giovedì 27 dicembre 2018

Storie di utopia e di terrore




Pierluigi Battista, Sotto il segno del Gulag, Corriere della Sera, 27 dicembre 2018


Nella sua postfazione a Nel primo cerchio (editore Voland), la prima versione non purgata pubblicata in Italia del romanzo di Aleksandr Solženitsyn, Anna Zafesova scrive: «A Milano eravamo in una grande libreria, convinti di trovare uno dei più grandi romanzi del Novecento in cinque minuti, un po' come si entra in un supermercato sicuri di trovare il latte o il pane. Ma il romanzo non c’era negli scaffali della letteratura straniera e nemmeno in altri reparti», e infatti «il gentile giovane commesso ci disse che era ormai fuori stampa, guardandoci con educato stupore», come se fossero apparsi «due personaggi bizzarri». Ecco: in Italia appare una bizzarria cercare «uno dei più grandi romanzi del Novecento».
Il 2018 è stato il centenario della nascita di Solženitsyn e il decimo anniversario della sua morte, ma appare ancora una bizzarria ricordarlo, pur nella bulimia delle commemorazioni che solitamente impegnano le energie di una società letteraria dedita al rito delle ricorrenze enfatiche. È una bizzarria addirittura aver letto Arcipelago Gulag (fate un sondaggio tra i vostri amici, anche quelli più acculturati: non l’ha letto quasi nessuno), una «dinamite» che al suo apparire scosse e lacerò il mondo culturale della sinistra francese, ma che fu ignorato, disprezzato, persino deriso da un mondo intellettuale censorio e conformista, lo stesso mondo intellettuale che ostracizzò con furore dottrinario nel 1977 la Biennale del dissenso voluta con coraggio a Venezia da Carlo Ripa di Meana.
Qualcuno ebbe da eccepire sulle qualità letterarie dell’opera di Solženitsyn, e questa banale estetizzazione di un radicale imbarazzo politico mi è sempre sembrata una scorciatoia fatua, un modo per parlar d’altro e non affrontare lo scandalo dei milioni di zek (il nome dei prigionieri del Gulag svelato da Solženitsyn proprio nelle pagine di Nel primo cerchio), simbolo delle mostruosità del «socialismo reale». Ma mi sbagliavo perché, come ha scritto Barbara Spinelli nell’introduzione di Arcipelago Gulag uscito anni fa nei Meridiani Mondadori, Solženitsyn e il Varlam Šalamov dei Racconti della Kolyma sono riusciti a «mettere l’alta letteratura al servizio del vero». E il vero, nelle vesti della letteratura che sa vedere e scovare le pieghe della realtà impenetrabili con gli strumenti gelidi della saggistica, ha un impatto più forte, mette in mostra le emozioni, è più pericoloso quindi. E se era ancora possibile ignorare il monumento saggistico, pieno di dati inconfutabili, del grande Robert Conquest, autore de Il Grande Terrore sui massacri staliniani, invece Solženitsyn, con la potenza letteraria della sua scrittura, non doveva essere soltanto ignorato, ma preso a bersaglio di un pregiudizio critico adibito alla demolizione di un grande scrittore: che infatti aveva voluto come sottotitolo del suo capolavoro Un’indagine letteraria.
La denuncia dei crimini del Gulag doveva essere neutralizzata, sconsigliando la lettura di un libro che non era solo denso di fatti e di testimonianze, ma era anche un esempio di «alta letteratura». La liquidazione letteraria come deterrente e prologo di una liquidazione politica. Nell’Unione Sovietica i dissidenti venivano liquidati come malati di mente e reclusi negli ospedali psichiatrici. Più banalmente, nei salotti della cultura irreggimentata dell’Occidente si liquidava con supponenza lo scrittore Solženitsyn per rinchiuderne il nome nel dimenticatoio degli autori da ignorare.
Come il gentile commesso della libreria rievocato da Anna Zafesova, che non sapeva nemmeno quanto grande fosse Solženitsyn e quanto avvincente fosse Nel primo cerchio, fosse pure nella versione più digeribile che l’autore stesso volle proporre per eludere le forche caudine della censura sovietica, nel 1968. Sei anni prima dell’uscita di Arcipelago Gulag, pubblicato all’estero anzitempo dopo che gli scherani del regime avevano messo le mani su una parte del dattiloscritto, trovato dopo l’interrogatorio della segretaria di Solženitsyn, che per la vergogna della delazione estorta con l’intimidazione si suicidò.
Con Nel primo cerchio, la descrizione letteraria di Solženitsyn non attinge ancora i vertici dell’orrore, della degradazione e dell’umiliazione patita da milioni di prigionieri. Il «primo cerchio», eco dell’Inferno dantesco, è il girone dei prigionieri «privilegiati», la šaraška dove, commenta Anna Zafesova, erano «detenuti ingegneri e matematici», costretti a lavorare «alla costruzione di apparecchiature che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri prigionieri». La lontananza dalle atrocità commesse nei gironi infernali «inferiori» del Gulag viene però pagata dall’atrocità di dilemmi etici dolorosi: collaborare per salvarsi, per la paura, per non piombare agli ultimi gradini dell’abiezione? Questo è il quadro simbolico, emotivo ed esistenziale in cui si muove la narrazione di Solženitsyn. Ma la pubblicazione in Italia di un altro straordinario libro, La casa del governo di Yuri Slezkine, edito da Feltrinelli, consente di penetrare nella vita quotidiana di quegli strati privilegiati della società sovietica, che però in Una storia russa di utopia e di terrore, come recita il sottotitolo del massiccio volume feltrinelliano, saranno inghiottiti dall’abisso della persecuzione e della morte.
Mentre nel resto della società sovietizzata si pativano lo squallore e la miseria della coabitazione forzata in appartamenti requisiti e ridotti a degradati e superaffollati alveari umani, l’onnipotente partito aveva preparato per la sua nomenklatura, lungo gli argini della Moscova, un complesso abitativo da incubo, con oltre cento appartamenti collegati, spazi sportivi e ricreativi comuni. Tutto in comune, anche l’angoscia di oltre cento famiglie dello stato maggiore bolscevico che passeranno dai fasti dell’«utopia», il privilegio di chi aveva condotto la rivoluzione, al «terrore» che decimerà quella nomenklatura.
C’è qualcosa di soffocante e di claustrofobico in questo complesso residenziale, un’atmosfera malsana e asfissiante che ricorda alla lontana un’altra epica del terrore vissuta nelle stanze di un luogo chiuso: il grande Hotel Lux di Enzo Bettiza. Ma la forza di questo romanzo è di aver raccolto, tra lettere, fotografie, diari uno spaccato della società sovietica dove domina il chiaroscuro della vita di tutti i giorni, con i presagi della devastazione e della persecuzione, l’atmosfera quotidiana di sospetto e di ansia che domina anche i settori meno colpito dalle durezze della vita post-rivoluzionaria.
Un affresco epico, di epica del terrore, che analizza i momenti che precedono il crollo nell’universo concentrazionario del terrore: si spariva nella Russia sovietica, nella prigione mentale e fisica del «socialismo reale», e poi intere famiglie venivano risucchiate e annichilite nella macchina crudele del Gulag, senza un perché, un avvenimento che potesse almeno alludere a qualche ragione dello sprofondare nell’apocalisse. Rivivono in questo libro i fantasmi delle famiglie scomparse, ma si ricostruisce anche un pezzo della cultura sovietica, della mentalità di chi ha promosso e poi subito le conseguenze della presa del potere da parte dei bolscevichi, della storia dell’architettura, degli oggetti, delle immagini, della scrittura, degli affetti che davano il tono e il clima al «regno del terrore» in cui dalla lontana Siberia, destinazione finale dei perseguitati e degli assassinati, spirava fin nel cuore della capitale il vento dell’angoscia e della paura.
La letteratura si conferma lo strumento migliore per afferrare e capire i dettagli esistenziali di una storia tragica, di un arcipelago del terrore che abbiamo imparato nonostante tutto a definire con il suo giusto termine: Gulag.

