Così i nostri salari restano i più bassi
La Stampa, 9 ottobre 2025
Ha fatto scalpore una recente analisi comparativa sui salari reali (cioè sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti depurate dall’inflazione) contenuta nell’ultimo bollettino economico della Banca centrale europea. Mostra come l’Italia sia il fanalino di coda in Europa, con una variazione delle retribuzioni reali negli ultimi quattro anni fortemente negativa e uno scarto dai 2 ai 5 punti percentuali (a seconda del deflatore utilizzato) rispetto al complesso dell’area dell’euro. È stato notato (Federico Fubini sul Corriere della Sera) come questo impoverimento dei dipendenti si sia accompagnato con un arricchimento degli azionisti delle imprese, soprattutto banche e grandi società a partecipazione pubblica. In altri termini, nell’eterna lotta fra salario e profitto quest’ultimo in Italia avrebbe in anni recenti trionfato, diversamente da ogni altro grande Paese europeo. Degno di nota che a beneficiarne sia anche lo Stato azionista!
Questa osservazione è sacrosanta e rinvia al ruolo controverso dei sindacati italiani, che sembrano più inseguire emozioni popolari suscitate da fatti esterni che applicarsi al compito per cui sono nati, difendere le ragioni del lavoro nel conflitto col capitale. Ma non esaurisce il problema. Le retribuzioni reali non crescono anche perché non cresce la produttività del lavoro. In un’economia di mercato le due variabili vanno grosso modo di pari passo. La produttività è anzi un’importante determinante della crescita economica.
Da quasi tre decenni, ogni volta che l’economia italiana ha cercato di spiccare un salto che la portasse su una più alta traiettoria di crescita è stata ricacciata indietro dall’andamento stagnante della produttività oraria del lavoro. Essa misura quanto in media un singolo lavoratore produce in un’ora del suo lavoro. La precisazione “in media” è essenziale. Quando si misura la produttività oraria di un’intera economia nazionale si fa la somma di quanto producono in un’ora tutti i lavoratori occupati in quell’economia, in qualunque settore operino, qualunque sia il loro status giuridico e contrattuale, e la si divide per il loro numero: in Italia parliamo di oltre 24 milioni di persone, secondo la più recente rilevazione dell’Istat.
Per rivolgere al problema uno sguardo lungo, mi avvalgo di un saggio pubblicato meno di due anni fa da un’economista della Banca d’Italia (R. Greco). Dal 2000 al 2022 l’economia italiana è rimasta sostanzialmente al palo, crescendo di un miserando 0,3% l’anno in media. In confronto, Paesi come la Germania, la Francia, la Spagna, che pure non hanno brillato in questi anni quanto a dinamismo economico rispetto sia al loro stesso passato sia ad altri Paesi fuori dell’Europa, hanno fatto quattro volte meglio di noi, con tassi annui medi di crescita dell’1,2% e più. Il gracile risultato italiano in termini di crescita del prodotto interno lordo riflette da presso quello della produttività oraria: sempre dal 2000 al 2022 quest’ultima è cresciuta in Italia dello 0,25% l’anno in media, mentre è salita dallo 0,6 all’1% l’anno negli altri tre Paesi.
Non stupisce che nei quattro principali Paesi dell’Europa continentale la crescita economica l’abbia determinata nei 22 anni considerati principalmente l’efficienza produttiva. Le altre possibili determinanti - quantità di lavoratori occupati e di ore lavorate - hanno avuto tendenze simili in tutti e quattro.
Come mai questa inferiorità italiana nell’efficienza con cui si producono beni e servizi? Una possibile risposta potrebbe stare proprio nel fatto che stiamo facendo la media di mele con pere, ovvero, giusto per fare un esempio, di miscroscopi elettronici con servizi di pulizia. Diversi settori produttivi possono avere strutturalmente diverse produttività. Ha l’Italia una composizione settoriale più sfavorevole rispetto al resto d’Europa? No, conclude quella ricerca. Dobbiamo allora indagare altre cause.
L’efficienza produttiva consta di tre componenti: l’abilità dei lavoratori, frutto dell’educazione e dell’istruzione che hanno ricevuto e accumulato in loro stessi (capitale umano); l’efficacia degli strumenti, dei mezzi fisici messi a loro disposizione (capitale fisico); la capacità di coloro che organizzano il lavoro, manager o imprenditori che siano (capitale organizzativo). Il divario maggiore a sfavore dell’Italia si osserva nella terza componente, l’accumulazione di capitale organizzativo, detta anche “produttività totale dei fattori”.
Non che le prime due componenti siano irrilevanti: la prima chiama in causa il sistema educativo e la propensione dei cittadini a dedicare risorse alle conoscenze proprie e dei propri figli; la seconda la possibilità e la voglia di investire sia delle imprese private sia delle organizzazioni pubbliche. Ma la terza agisce da tempo come una zavorra sulla crescita della produttività del lavoro e al tempo stesso è sfuggente, difficile da catturare. Ha a che fare con la tecnologia che si sceglie, con l’inventiva commerciale, con la funzionalità e l’intelligenza delle prassi aziendali e con tante altre qualità ancora.
Dal 2022 a oggi la situazione della produttività in Italia è lievemente migliorata, ma - sostiene un’altra recentissima ricerca della Banca d’Italia (A. Accetturo e altri) - prevalentemente per merito delle imprese con migliori politiche retributive, tipicamente produttrici di servizi tecnologici e professionali. Si conferma il nesso fra retribuzioni e produttività del lavoro.
Resta il fatto che la produttività di tutta l’economia è meno dinamica in Italia che negli altri grandi Paesi europei. A spiegarlo concorre probabilmente la più ridotta scala dimensionale del nostro sistema di imprese, che limita e vincola le scelte tecnologiche e organizzative. È un problema che risale ormai a vari decenni fa, molto citato e dibattuto. È davvero alla base, io credo, del problema di crescita economica del nostro Paese e merita ogni attenzione da parte della politica e dell’opinione pubblica, molto più di quanto normalmente avvenga.
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