lunedì 20 ottobre 2025

Pietà per una madre


Paolo Giordano
Arundhati Roy. Sono un'amica della sconfitta

Corriere della Sera La Lettura, 19 ottobre 2025

Andrà lontano l’autobiografia di Arundhati Roy, Il mio rifugio e la mia tempesta. Lo si percepisce già dalle prime righe, dal nitore con cui Roy evoca la brillantezza del paesaggio del Kerala, la sua regione d’infanzia dove torna per la morte della madre. Sembra che la voce con cui racconta fosse lì da sempre, spontanea, a portata. In un certo senso, il libro è già arrivato lontano. Riesco a parlare con Arundhaty Roy in una pausa fra un tour e il successivo, mentre si trova a casa sua, a Delhi. Negli Stati Uniti, mi dice, sono venute ad ascoltarla migliaia di persone.

E tuttavia, l’assenza di sforzo evidente, in letteratura, è spesso un abbaglio. Nasconde il contrario, una ricerca tenace e approfondita. Le chiedo se non sia stato così anche per lei.

«Ogni libro esige la sua voce. All’inizio hai in mente la palette di colori che vuoi usare, oppure una musica, ma devi trovare la lingua specifica per tradurle. Per questo libro l’ho cercata come si cerca l’acqua. Mi sono detta: sii l’acqua, come Bruce Lee. E infine ho capito di voler scrivere un reportage. Un reportage su argomenti su cui non si scrivono reportage. Sulla vita intima, sulla parte più interiore di me».

C’è quasi una dichiarazione di poetica a un certo punto: Sono stanca delle teorie e delle spiegazioni infinite. Credo di avere iniziato a prediligere le descrizioni.

«A volte è meglio limitarsi a descrivere, lasciare che sia il lettore a evocare le emozioni attorno».

Un frastuono c’interrompe, il cane di Arundhati Roy si mette ad abbaiare, lei si alza per chiudere la finestra. Tornata alla scrivania dice: «Ci sono molte scimmie qui attorno, arrivano in truppe. Il cane vorrebbe parlare con loro».

Le chiedo se ci sia stato qualcosa di particolarmente difficile da estrarre dalla memoria, o da descrivere.

«Non ho mai tenuto un diario o qualcosa di simile. Quindi a essere finite nel libro sono le cose che mi ricordo, o meglio quelle non ho potuto dimenticare. Molte persone, leggendo il libro, vengono investite da una forte carica emozionale. Ma per me si trattava soprattutto di una sfida in quanto scrittrice: sarai in grado di raccontare questa donna, mia madre, Mary Roy, senza che nessuno possa emettere un verdetto definitivo su di lei? Perché per me è stato così. Volevo esprimere l’impossibilità di racchiudere chiunque in una scatola».

E in effetti Mary Roy, la madre di Arundhati, il personaggio centrale e fuori misura in questo libro, sfugge a qualsiasi categoria. Ci fa continuamente oscillare fra l’ammirazione e lo sdegno (l’affetto puro e semplice, invece, non lo proviamo quasi mai). Mary Roy è una madre durissima, talvolta abusante, chiama la figlia «cagna» e il figlio «maiale sciovinista», lo picchia con un righello fino a spezzarlo. Devia tutto l’amore che (forse) ha per loro verso gli allievi della scuola che ha fondato e dirige. È iraconda, inflessibile e ingestibile. Ma è anche creativa, ed è una femminista in un’India ferocemente patriarcale, Mary Roy è un’icona di libertà, insomma. Per questo Arundhati non la odia mai né vuole farlo. Impara da subito, quando è ancora bambina, che con certe figure fuori dagli schemi come sua madre non si ha davvero scelta. L’unica via per amarle è l’accoglienza infinita. E Arundhati ci si applica, fino alla fine, fino alla morte di Mary Roy, il momento in cui inizia il viaggio a ritroso del romanzo.

«In India c’è questa deificazione della madre, del sacrificio materno nei confronti dei figli (soprattutto maschi). Forse riesci a sentire anche adesso la musica che arriva dalla strada, perché in questo preciso momento c’è un corteo di festeggiamenti per le madri. Speravo che smettesse prima di parlarci. Al contempo, in Occidente, c’è questa spinta post-femminista di messa sotto accusa della madre, come origine di tutti i mali. Il momento Sylvia Plath... Io, in questo libro, non volevo distogliere gli occhi dalla luce e non volevo distogliere gli occhi dall’ombra. Volevo prendere tutto. Sebbene mia madre sia stata la causa di molto dolore, ho sempre ammirato che vivesse la sua vita come credeva, contro tutto e tutti. Sapevo, e lo sapeva lei, che sarebbe arrivato il momento in cui in questa lotta saremmo rimaste in piedi solo noi due. Che se qualcuno poteva ucciderla, quella era io. Ma io non ho mai voluto usare le mie armi contro di lei».