https://machiave.blogspot.com/2015/03/la-casa-sul-lungofiume-mosca.html

sabato 22 dicembre 2018

Il declino della civiltà borghese



Aldo Masullo, L'Italia si salva se in tutti noi torna la coscienza di essere popolo, la Repubblica Napoli, 21 dicembre 2018


Ho scritto su queste pagine, qualche tempo fa, che il termine imborghesimento può ben servire a designare la straordinaria trasformazione sociale avvenuta nei decenni ’50-’70 del secolo scorso. In tale periodo il mortificante senso di servile umiltà del lavoro destinato ai proletari, a coloro cioè senz’altri beni che la prole da offrire allo sfruttamento dei padroni o peggio alle guerre dei sovrani, fu sostituito con l’orgoglio del lavoro finalmente riconosciuto. In Italia la Costituzione lo proclamò fondamento della Repubblica.

L’uomo massa dell’industrialismo avanzato giunse allora a godere di un moderato benessere, ma soprattutto si sentì integrato come membro paritario nella nuova società dei diritti. La borghesia divenne insomma una specie di classe generale, quasi un amplissimo campo di ceti operosi, in cui le stesse élites molto spesso avevano le loro radici. Per un trentennio, pur tra drammatiche tensioni e minacciosi attacchi, la civiltà europea coltivò modelli di democrazia liberale. Sulla nuova base di borghesia diffusa grandi statisti credettero si potesse fondare un’unità continentale sempre più tranquillamente amministrativa e sempre meno agonisticamente politica, tanto ricca di scambi quanto pacifica.

La solenne Costituzione europea, intesa a ufficializzare questo promettente stato di cose, sottoscritta dai governi nel 2004, abortì miseramente nel 2005 per la negata ratifica da parte degli elettori francesi e olandesi.

La clamorosa rottura, dovuta non poco alla colpevole lontananza dei processi istituzionali dalle opinioni pubbliche, in realtà mise allo scoperto la drammatica inversione della storia sociale, che a partire dagli anni ’80 era venuta incubando terribili guasti. Si stava scatenando la tempesta perfetta. Per il combinato verificarsi di cambiamenti sconvolgenti (le tecnologie avveniristiche, la globalizzazione selvaggia, la pesante serietà dei processi economici stravolta dall’ingannevole leggerezza dei giochi finanziari, la deliberata deregolazione dei sistemi pubblici, l’attacco della vendetta islamica alla supremazia occidentale, lo scontro di antiche e nuove aggressive ambizioni egemoniche), è stato via via lacerato il tessuto della giovane società europea, liberale e democratica. Nel giro degli ultimi decenni l’imborghesimento di massa si è rovesciato in una rinnovata proletarizzazione. La classe generale europea si è ridotta sempre meno borghese e sempre più proletaria. È stata una rovinosa caduta. I lavoratori hanno perduto il benessere, mentre i giovani non lo trovano.

Il peggio è l’immiserimento morale, la perdita della fiducia dell’uomo nell’uomo.
I più non possono sopportare la retrocessione e nutrono un rancore crescente. Già riconosciuti come membri paritari della società dei diritti, compartecipi dunque del potere sociale, adesso riproletarizzati s’arrabbiano, ritrovandosi impotenti perfino a farsi ascoltare. Oltre che oggettivamente offesi, essi sono profondamente umiliati, respinti al fondo della loro attuale pochezza.

Il movimento dei gilet gialli, che dilaga per le strade di Francia, è un caso esemplare dei tre tempi della storia sociale di massa degli ultimi settant’anni: ascesa e imborghesimento; discesa e riproletarizzazione; generalizzato sconforto e impulso di rivolta.

Esemplare è l’agitazione dei gilet gialli francesi. Il bersaglio centrale dell’esploso furore, al di là del grave peggioramento economico, è l’indifferenza del potere alla voce dolente del popolo. Autorevoli osservazioni concordano. Il geografo Christophe Guilly dice: il movimento «è un modo rudimentale di combattere contro l’invisibilità sociale».

L’analista Jerome Fourquet è ancor più diretto: «Molti gilet gialli non si sentono rispettati».
La scrittrice Annie Ernaux rivendica il «carattere profondamente popolare della protesta, che riguarda persone accomunate dalla condizione esistenziale del sentirsi disprezzate, escluse».

Con l’invasione delle piazze, innescata dal disagio economico, esplode una profonda sofferenza politica. La riproletarizzazione di questi anni comporta non solo una incalzante riduzione del potere d’acquisto ma soprattutto una mortificante revoca di potere. In un paese come la Francia, in cui l’equilibrio repubblicano dipende dal rapporto tra tendenziale centralismo elitario e sanguigna fierezza popolare, la riproletarizzazione è un’insopportabile rottura dell’ultimo compromesso politico.

Il popolo, non il populismo, è stato in questi giorni protagonista dei fatti di Francia (a parte isolati gesti di ribellismo e perfino di razzismo antisemita).
A riflettere su questo episodio, si coglie la radicale differenza tra populismo e popolo. Populismo è un’impresa di parte, di uno o di pochi che progettano di conquistare il potere con il sostegno dei più, abilmente manipolandoli e rinfocolandone rancorose frustrazioni. Popolo invece sono i più, quando maturano il senso del loro essere comune e della loro solidale responsabilità.

Una politica populistica temerariamente promette. La politica seria propone e discute.
Anche in Italia, come in Francia, il potere diffuso e la coscienza d’esserne partecipi sono scomparsi. Sindacalista o insegnante, parlamentare o sindaco, nessuno più sente, nella propria funzione specifica, di concorrere alla direzione civile del paese, e di essere perciò partecipe del potere politico generale. I diversi luoghi del potere diffuso sono in realtà tutti deserti.

Non restano, a quanto pare, che i pochi centri di potere forte: la solita "razza padrona", le famiglie un tempo grosse imprenditrici ed ora intese soprattutto a moltiplicare le rendite finanziarie. Ma la sorte del mondo la decidono su ben altra scala concentrazioni di potere, i cui luoghi sono rigorosamente invisibili.
Intanto gl’italiani dei ceti operosi, prima imborghesiti e poi riproletarizzati, in gran numero sembrano essersi sciolti in una poltiglia informe di paure e d’illusioni. Si sfogano sui social o fidano incantati nei giochi di prestigio populistici.

Ma la salvezza sta altrove, nel coraggio di rifarsi popolo. Ad avviare questa difficile impresa deve lavorare, se ancora c’è, l’intelligenza politica. Il tempo è propizio. Nel momento stesso in cui, lasciata dai governi ingrigire, l’Europa deperisce, una sua nuova unità appare indispensabile.
Questo è già l’aurorale orizzonte, in cui con entusiasmo si muovono i nostri giovani, in cerca di conoscenza e di lavoro.

