei vasti paesi danubiani o nei periferici microcosmi, avviandomi in una certa direzione, sempre disponibile a digressioni, soste e deviazioni improvvise, vivevo persuaso, come davanti al mare; vivevo immerso nel presente, in quella sospensione del tempo che si verifica quando ci si abbandona al suo scorrere lieve e a ciò che reca la vita - come una bottiglia aperta sott’acqua e riempita del fluire delle cose, diceva Goethe viaggiando in Italia. In un viaggio vissuto in tal modo i luoghi diventano insieme tappe e dimore del cammino della vita, soste fugaci e radici che inducono a sentirsi a casa nel mondo. C’è il viaggio al di là delle colonne d’Ercole e quello minimo di Pickwick alle sorgenti di Hampstead o quello da una stanza all’altra della propria abitazione, spedizione non meno avventurosa né meno ricca d’incanti e di rischi. I capitani fiumani e triestini di lungo corso che attraversavano gli oceani chiamavano beffardamente "capitan de cadin" (di catino) quelli che percorrevano solo piccoli tratti fra Trieste e l’Istria o tra Fiume e le vicine isole del Quarnero, ma anche in quel golfo la bora provoca tempeste in cui si può naufragare.Pure nei capitoli di questo libro si va agli antipodi ma anche nei microcosmi dei bisiachi o nei nanocosmi della Ciceria e il passo del viaggiatore vorrebbe assomigliare all’andatura di Lawrence Sterne. Viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara. E così comprende che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un ritorno e insegna ad abitare più liberamente, più poeticamente la propria casa. Poeticamente abita l’uomo su questa terra, dice un verso di Hòlderlin, ma solo se sa, come dice un altro verso, che la salvezza cresce là dove cresce il pericolo. Nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in senso forte a essere Nessuno, si capisce concretamente di essere Nessuno. Proprio questo permette, in un luogo amato divenuto quasi fisicamente una parte o un prolungamento della propria persona, di dire, echeggiando don Chisciotte: qui io so chi sono.

 

sabato 22 giugno 2013

Penelope e Ulisse: niente bacio hollywoodiano


Circola per il momento una nuova versione televisiva dell'Odissea. Manco a dirlo ha per titolo Odysseus. Composta da 12 puntate, la serie è stata girata in Francia ed è nata dalla collaborazione tra Francia, Italia e Portogallo. In Italia dovrebbe arrivare in ottobre. Riguarda solo il ritorno di Ulisse a Itaca. La vita sentimentale dei personaggi è considerevolmente arricchita da particolari che non figurano nel poema omerico. Telemaco per esempio ha una fidanzata che è figlia di una schiava troiana. E ragiona con lei come un giovane romantico: la differenza di condizione non è un ostacolo, si sposeranno. L'anacronismo è ugualmente presente nell'incontro tra Ulisse e Penelope. Lei è di spalle, mentre lui le parla. Quando scatta il riconoscimento Penelope si gira e qualche attimo dopo le bocche dei due si unscono in un lungo bacio. Nel poema le cose vanno diversamente. Niente bacio hollywoodiano. 


“Agitata era nel cuore,
incerta se mai interrogare da lungi
il caro marito o se andargli vicino,
baciare il suo capo e toccar le sue mani”.

Quando lei discese, vide Ulisse, ma dalla sua bocca non uscì nessuna parola, e rimase muta.



"Ma ella a lungo sedette, muta, l’animo pieno
d’immoto stupore; ora nel viso guardandolo
lo ravvisava ed or gli pareva un estraneo
coperto il corpo com’era di misere vesti".


Telemaco,per rompere il ghiaccio,chiese alla madre perché stesse lì senza parlare, visto che Ulisse,suo marito, di cui attendeva il ritorno da tanto tempo, era lì, di fronte a lei, in attesa del suo riconoscimento.
Ella gli rispose che non sapeva se lo dovesse interrogare, perché loro avevano molti segreti in comune.