Le armi di Arundhati Roy: la scrittura, la popolarità immensa raggiunta con il suo romanzo d’esordio. Non le ha usate contro Mary Roy neppure in questa autobiografia. Anzi, le ha usate per costruire attorno alla madre un monumento funebre strano eppure imponente. Leggendolo, mi sono trovato più volte a pensare che l’ambiguità che Roy esercita di continuo nei suoi confronti è quasi fuori moda.

«Ci ho pensato molto anch’io. L’accettazione delle imperfezioni è qualcosa di innato negli esseri umani. Cerchiamo la bellezza nelle persone ma sappiamo che c’imbatteremo anche in altro. Eppure è in atto uno stravolgimento nel mondo: rispetto alle situazioni per cui non si dovrebbero avere ambiguità, come Gaza, molte persone sono ambigue. Al tempo stesso sono estremamente rigide su altro, sui singoli individui ad esempio, su come dovrebbero esprimersi, sul passaporto che hanno e la casta a cui appartengono. Giudicanti sulle cose su cui si dovrebbe essere ambigui, e ambigui su ciò per cui bisognerebbe avere giudizi netti.»

Politicamente Arundhati Roy è sempre stata molto esplicita, invece. Diretta ai limiti dell’autolesionismo. La sua produzione letteraria non ha un confine netto con l’impegno sociale, tanto da farle scrivere: A me scrittrice-attivista suonava un po’ come divano-letto .Ma l’apertura nelle relazioni personali e l’inflessibilità politica sono spesso entrate in contrasto nella sua vita.

«Il libro ne parla molto. Ho lasciato l’amore della mia vita (Pradip) quando lui ha ereditato la casa e gli averi della sua famiglia. L’ho lasciato per proteggere lo spazio in cui essere la scrittrice che volevo. Accettando quel privilegio, quella posizione, non sarebbe più stato possibile. Ma è stato un prezzo altissimo da pagare, lo è ancora. Ho spezzato il cuore a molte persone.»

C’è una situazione del genere anche verso la fine. Mary Roy è ricoverata, debole, Arundhati si trova al suo capezzale. Una notte la madre fa un commento terribile, razzista, sulle infermiere, le chiama quelle paria, e dalla rabbia la figlia scaraventa una sedia a terra.

«Ero convinta di averla uccisa, per lo spavento. Nel libro mi chiedo se sia necessario arrivare a uccidere le nostre madri per toglierci dal sangue il loro lascito razzista. È un altro dei momenti in cui gli affetti e la politica si scontrano. L’ambiguità è come un elastico, posso estenderlo fino a un certo punto, ma non all’infinito».

Ti succede in questo periodo? Di arrivare all’estensione massima dell’elastico su argomenti di dibattito laceranti come Gaza?

«In India tutto questo è iniziato molto prima, vent’anni fa, con l’ascesa del nazionalismo indù. La questione qui è il Kashmir (territorio conteso con il Pakistan, dove la comunità musulmana è vittima di persecuzioni e attacchi), ma l’analogia con il sionismo è molto stretta. I miei filtri sono stati messi all’epoca e hanno funzionato ininterrottamente. Quindi è difficile che oggi mi ritrovi in un’amicizia stretta con qualcuno che ha idee su Gaza molto lontane dalle mie».

C’è stata mobilitazione in India sul tema?

«Nell’India di un tempo ci sarebbero state milioni di persone in piazza. Ora nessuno. In Italia avete un governo di estrema destra ma anche un milione di persone in strada per Gaza. Qui, se si raggruppano in una ventina, non vengono neppure fermati dalla polizia, ci pensano gli altri cittadini. Nazionalisti indù. Escono a menare i manifestanti».

Vent’anni di nazionalismo, dev’essere frustrante. «Non è solo frustrante. È anche spaventoso. Il libro sta avendo un enorme successo in India e una persona, qualche giorno fa, mi ha detto: sarai molto contenta. Ma insieme alla fama cresce anche la paura, perché diventi più visibile come nemica dello Stato. Cosa mi faranno adesso? La soddisfazione pura e semplice, in India, per me, è finita molto tempo fa».

Ma continui a non considerare l’idea di vivere altrove. «Non è una questione di coraggio. Appartengo a una comunità, a un gruppo di persone che stanno lottando, che resistono. Anche se stiamo perdendo. Come scrivo nel libro, sono diventata un’amica del fallimento e della sconfitta. C’è così tanto amore anche nel fallimento».