Gaetano Manfredi, il rettore dell’Università Federico II, insiste con forza a ricordarci che queste generazioni «conoscono il valore dell’Europa della pace, un bel sogno da difendere strenuamente». Nell’impegno per la giovane Europa all’intelligenza politica si offre la grande occasione di riaccendere negl’italiani la coscienza di essere popolo.
 

giovedì 20 dicembre 2018

T.S. Eliot, Sant'Apollinare in Classe




 testo originale

LUNE DE MIEL

Ils ont vu les Pays-Bas, ils rentrent à Terre Haute,
Mais une nuit d'été, les voici à Ravenne,
A l'aise entre deux draps, chez deux centaines de punaises;
La sueur aestivale, et une forte odeur de chienne.
Ils restent sur le dos écartant les genoux
De quatre jambes molles tout gonflées de morsures
On relève le drap pour mieux égratigner.
Moins d'une lieue d'ici est Saint Apollinaire
En Classe, basilique connue des amateurs
De chapitaux d'acanthe que tournoie le vent.

Ils vont prendre le train de huit heures
Prolonger leurs misères de Padoue à Milan
Où se trouve la Cène, et un restaurant pas cher.
Lui pense aux pourboires, et rédige son bilan.
Ils auront vu la Suisse et traversé la France,
Et Saint Apollinaire, raide et ascétique
Vieille usine désaffectée de Dieu, tient encore
Dans ses pierres écroulantes la forme précise de Byzance.

traduzione di Roberto Sanesi

Hanno visto i Paesi Bassi, rientrano a Terre Haute;
ma una notte d'estate eccoli là a Ravenna,
fra due lenzuola, distesi, fra centinaia di cimici;
sudore estivo e un forte odore di cagna.
Restano sulla schiena divaricando i ginocchi
di quattro gambe molli tutte enfiate dai morsi.
A meno di una lega da qui c'è Sant'Apollinare
in Classe, basilica assai nota agli amatori
dei capitelli d'acanto che sfidano il vento a tenzone.

Vogliono prendere il treno delle otto
prolungare le loro miserie da Pasdova a Milano
dove si trova la Cena
e anche un ristorante a buon mercato. 
Lui pensa alla mance, redige il suo bilancio.
Avranno visto la Svizzera e attraversato la Francia.
E Sant'Apollinare, teso e ascetico,
vecchia fabbrica di Dio ormai in disuso, mantiene
nelle sue pietre che crollano la forma precisa di Bisanzio.


mercoledì 5 dicembre 2018

Lager in Libia


Paolo Borgna, Lager in Libia. L’orrore delle torture in una sentenza che ha fatto storia, Avvenire, 20 novembre 2018

Non si scrivono sentenze per scrivere la storia. Ma accade che, per scrivere la storia, certe sentenze siano utili. Tale è la sentenza emessa nell’ottobre 2017 dalla Corte d’Assise di Milano che, col crisma di una decisione giudiziaria al termine di un processo garantito, descrive l’inferno che già inchieste e reportage giornalistici, dossier Onu e denunce politiche avevano raccontato: la realtà dei centri libici di detenzione per migranti. A essa è ora dedicato anche un libro: L’attualità del male, La Libia dei Lager è verità processuale (a cura di Maurizio Veglio, Seb 27), in uscita proprio in questi giorni.
Perché una Corte italiana si occupa di fatti avvenuti in Libia? All’inizio, c’è un fatto casuale. Dei vigili urbani di Milano, un giorno del settembre 2016, di fronte alla stazione Centrale, vengono chiamati da un gruppo di cittadini somali che tiene bloccato un connazionale: si chiama Osman Matammud.
È l’uomo che, mesi prima, li aveva sequestrati e seviziati in un campo libico in cui erano transitati prima di arrivare irregolarmente in Italia. La Procura di Milano, raccolte le prime testimonianze, procederà solo dopo che il guardasigilli Orlando avrà dato l’autorizzazione (prevista, dall’art. 10 del nostro codice, per gravi reati commessi all’estero, quando il colpevole si viene a trovare in Italia). Seguirà una seria indagine in cui alle numerose testimonianze si affiancheranno perizie antropologiche e medico-legali (sui postumi delle torture) e l’esame delle immagini trovate sul cellulare sequestrato all’imputato. Nella sua requisitoria finale il pm Marcello Tatangelo – magistrato noto per la sua esemplare sobrietà di linguaggio – dirà di aver scoperto «una situazione paragonabile a quella di un lager nazista».
Sullo sfondo: il collasso di uno Stato autoritario che apre la strada a una proliferazione di governi autoproclamati e a un’anarchica economica fondata sulla schiavitù. Il viaggio, a bordo di pick-up, dal Sud subsahariano verso la Libia, di uomini e donne che già sanno di affrontare mesi di inferno ma disposti a pagare questo prezzo pur di raggiungere l’Europa. Responsabili della sicurezza di raffinerie che fanno i contrabbandieri e che diventano capi di milizie e poi responsabili di centri di detenzione. La simbiosi tra Guardia costiera libica (che intercetta in mare i migranti e li consegna ai centri detentivi) e le milizie locali coinvolte nei traffici. L’accordo tra il governo di al-Serraj e le milizie private al fine di interrompere il flusso di profughi; per cui «i trafficanti di ieri sono i poliziotti di oggi».
Ma non è tanto questo a scandalizzarci: la storia è piena di esempi di 'banditi' che, all’esito di rivolgimenti politici, diventano poliziotti. Ciò che scandalizza è come sono gestiti i campi (ricavati in fabbriche, magazzini abbandonati, hangar non areati) e cosa vi accade: la privazione della libertà a tempo indefinito (fuori da qualunque giurisdizione); la possibilità di essere liberati (e quindi messi sui barconi verso l’Europa) solo con il pagamento di denaro da parte dei familiari; la richiesta telefonica di invio di denaro ai parenti rimasti nei Paesi di origine, con pestaggi e sevizie 'in diretta' telefonica; la malnutrizione; la promiscuità; le condizioni igieniche che generano epidemie; gli stupri; le spranghe di ferro; le fruste; i sacchetti di plastica sulle spalle dei prigionieri, per far colare la plastica liquefatta incandescente sulle loro schiene; le scariche elettriche; e, infine, l’omicidio dei torturati i cui parenti non pagano; la persona umana ridotta a merce di scambio. Non si può, in poche righe, riassumere l’orrore che trasmettono queste pagine. Al termine della lettura, viene solo da dire: «Leggete questo libro, per favore. Non girate la testa dall’altra parte». Anche chi ritiene che l’accoglienza non possa essere illimitata. Anche chi teme che un assoluto e non governato diritto alla mobilità delle persone possa minare la coesione sociale dei Paesi europei (e per questo abbiamo bisogno di un grande piano Marshall per l’Africa, secondo progetti su cui Avvenire fa costante informazione). Anche chi pensa che, nei decenni scorsi, le élite europee abbiano sottovalutato l’impatto del fenomeno migratorio sulle fasce sociali più deboli delle nostre popolazioni (a cominciare dalla microcriminalità di strada). Anche costoro non possono non provare orrore di fronte alla tortura. Non possono evitare la domanda: «Ma è questo che noi vogliamo?» Non possono far finta di non capire che, se davvero vogliono difendere la civiltà occidentale, non possono accettare in silenzio che i valori su cui si fonda questa civiltà siano quotidianamente calpestati per milioni di persone.
Non possono dimenticare che, solo dopo secoli di tragedie della storia europea, abbiamo avuto il miracoloso incontro di umanesimi di diversa radice (religiosa, filosofica, culturale, politica) che hanno un comune codice genetico: il rifiuto che, in qualunque circostanza, «l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa» (Beccaria). Nei nostri Tribunali, giustamente, la connivenza non è complicità: assistere alla commissione di un reato senza intervenire (a meno che la legge ti attribuisca il dovere di farlo) non significa essere corresponsabili di quel reato. Ma di fronte al Tribunale della storia, quando i nostri nipoti giudicheranno il nostro silenzio davanti al male, ogni connivenza sarà chiamata complicità.