“Figlio mio, d’immoto stupore ho l’animo colmo
nel petto: non posso nessuna parola
dirgli né interrogarlo o guardarlo nel volto
diritto. Se Ulisse egli è veramente,
che a casa è tornato, potremo ben riconoscerci
meglio noi due, perché segni segreti
abbiamo, noti soltanto a noi due".
Così disse; e sorrise Ulisse divino, paziente,
e a Telemaco sùbito volse alate parole:
"Telemaco lascia che in casa tua madre
mi metta alla prova: presto anche meglio
potrà riconoscermi".
(trad. Enzio Cetrangolo)

"Dal bagno uscì simile agli immortali d'aspetto". Così Omero lo descrive, e nei passi precedenti gli aveva attribuito i soliti epiteti ricorrenti, e cioè: divino e scaltro. Alla fine Ulisse chiede alla nutrice di condurlo a letto, ma Penelope ordina a Euriclea di portare lì il letto e imbandirlo di nuove lenzuola. E' una sua astuzia, vuole vedere se l'uomo che ha di fronte cascherà nella trappola. Se l'ospite è Ulisse, allora deve sapere che il letto è stato costruito intagliandolo in un tronco d’ulivo e che, quindi, non può essere spostato. Quasi stando al gioco, Ulisse riesce ad ironizzare chiedendo Chi potrebbe altrove portare quel letto? (v.184) e con minuzia di particolari racconta come l’aveva costruito.

Così parlò e a lei di colpo si sciolsero le ginocchia ed il cuore,
perhé conobbe il segno sicuro che Odisseo le diceva;
e piangendo corse a lui, dritta, le braccia
gettò intorno al collo a Odisseo, gli baciò il capo e diceva:
(trad. Rosa Calzecchi Onesti)

   
"Ah! tu con me non t’adirare, Ulisse,260
Che in ogni evento ti mostrasti sempre
Degli uomini il più saggio. Alla sventura
Condannavanci i Numi, a cui non piacque,
Che de’ verdi godesse anni fioriti
L’uno appo l’altro, e quindi a poco a poco265
L’un vedesse imbiancar dell’altro il crine.
Ma, se il mirarti, e l’abbracciarti, un punto
Per me non fu, tu non montarne in ira.
Sempre nel caro petto il cor tremavami,
Non venisse a ingannarmi altri con fole:270
Chè astuzie ree covansi a molti in seno.
Nè la nata di Giove Elena Argiva
D’amor sariasi, e sonno a uno straniero
Congiunta mai, dove previsto avesse,
Che degli Achei la bellicosa prole275
Nuovamente l’avrebbe alla diletta
Sua casa in Argo ricondotta un giorno.
Un Dio la spinse a una indegna opra; ed ella
Pria, che di dentro ne sentisse il danno,
Non conobbe il velen, velen, da cui280
Tanto cordoglio a tutti noi discorse.
Ma tu mi desti della tua venuta
Certissimo segnale: il nostro letto,
Che nessun vide mai, salvo noi due,
E Attoride la fante a me già data285
Dal padre mio, quand’io qua venni, e a cui
Dell’inconcussa nuzïale stanza
Le porte in guardia son, tu quello affatto
Mi descrivesti; e al fin pieghi il mio core,
Ch’esser potria, nol vo’ negar, più molle".
(trad. Ippolito Pindemonte)

martedì 18 giugno 2013

La fierezza borghese di Voltaire

Voltaire e il cavaliere di Rohan
una replica famosa

 
 
Nel dicembre 1725 Voltaire aveva 31 anni. La sua vita e la sua stessa carriera poetica sembravano avviate per il meglio, ma la situazione cambiò in fretta. Da qualche tempo lo scrittore era ai ferri corti col cavaliere de Rohan-Chabot, quando questi questi lo schiaffeggiò per le sue origini borghesi, Voltaire rispose che il cavaliere disonorava la sua discendenza. Lo scambio di battute fu più esattamente questo:
Arouet? Voltaire? Insomma avete un nome?
[« Arouet ? Voltaire ? Enfin, avez-vous un nom ? »]
E la replica fu : Voltaire ! Il mio nome inizia con me e il vostro con voi finisce.
[« Voltaire! Je commence mon nom et vous finissez le vôtre. »]
Questa replica costò cara al filosofo. L’incidente, infatti, non si esaurì in un semplice scambio di battute. Dopo alcuni giorni Voltaire fu bastonato dai servi del cavaliere di Rohan, e quando diede ad intendere di volersi difendere prendendo lezioni di scherma, la famiglia Rohan lo fece chiudere alla Bastiglia. Voltaire chiese l’esilio volontario in Inghilterra dove rimase per due anni fino al 1728. 
Insomma Voltaire non era uno disposto a farsi in quattro se veniva offeso. Per questo la sua posizione sulla tolleranza era di apertura al dialogo, ma non di cedimento sui principi. La sua era una fierezza ben determinata da nobile di toga, figlio di notaio e fratello di un giansenista convinto.