Modi è ormai al potere da...

«... è primo ministro dell’India dal 2014. Ma già nel 2002 governava il Gujarat e sotto la sua guida si è consumato il massacro dei musulmani (duemila vittime secondo certe fonti, alcune bruciate vive, pogrom, stupri di massa). Modi non ha mai espresso alcun rimorso».

Nel frattempo è riuscito a farsi accettare completamente dai governi occidentali. Oggi, mi sembra, Narendra Modi è normalizzato.

«Ha scritto la prefazione all’edizione indiana della biografia di Giorgia Meloni».

E la seconda prefazione è di Donald Trump jr... Okay. Forse la politica ci ha trascinato troppo lontano dal libro, con Arundhati Roy è inevitabile. E comunque, l’ascesa di Modi, il nazionalismo, il Kashmir sono tutti presenti nel suo memoir, perché sono presenti nella sua produzione letteraria e nella sua vita. Roy arriva a scrivere che dopo aver conosciuto il Kashmir non puoi tornare alle vecchie conversazioni, alle vecchie battute, al divertimento fine a sé stesso. L’estremizzazione politica del suo Paese è uno spartiacque della sua vita almeno quanto, da ragazza, lo è stato lasciare il Kerala e sua madre per andarsene a Delhi, almeno quanto il successo del Dio delle piccole cose.

Ma la scena più memorabile del libro, per me, è un’altra. È l’incontro con il padre, Micky Roy. Arundhati non lo vedeva dall’età di tre anni, di lui non aveva ricordi. Micky Roy è un uomo che vive alla giornata, alcolizzato, la sua ex moglie lo chiama «la Nullità», ma in quella che lei giudica una debolezza e basta, c’è anche una caratteristica che forse è necessaria a ogni scrittore e scrittrice, e che forse Arundhati ha ereditato da lui: saper fissare il vuoto per ore, non fare niente, assolutamente niente, se non le bolle di saliva.

«Non posso credere che tu mi parli di questo! Proprio oggi raccontavo a un amico del tour americano. Una presentazione dopo l’altra, un viaggio dopo l’altro e durante le tratte in aereo avevo accanto il mio editore, che mandava in continuazione mail, che era sempre impegnato. Io non riuscivo a fare nulla invece. Non pensavo, non scrivevo, non guardavo video, non leggevo, non ascoltavo musica. Fissavo il vuoto. E mi dicevo: dev’essere un’abilità che mi viene da Micky Roy! Da piccola pescavo questi pesciolini di fiume in Kerala e dovevo restare immobile a lungo. Saper non fare nulla è un dono».

Il libro è pieno di dettagli vividi come i pesciolini di fiume. Penso alla pillola rossa dell’antistaminico, per esempio.

«Faccio impazzire tutti con la mia ossessione per i dettagli. I miei editori, i grafici. Quando lavoravo nella scrittura e nella produzione dei film, giravamo spesso nella giungla, senza telefoni, senza nulla. Ogni dettaglio andava pensato in anticipo».

Scrivi che la tua formazione letteraria è avvenuta esclusivamente su scrittori «maschi e bianchi», ma poi non racconti quando il resto della letteratura è entrato nella tua vita.

«È successo dopo che ho lasciato il Kerala per Delhi. Mi ricordo di aver letto L’eunuco femmina di Germaine Greer. Non che avessi apprezzato e condiviso tutto del libro, ma era stato sorprendente. Poi sono arrivati James Baldwin, Toni Morrison e tutti gli altri. E comunque, mentre leggevo gli scrittori maschi e bianchi, c’era anche un’altra influenza letteraria importante, che non arrivava dai libri. La danza kathakali. Il modo in cui i danzatori passavano dall’epica ai dettagli minimi, la musicalità, la loro capacità di cambiare registro in continuazione, di essere drammatici poi comici poi volgari. Ho imparato così lo storytelling».

Vai ancora in Kerala dopo la morte di tua madre?

«Il lancio del libro è stato lì. In una scuola femminile, perché non c’erano sale adatte. Sono venuti i miei editori stranieri, i miei amici di Delhi, e mio fratello ha cantato Let It Be».

Purtroppo nel titolo italiano si perde la citazione di Let It Be che è nel titolo originale, Mother Mary Comes to Me.

«Il titolo è stato quello dall’inizio. C’è un’attitudine rock and roll nel libro, il modo in cui questa ragazza, io, fa le proprie scelte, lascia casa sua, lotta e soffre, ma senza tragedia.»
Let it be, insomma.


https://machiave.blogspot.com/2025/08/mia-madre-viene-da-me.html


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