domenica 2 dicembre 2018

Il fantasma della bellezza perduta

Venere Medici
La vecchia è uno tra i personaggi che popolano il Candido (1759) di Voltaire. Compare nel capitolo VI e non sembra avere un altro nome fino a quando, nel capitolo XI, non viene posta al centro della scena: "Storia della vecchia" è il titolo. Lei prende subito la parola per affrontare il tema della sua apparenza fisica. Se il nome a lei attribuito poteva essere una sorta di stigma, ora arriva il risarcimento. La locuzione "non sempre" viene ripetuta per tre volte. Un esorcismo che dà luogo all'evocazione di una immagine ben diversa, che esprime lo splendore della bellezza trionfante. 












Io non sono stata sempre cogli occhi cisposi e orlati di scarlatto, il mio naso non è sempre andato a ritoccarsi col mento, nè sono stata sempre serva. Io sono figlia di papa Urbano decimo, e della principessa di Palestrina. Fui fino all’età di quattordici anni allevata in un palazzo, a cui tutti i castelli dei vostri baroni tedeschi avrebbero potuto servire da stalla; e valeva più uno dei miei abiti che tutte le magnificenze della Vesfalia. Crescevo in bellezza, in grazia e in talento, in mezzo ai piaceri, agli ossequi ed alle speranze, e ispiravo già amore; e che petto! bianco, fermo, scolpito come quello della Venere de 'Medici; che occhi! che palpebre! che ciglia! che fiammelle scintillavano dalle mie pupille, e oscuravano il fulgore delle stelle! come mi dicevano i poeti del luogo. Le donne che mi vestivano e mi spogliavano cadevano in estasi, guardandomi dal davanti e dalla schiena; e tutti gli uomini avrebbero voluto essere al loro posto.
 
Je n’ai pas eu toujours les yeux éraillés et bordés d’écarlate; mon nez n’a pas toujours touché à mon menton, et je n’ai pas toujours été servante. Je suis la fille du pape Urbain X et de la princesse de Palestrine. On m’éleva jusqu’à quatorze ans dans un palais auquel tous les châteaux de vos barons allemands n’auraient pas servi d’écurie; et une de mes robes valait mieux que toutes les magnificences de la Vestphalie. Je croissais en beauté, en grâces, en talents, au milieu des plaisirs, des respects, et des espérances: j’inspirais déjà de l’amour; ma gorge se formait; et quelle gorge! blanche, ferme, taillée comme celle de la Vénus de Médicis; et quels yeux! quelles paupières! quels sourcils noirs! quelles flammes brillaient dans mes deux prunelles, et effaçaient la scintillation des étoiles! comme me disaient les poëtes du quartier. Les femmes qui m’habillaient et qui me déshabillaient tombaient en extase en me regardant par devant et par derrière; et tous les hommes auraient voulu être à leur place. 

https://generazionediarcheologi.com/2015/10/19/uffiziarcheologia-la-vendetta-della-venere-medici/

giovedì 29 novembre 2018

Alle origini del neoliberismo

Ludwig von Mises

Paolo Di Motoli,
Neoliberalismo, tutto cominciò nella Camera di commercio a Vienna
il manifesto, 29 novembre 2018



Lo storico del Wellesley college (Massachussets) Quinn Slobodian ha pubblicato di recente un testo (Globalist. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Harvard University Press) che intende raccontare la nascita del neoliberalismo da un punto di vista differente rispetto alla vulgata comune anche tra gli scienziati sociali.
Secondo l’autore uno degli ostacoli principali nel raccontare il neoliberalismo, ponendosi dal punto di vista dei suoi animatori, è l’eccessiva fiducia nelle categorie interpretative del celebre storico dell’economia e antropologo Karl Polanyi.
L’INFLUENZA RETROATTIVA della sua opera più importante dal titolo La grande trasformazione ha prodotto una narrazione del neoliberalismo (pur precedendolo) come di un movimento teorico volto a «liberare» dalla società il mercato interpretato come fatto naturale e realizzando l’utopia di un mercato che si regolamenta da solo. Questa narrazione si è di fatto sovrapposta alle reali intenzioni degli stessi autori ascrivibili al neoliberalismo che invece pensavano al mercato come intreccio di relazioni che deve fare affidamento sulle reti istituzionali.
Secondo Slobodian, fin dai suoi esordi, il neoliberalismo austriaco non avrebbe cercato di abbattere lo stato, ma di creare un ordine internazionale ben strutturato in grado di salvaguardare la proprietà privata dalle ingerenze dei singoli stati. Questo pensiero era il frutto di una reazione di stampo conservatore al crollo dell’impero asburgico.
LO STORICO FA INIZIARE il neoliberalismo non dall’autonarrazione eroica che ne fecero i membri della Mont Pèlerin society (otto premi Nobel al suo interno) del 1947 che nella pubblicistica si è sempre battuta per il liberalismo e per la società aperta, ma dall’edificio della Camera di commercio di Vienna dove Ludwig Von Mises cominciò a lavorare a partire dal 1909.
MISES RITENEVA il crollo asburgico come una minaccia per la proprietà privata poiché questa era garantita in passato dall’imperatore mentre con la democrazia poteva essere messa in discussione e controllata dallo stato. L’avvento del fascismo venne salutato da Mises con sollievo e l’ordoliberale tedesco Wilhelm Röpke gli fece eco con ancora maggiore convinzione. Il teorico tedesco scrisse nel 1964 che i neri del sud Africa appartenevano a un livello di civiltà inferiore e che l’apartheid non era oppressivo e assieme alla Rhodesia era uno dei bastioni della civiltà bianca attaccata dal nuovo ordine postcoloniale. William Hutt, economista inglese ascrivibile alla scuola austriaca che lavorò alla Cape Town University teorizzava la difesa dell’occidente bianco, cristiano e caucasico da quello che chiamava in epoca postcoloniale «imperialismo nero». Slobodian non ci parla di Milton Friedman e delle politiche reaganiane ma dei neoliberali che da Vienna passarono a Ginevra (sede della Società delle Nazioni dal 1920) focalizzando il loro pensiero sulla politica globale.
DOPO GLI ECONOMISTI, pronti a mettere in discussione lo statuto epistemologico stesso della loro disciplina – poiché la sua istituzionalizzazione rischiava di per sé di portare a pianificazione e redistribuzione – venne una nuova generazione di giuristi come Ernst-Ulrich Petersmann che lavorarono per costruire ordini internazionali e intergovernativi per il commercio e la protezione legale della proprietà privata. Von Hayek in una lettera al Times di Londra del 1978 sosteneva che le libertà personali erano più ampie sotto il regime di Pinochet piuttosto che sotto Allende, avendo in mente proprio la difesa della proprietà privata.


mercoledì 28 novembre 2018

Ebbene, Signore, vi amo


Arlecchino.
Ah! Signora, non fosse entrato lui vi avrei detto cose splendide, e invece adesso troverò solo idee banali, a parte il mio amore che è straordinario. Ma riguardo al mio amore quand'è che il vostro gli farà compagnia?
Lisette.
C'è da sperare che questo accada.
Arlecchino.
Ma voi credete che possa accadere?
Lisette.
La domanda è piccante; mi mettete in imbarazzo: vi rendete conto?
Arlecchino.
Che volete? Brucio e grido al fuoco.
Lisette.
Se mi fosse permesso di spiegarmi così, rapidamente...
Arlecchino.
Per me, in coscienza potete farlo.
Lisette.
Il riserbo del mio sesso non vuole.
Arlecchino.