venerdì 14 giugno 2013

Massimo Recalcati, Telemaco

Odissea, libro II
il discorso di Telemaco agli itacesi

 ansioso di dire
 si fece nel mezzo. L’araldo Pisenore, uomo
di saggi consigli, in mano gli porse lo scettro,
E prima, al vecchio rivolto, Telemaco disse:
“O vecchio, non lungi è quell’uomo: son io,
radunato ho il popolo io, colpito da grande dolore.*
Non di gente, che a noi s’appressi armata,
Nè d’altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d’un male, anzi di duo,
Che aspramente m’investono ad un’ora.
Il mio padre io perdei? Che dico il mio?
Popol d’Itaca, il nostro: a tutti padre
Più assai, che Re, si dimostrava Ulisse.**
L’altro è peggiore, che presto tutta la casa
mia scuoterà, distruggendo tutti i miei beni.
Si affollano i Proci intorno a mia madre
ritrosa, e son figli di nobili;  ma entrare
non osano in casa d’Icario suo padre,
che dovrebbe la figlia cedere in moglie
a quello che gli riesca più gradito;*
l’intero dì nel mio palagio in vece
banchettan lautamente, e il fior del gregge
struggendo, e dell’armento, e le ricolme
della miglior vendemmia urne vôtando,
vivon di me: nè v’ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d’infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, nè uguale all’opra
in me si trova esperïenza, e forza.
Oh così le avess’io, com’io le bramo!**
ma più non sopporto
che la mia casa continui a perire.
Dovreste voi stessi indignarvi e temere
di perder la stima degli altri vicini
e guardarvi dall’ira dei numi, che i vostri
giorni non mutino in tristi. Io vi supplico
per Zeus Olimpio e per Temi, che scioglie
e raduna gli uomini insieme: frenate
dei Proci l’impeto folle, o amici;
non lasciatemi solo a struggermi in pianto,
se pure mio padre, il nobile Ulisse
non mai recò danno agli Achivi
tanto che abbiate di lui a lamentarvi e vogliate
incitare costoro al mio danno. Assai meglio
sarebbe per me se voi stessi i miei beni
divoraste: ne avrei forse un giorno il compenso;
verrei ad uno tutti a pregarvi fintanto
che le sostanze mie non tornassero.
Ora d’affanno insanabile colmate il mio cuore.”*
Detto così, gittò lo scettro a terra,
ruppe in lagrime d’ira, e viva corse
105
di core in cor nel popolo pietade.
     Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d’una risposta,
tutti stavano i Proci.**
... 
* Enzio Cetrangolo
** Ippolito Pindemonte

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I complessi di Edipo e di Narciso hanno costituito chiavi di lettura decisive per comprendere il disagio della Civiltà e sono largamente entrati nella cultura comune. Ma oggi non bastano più per interpretare la sofferenza dei giovani. Se la figura di Edipo ha messo in luce il conflitto tra le generazioni e l'impatto beneficamente traumatico della Legge sulla vita umana, quella di Narciso ha mostrato come il nostro tempo sia dominato dall'homo felix, dedicato al culto frivolo ma anche mortifero di se stesso. Di questa egemonia di Narciso raccogliamo oggi una eredità catastrofica: il mito della crescita e dell'espansione fine a se stessa ha mostrato la corda, lo spettacolo iperedonista si è rivelato un circo vuoto e melanconico.
In questo contesto, una nuova figura sembra rappresentare il disagio. È quella di Telemaco. Massimo Recalcati lavora da diversi anni sul tema del padre e della sua assenza. Nella visione di Recalcati in primo piano non c'è più il conflitto a morte tra le generazioni, né l'edonista e sterile affermazione di sé, ma una domanda inedita di padre, di adulti in grado di offrire una testimonianza credibile di come si possa vivere con slancio e vitalità su questa Terra.

Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013