Adesso il riserbo non sembra tanto forte; lascia intravedere ben altre concessioni.
Lisette. 
Ma voi cosa mi chiedete?
Arlecchino.
Ditemi giusto un po' che mi amate. Insomma vi amo, fate eco, ripetete, Principessa.
Lisette.
Insaziabile! Ebbene, Signore, vi amo.
Arlecchino.
Ebbene, Signora, mi sento morire; sono confuso da tanta felicità, ho paura di dare i numeri. Mi amate! Che meraviglia!
Lisette.
 
Potrei essere a mia volta sorpresa dalla rapidità del vostro omaggio. Forse vi piacerò di meno quando ci conosceremo meglio.
Arlecchino.
Ah, Signora, quando avverrà sarò io a rimetterci; ci sarà molto da sottrarre.
Lisette.
Mi supponete più qualità di quelle che realmente posseggo.
Arlecchino.
E voi, Signora, non sapete nulla dei miei difetti, mi dovrei solo inginocchiare per parlarvi.
Lisette.
Ricordate che non siamo padroni del nostro destino.
Arlecchino.
I padri e le madri fanno tutto di testa loro.
Lisette.
Per me, il mio cuore vi avrebbe scelto in qualunque stato vi foste trovato.
Arlecchino. 
E' libero di scegliermi ancora.
Lisette.
Posso lusingarmi che fareste lo stesso con me?
Arlecchino.
Ahimè! Quand'anche foste una qualsiasi Mariella o Rosetta, quand'anche vi vedessi scendere in cantina con la candela in mano, sareste sempre la mia Principessa.
Lisette.
Potessero durare sentimenti così belli!
Arlecchino.
Per fortificarli da entrambi i lati, giuriamo di amarci per sempre, nonostante tutti gli
errori di ortografia da voi commessi sul mio conto.
Lisette.
Ho più interesse che voi a fare quel giuramento, e lo faccio con tutto il cuore.
Arlecchino si inginocchia.
La vostra bontà mi abbaglia e mi prosterno davanti ad essa.
Lisette.
Smettetela. Non posso soffrirvi in quella postura, sarei ridicola se vi lasciassi stare così.  Alzatevi. Ecco di nuovo qualcuno.




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Arlequin. Ah ! Madame, sans lui j’allais vous dire de belles choses, et je n’en trouverai plus que de communes à cette heure, hormis mon amour qui est extraordinaire. Mais à propos de mon amour, quand est-ce que le vôtre lui tiendra compagnie ?

Lisette. Il faut espérer que cela viendra.

Arlequin. Et croyez-vous que cela vienne  ?

Lisette. La question est vive; savez-vous bien que vous m’embarrassez ?

Arlequin. Que voulez-vous? Je brûle et je crie au feu.

Lisette. S’il m’était permis de m’expliquer si vite…

Arlequin. Je suis du sentiment que vous le pouvez en conscience.

Lisette. La retenue de mon sexe ne le veut pas.

Arlequin. Ce n’est donc pas la retenue d’à présent; elle donne bien d’autres permissions.

Lisette. Mais que me demandez-vous ?

Arlequin. Dites-moi un petit brin que vous m’aimez. Tenez je vous aime moi, faites l’écho, répétez Princesse.

Lisette. Quel insatiable ! Eh bien, Monsieur, je vous aime.

Arlequin. Eh bien, Madame, je me meurs; mon bonheur me confond, j’ai peur d’en courir les champs. Vous m’aimez ! Cela est admirable !

Lisette. J’aurais lieu à mon tour d’être étonnée de la promptitude de votre hommage. Peut-être m’aimerez-vous moins quand nous nous connaîtrons mieux.

Arlequin. Ah, Madame, quand nous en serons là, j’y perdrai beaucoup; il y aura bien à décompter.

Lisette. Vous me croyez plus de qualités que je n’en ai.

Arlequin. Et vous, Madame, vous ne savez pas les miennes, et je ne devrais vous parler qu’à genoux.

Lisette. Souvenez-vous qu’on n’est pas les maîtres de son sort.

Arlequin. Les pères et mères font tout à leur tête.

Lisette. Pour moi, mon cœur vous aurait choisi dans quelque état que vous eussiez été.

Arlequin. Il a beau jeu pour me choisir encore.

Lisette. Puis-je me flatter que vous soyez de même à mon égard ?

Arlequin. Hélas ! Quand vous ne seriez que Perrette ou Margot, quand je vous aurais vue le martinet à la main descendre à la cave, vous auriez toujours été ma Princesse.

Lisette. Puissent de si beaux sentiments être durables !

Arlequin. Pour les fortifier de part et d’autre, jurons-nous de nous aimer toujours, en dépit de toutes
les fautes d’orthographe que vous aurez faites sur mon compte.

Lisette. J’ai plus d’intérêt à ce serment-là que vous, et je le fais de tout mon cœur.

Arlequin, se met à genoux. Votre bonté m’éblouit et je me prosterne devant elle.

Lisette. Arrêtez-vous ; je ne saurais vous souffrir dans cette posture-là, je serais ridicule de vous
y laisser ; levez-vous. Voilà encore quelqu’un.




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Marivaux, Pierre Carlet de Chamblain de narratore e commediografo francese (Parigi 1688-1763). Fece i suoi primi studi a Limoges, dove il padre, magistrato, era stato trasferito, e a Parigi si dedicò ai corsi di diritto, frequentando in pari tempo i salotti letterari. Marivaux cominciò la sua attività con romanzi di valore assai modesto: Pharsamond ou Les folies romanesques (1714), Homère travesti ou l'Iliade en vers burlesques (1716), parodia che mostrò la sua scelta per i moderni nella “Querelle des Anciens et des Modernes”. Dopo aver satireggiato, cominciò a mostrare notevoli doti psicologiche in articoli sul Nouveau Mercure e trovò la sua strada nel teatro, in particolare coi comici italiani. L'avvio, tentato nel dramma Annibal (1720) fu infelice, mentre miglior esito ebbe l'Arlequin poli par l'amour (Arlecchino educato dall'amore) dello stesso anno. Era la premessa ai capolavori che in breve seguirono: La surprise de l'amour (1722), La double inconstance (1727), Le jeu de l'amour et du hasard (1730), Les fausses confidences (1737), Epreuve (1740). Marivaux nella sua opera volle staccarsi dal teatro di  Molière e trattò l'amore non come il tema necessario all'intrigo, ma da protagonista assoluto, analizzandolo. Marivaux è il poeta dell'amore nascente, il cantore dei turbamenti dell'animo, del dominio del cuore in ogni suo palpito più nascosto. Nel complesso si può dire che Marivaux è un moralista, una specie di Teofrasto moderno, dietro il grande esempio di La Bruyère e di altri osservatori del cuore umano. Nelle sue commedie la donna ha quasi sempre la parte principale e la prima eccellente interprete delle sue finezze amorose fu Silvia Baletti, forse a lui legata sentimentalmente. L'amore nel teatro di Marivaux nasce quasi sempre all'insaputa dei protagonisti. Così è nel primo capolavoro, La surprise de l'amour, tra Lelio e la contessa, così è ne Le jeu de l'amour et du hasard dove Silvia e Dorante finiscono per ritrovarsi attratti dal cuore nonostante i travestimenti, così è ne Les fausses confidences tra il barone e la baronessa. La perennità del tema e la sottigliezza della trattazione fanno di Marivaux un autore intramontabile. Il suo stile delicato, vicino al preziosismo, ma ai limiti di esso, stabilisce quel confine che gli imitatori non hanno saputo rispettare abbandonandosi a quel marivaudage spesso sinonimo di leziosismo. Se come romanziere Marivaux fu infelice nelle prime prove, notevole fu invece nella Vie de Marianne (1731-41) e nel Paysan parvenu (1735-36). Il primo, rimasto incompleto, storia delle avventure della protagonista narrate in età avanzata a un'amica, è però guastato da un moralismo troppo facile nel proclamare il trionfo del bene sul male; il secondo, storia di Jacob, in parallelo alla vita di Marianne, è lo specchio di un secolo dove per trionfare occorre piacere alle dame. Anche questo secondo romanzo subì aggiunte da parte di altri autori, vivente Marivaux, e gode di una rinnovata attenzione della critica. Accolto all'Accademia nel 1743, Marivaux visse dimenticato gli ultimi anni della sua vita. (sapere.it)

domenica 25 novembre 2018

Daniela delle Montagne, un ritratto



Simone Lorenzati



COLLE DI NAVA – Capita a tutti, nella vita, di voler inseguire un sogno, magari quello che si considera il lavoro della vita. Ma non tutti, però, provano poi davvero a coronare questa speranza. Daniela Balsamo, 39 anni, è titolare dell'azienda agricola Daniela delle Montagne e delle capre. E fin qui non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse per il percorso che l'ha portata a questa attività. Pinerolese di nascita ma cresciuta a Piossasco, paese che abbandona alla volta di Torino all'età di 17 anni.
Si diploma al Liceo Classico Cavour di Torino, iscrivendosi successivamente alla facoltà, sempre torinese, di Biologia. Balsamo decide di dare una svolta alla propria vita nel 2005, trasferendosi ad Arma di Taggia. Ma il vero cambiamento, sia di ambiente sia di lavoro, avviene ormai dieci anni fa, ossia nel 2008. Daniela decide di andare ad abitare sul Colle di Nava (località nota ai torinesi che amano la zona dell'imperiese) e di “riprendere ciò che, addirittura, avevo in mente dalla scuola elementare”, esordisce.
Già perché la scuola primaria frequentata da Balsamo, assolutamente sperimentale, prevedeva tre quarti delle lezioni all'interno di cascine nel pinerolese-torinese. “Ho imparato fin da piccola come si arava, come si seminava il grano, come si allevavano i maiali e cose simili. Questa passione, inoltre, è cresciuta nel periodo in cui sono stata scout, spessissimo in montagna. E così ho seguito quella specie di richiamo interiore che mi invitava a venire qui sul Nava, e a provare per davvero a seguire la mia strada”.
Certo vi sono stati, e vi sono a volte, momenti non esattamente piacevoli. “Per me, il clou della negatività è la macellazione. Perché saperlo in astratto, rispetto alla consapevolezza quotidiana, è cosa assai diversa” prosegue Balsamo che si ritiene pur sempre soddisfatta della scelta compiuta un paio di lustri fa. Giornate di lavoro che iniziano con la sveglia tra le 4 e le 5 del mattino, che non terminano mai prima delle 23.30 di sera, caratterizzate da una fatica fisica decisamente superiore ad ogni altra tipologia di attività svolta in precedenza. I sacrifici a livello di tempo, economico e fisico passano, tuttavia, in secondo piano rispetto alla bellezza del mondo che la circonda e che Daniela descrive con un entusiasmo davvero palpabile. Facendo l'allevatore “all'antica”, cioè non in batteria né a livello intensivo, il guadagno finale è, però, piuttosto relativo. Se poi, come successo lo scorso anno, causa siccità, il prezzo del fieno cresce in modo abnorme, ecco che quella parte di ricavo viene immediatamente reinvestita. Balsamo, nonostante l'innegabile bellezza di molte sue capre, spiega anche perché non abbia mai voluto partecipare, con qualcuna tra queste, a qualche concorso. “La mia è una scelta di totale rispetto verso gli animali, non amo portarli a gare o a concorsi. Se vogliamo, sebbene più di una persona mi abbia consigliato di farlo, è il motivo per cui sono in qualche modo fuggita dal mondo cittadino e quotidiano. Questa incessante concorrenza, in moltissimi campi, la respingo al mittente”, dettaglia.
Inoltre sarebbe piuttosto forte il rischio di “contagio”, venendo a contatto con altri animali, cosa che, ad esempio, porta, chi visita l'Azienda agricola di Balsamo, a poter visitare le stalle unicamente se dotato di calzari.
Insomma nessun rimpianto ripensando alla decina di anni trascorsi in supermercato, “le mie quaranta capre sono ciò che mi dà la forza di alzarmi al mattino, e sono anche il numero giusto per gestirle in prima persona autonomamente”. Certo il fieno va comprato perché in montagna è impensabile che un allevamento possa autosostentarsi, ed il rapporto con animali e montagna prevede anche raccolta differenziata unitamente ad un riciclo enorme (anche se questo comporta inevitabili “perdite di tempo”), in maniera tale che i confini tra lavoro e stile di vita diventino davvero labili. “Mi considero parte delle famiglia delle capre, senza dubbio alcuno. Nonostante il mondo vada sempre più globalizzandosi ritengo che ci sia spazio per una realtà come la mia, specie in considerazione del fatto che dispongo di un numero notevole di prodotti”.
Ovvio che la prospettiva, però, sia assolutamente particolare, dal momento che il prezzo, ad esempio, del formaggio di Balsamo, non è minimamente proporzionale al numero di ore ed alla quantità di lavoro che dietro a quel prodotto è presente. “E' la mia vita. Non ci sono grossi ricavi, anzi. Tuttavia non la scambierei con nessuna altra attività al mondo”.
Balsamo rifornisce cinque negozi, qualche ristorante e parecchi clienti privati, cosa che le permette di non avere grandi scorte in magazzino. Attualmente trenta, delle sue quaranta capre, sono in lattazione, il che significa circa cento litri di latte, leggasi dieci kg di formaggio fresco (con la stagionatura, invece, ovviamente la materia diminuisce ancora), al giorno. Capre al pascolo, mungitura, la fabbricazione del formaggio, tutte cose che Daniela compie da sola. “Io punto sulla qualità, chiaramente, anche dei miei animali, e non sulla quantità. Ho capre che mangiano molto, ma sempre al pascolo e sempre cibo naturale di derivazione boschiva” spiega ancora.
E adesso, dopo parecchio studio, la produzione prevede otto tipi differenti di formaggio (tra cui erborinati, caprino spalmabile ed un primo sale derivante da una particolarissima lavorazione), tipologie che la stessa Balsamo ha voluto creare in prima persona. Ovvio non sono sempre tutti ed otto disponibili, variando gli stessi a seconda delle stagioni (sono un paio, massimo tre, quelli presenti) ed in base al fatto che la stagionatura avvenga in cantina, con relativa variazione di temperatura, senza poi dimenticare le caratteristiche stesse del latte, anch'esse cangianti a seconda del periodo dell'anno. Ortaggi e verdura (patate, porri, cavoli), infine, ed un ottimo yogurt, completano la lista di prodotti che arrivano dal Colle di Nava. Ma tra le montagne di confine, a ben guardare, c'è un sottile filo che lega azienda e prodotti ad un sogno maturato nella pianura torinese.

sabato 24 novembre 2018

Savushun, una storia persiana





Francesca Cusumano, Suvashun: primo romanzo di una donna in Iran


Suvashun una storia persiana è il primo romanzo storico e di impegno civile dell’Iran  scritto, per di più da una donna, nel 1969. La cornice è quella dell’occupazione militare di Shiraz nel ’41 da parte delle truppe russe e inglesi che decidono di intervenire contro lo Shah Reza Khan,  sospettato di volersi alleare con la Germania, mettendo a disposizione dei nazisti le riserve di petrolio del suo paese. Sono gli anni della seconda guerra mondiale con intere città europee distrutte e bombardate dalla follia nazista. L’episodio iraniano che pure resta nella storia interna come una ferita ancora aperta nei confronti degli inglesi, ha  poca risonanza ed è poco conosciuto. A  Simin Daneshvar va  il merito di averlo riportato alla luce.
Padre fisico,  madre pittrice, Simin Daneshwar appartiene a una famiglia di intellettuali che le assicura la migliore educazione possibile a Tehran dove frequenta la scuola inglese Mehr Ain. Poi si iscrive all’università di Letteratura Persiana. Dopo la morte del padre, per supportare economicamente la famiglia, comincia a scrivere testi e articoli per Radio Tehran e per il giornale Iran e a lavorare come assistente in relazioni internazionali presso il Ministero degli Affari Esteri. Poi diventa traduttrice  di autori europei, fra cui Chechov e  Moravia. Scrive la sua tesi “Beauty as Treated in Persian Literature”, sotto la guida di Fatemeh Sayyah, la prima docente donna in un’università iraniana.
Ci sono tutte le premesse perché Simin diventi una protagonista tra le donne iraniane, la prima ad esempio, che quando scoppia la rivoluzione khomeinista e con essa l’obbligo del velo per le donne, chiederà, senza successo peraltro, che venga revocata un’imposizione che non è prevista in nessun passaggio del Corano.
Nel 1950 si sposa con Jalal al-Ahmad, più giovane di lei e già noto scrittore iraniano, al quale resterà indissolubilmente legata in un sodalizio di “testa e di cuore”. Contrariamente alla tradizione familiare iraniana continua la sua formazione, dopo il matrimonio, negli Stati Uniti. E’ studente Fulbright presso la Stanford University, dove segue il corso di scrittura creativa con Wallace Stegner. Durante quel soggiorno scrive in inglese e pubblica due racconti brevi. Una volta rientrata in Iran entra, come insegnante di storia dell’arte, a far parte del collegio docenti del Dipartimento di Archeologia presso l’Università di Tehran. Ma ai servizi segreti iraniani, la tristemente nota Savak dei tempi dello Shah, il suo metodo di insegnamento non piace e la costringono a rassegnare le dimissioni. A questo punto Simin si dedica completamente alla scrittura, carriera che non si interrompe nemmeno negli anni in cui vive sotto al  regime islamico, ricorrendo ad espedienti come quello di far parlare nei suoi scritti una “donna folle” alla quale dunque è permesso di esprimersi liberamente, in quanto dichiaratamente pazza e dunque “non attendibile”. Allo stesso tempo la scrittrice, morta l’8 marzo del 2012, appoggerà incondizionatamente le aperture progressiste del presidente riformista Mohammad Kathami.
L’eccezionalità di un libro come Suvashun è il fatto che la storia viene raccontata dal punto di vista di Zari, una donna che appartiene a una famiglia benestante e “illuminata” di Tehran.  Sottomettersi e soffrire, ribellarsi e morire”. Questo il dilemma che opprime Zari  che cerca di bilanciare l’amore per la sua famiglia e per suo marito, che vuole proteggere a tutti i costi, e l’amore per il suo paese. Di fronte a sé due esempi: quello di Yosuf, marito idealista e sognatore che arriva fino alla morte pur di non arrendersi al “nemico” e quello di suo cognato che,  invece, fa affari con gli inglesi e ne approfitta per arricchirsi e godere di una protezione incondizionata, anche se temporanea. Indecisa tra queste due posizioni, Zari affronta la realtà a faccia aperta solo dopo che il marito viene assassinato. “Hanno ucciso mio marito ingiustamente dice alla polizia durante la processione funebre. Il minimo che si possa fare è piangerlo. Il lutto non è proibito, lo sai. Durante la sua vita, eravamo sempre spaventati e cercavamo di [non] farlo spaventare a sua volta. Ora che è morto, di cosa abbiamo più paura?

https://www.piuculture.it/2018/07/suvashun-una-storia-persiana-il-primo-romanzo-scritto-da-una-donna-in-iran/
https://www.ibs.it/suvashun-storia-persiana-libro-simin-daneshvar/e/9788899612276

domenica 18 novembre 2018

Razzismo quotidiano, una testimonianza



Farian Sabahi
pagina fb Sì Torino va avanti, 16 novembre 2018

Questo governo ha sdoganato il razzismo. Tanti, dal medico piacentino alla truccatrice romana, non esitano a esprimersi contro gli immigrati, con una sconosciuta appena incontrata.
Ieri mattina ho preso Italo da Torino Porta Nuova alle 11:20 in direzione di Roma. A Milano sale un signore distinto. Ha il posto accanto a me, ma sceglie di sedersi altrove per stare comodo. Nel giro di poco il treno si riempe, si avvicina e inizia a chiacchierare. Viene interrotto dall'altoparlante: in carrozza 3 serve un medico. Si alza, ritorna: sul posto c'erano già altri due colleghi, “nulla di grave”. Ma alla stazione di Reggio Emilia arriva l'ambulanza. Il mio vicino di posto racconta di essere un medico, di Piacenza. Aveva studiato da patologo, ma alla fine ha preferito fare il medico di famiglia per stare vicino alla mamma. Avanti con gli anni, alla pensione gli manca poco. Con un po' di ritardo, stiamo per arrivare a Roma.
Sono tre ore che leggo materiali sull'Arabia Saudita, il dottore piacentino sbircia la copertina di un libro. Dopo averci girato intorno, la domanda è diretta:
“Lei di che cosa si occupa?”
“Di Medio Oriente”
“E come mai va a Roma?”
“Domattina sarò ospite di Uno Mattina, per discutere di Arabia Saudita”
“Interessante! Anni fa avevo letto un libro, diceva che i vu' cumpra vengono dal Marocco in Italia non per cercare lavoro, i soldi per il cellulare li hanno, ma per diffondere la loro religione e invaderci, per farci tutti musulmani.”
Gli rispondo, scettica: “Faccia attenzione a quello che legge, c'è tanta porcheria...”
E lui insiste: “Ma io ci credo, è vero, tutti 'sti immigrati sono qui per prenderci la nostra terra, vogliono fare l'Europa musulmana...”
Di fronte a tanta ignoranza, sorrido. Cerco di spiegargli che molti immigrati non sono nemmeno praticanti. Non lo era mio padre arrivato nel 1961 a Torino. Ma il dottore di Piacenza non vuole sentire ragione e insiste con lo sproloquio razzista. Mi chiede che cosa fosse saltato in mente a mia madre di sposare uno straniero, uno che viene da quei paesi là. Gli spiego che, come lui, anche mio padre ha studiato medicina, si è laureato in Italia ed è un affermato professionista nel suo settore. La sua vita, papà l'ha passato inseguendo le sue passioni. E io le mie, a cominciare dagli studi. Ma a un certo punto perdo la pazienza: sorriso a trentadue denti, gli dico: “Sì, siamo qui a invadervi, armati di cultura”. Il treno sta per fermarsi a Termini, siamo in coda per scendere dal treno. Ad ascoltare lo sproloquio razzista del dottore piacentino sono altri passeggeri. Lui cerca di barcamenarsi con le scuse: “Non volevo offenderla, mi scusi”.
Stamattina, ore 8:30 a Saxa Rubra. A truccarmi è Paola, che ancora non conoscevo. Ci presentiamo, mi chiede di che cosa devo parlare a Uno Mattina per regolarsi se procedere con trucco leggero o più accentuato. Mi chiede il perché del nome “Farian”, le spiego che è un nome iraniano. Domanda se ho sposato un iraniano.
“No, a essere iraniano è mio padre”
E parte lo sproloquio razzista della truccatrice:
“Ah no! Io con uno straniero non mi sarei mai sposata! Per me la razza è importante. Sono di Roma e non mi sarei mai sposata con uno straniero. Da qui non me ne andrei mai. Immagini se avessi sposato uno straniero e mi avesse portato via dalla mia città, dal mio paese! Non mi piace mescolare, amo la mia cultura, è la migliore… ma poi io sono tollerante, io alla mia razza ci tengo, voi fate quello che volete… ”
Morale della favola: sarebbe meglio evitare di rivolgere parola agli sconosciuti… nonna lo diceva sempre…

martedì 30 ottobre 2018

Michel Vovelle, giacobino senza macchia



Vovelle-èl⟩, Michel. - Storico francese (Gallardon, Eure-et-Loir, 1933 - Aix-en-Provence 2018). Prof. di storia moderna all'univ. di Aix-en-Provence (1976-83) e (1984-93, poi emerito) di storia della Rivoluzione francese alla Sorbona. Già presidente della Société des études robespierristes e della Commission internationale d'histoire de la Révolution française, presidente onorario della Société d'histoire moderne et contemporaine. Studioso di storia sociale e delle mentalità in una prospettiva di lunga durata, ha contribuito a un profondo rinnovamento delle ricerche sulla Francia rivoluzionaria. Tra le opere: Piété baroque et déchristianisation (1973); Les métamorphoses de la fête en Provence (1976; trad. it. 1986); Idéologies et mentalités (1982; trad. it. 1986); La mort et l'Occident (1983; trad. it. 1986); La mentalité révolutionnaire (1985; trad. it. 1987); La Révolution française (4 voll., 1986; trad. it. 5 voll., 1993); La découverte de la politique (1993; trad. it. 1995); Les folies d'Aix ou la fin d'un monde (2003); Les mots de la Révolution (2004; trad. it. 2006); La Révolution française expliquée à ma petite-fille (2006; trad. it. 2007).



Beatrice Da Vela 

 
Il 6 ottobre scorso si è spento Michel Vovelle, lo storico francese che ha saputo coniugare una rigorosa impostazione marxista allo studio della mentalità sociale e dell’ideologia. Ammetto che mi è scesa una lacrima, perché gli studi di Vovelle hanno acceso e alimentato la mia passione per la storia.
Vovelle ha scritto tantissimo, ma non tutti i suoi testi hanno avuto uguale fortuna in Italia (molti a lungo non sono stati tradotti). Io ve ne voglio consigliare tre che non potete perdervi e che vi faranno innamorare del suo modo di fare storiografia.

La morte e l’Occidente

Questo è forse lo studio più famoso. È un’indagine accuratissima su come la percezione della morte, il rapporto con essa e dunque le ritualità sia cambiato in Europa dal Medioevo a oggi. Il libro combinadati statistici (ove disponibili), fonti storiche di vario genere, metodo antropologici e persino letterario per ricstruire come le persone abbiano affrontato il mistero della morte, quali spiegazioni abbiano dato, quali siano state le visioni oltremondane che hanno attraversato i secoli. Non soltanto, La morte e l’Occidente si occupa anche di riti e ritualità e indaga il rapporto, spesso complesso e contraddittorio tra rito (pubblico e privato) e sentimento di lutto.
Oltre a essere una lettura scorrevole, che di fatto attraverso il tema ripercorre la storia delle nostre radici culturali, il libro è interssantissimo dal punto di vista metodologico perché mostra come un sapiente approccio multidisciplinare potenzi la nostra conoscenza e come il rigore del materialismo storico dia forse i suoi risultati più strabilianti in combinazione con altre metodologie.

La mentalità rivoluzionaria

La mentalità rivoluzionaria è il saggio che consiglio sempre a chi si avvicini al periodo della Rivoluzione Francese, anche solo per vie traverse (per esempio a chi sia interessato al nostro Ugo Foscolo). Se si vuole davvero capire cosa sia stata la Rivoluzione Francese oltre la fattualità storica e come abbia cambiato per sempre la mentalità occidentale, bisogna leggere questo studio. La mentalità rivoluzionaria è stato il primo studio a rispondere alla domanda per nulla banale sulle motivazioni psicologico-antropologiche del processo rivoluzionario e sul suo effetto nel modificare le visioni del mondo preesistenti e nel crearne di completamente nuove.
Il saggio si articola in sei parti, che si occupano rispettivamente dei prodromi della Rivoluzione, della distruzione del mondo passato, della costruzione di un nuovo universo di valori e riferimenti e infine delle reazioni di rifiuto del cambiamento. Inutile dire che la parte più interessante è proprio quella centrale (parti terza, quarta e quinta), nelle quali si ricostruisce la complessità della costruzione sociale, teorica e pratica, dei rivoluzionari, attraverso l’analisi delle dottrine politiche, ma anche della quotidianità. Particolarmente affascinante e nodo centrale per immergersi davvero nel modo di pensare dei rivoluzionari francesi sono i capitoli dedicati a quello che Vovelle chiama l’homo novus rivoluzionario. Proprio la definizione di un’umanità ideale, con una nuova socialità e nuovi spazi di vita, il cui fare deve essere il bene comune, è uno dei temi portanti della Rivoluzione, terreno di dialogo e di scontro acceso tra i più importanti politici dell’epoca.

I Giacobini e il Giacobinismo

Dei tre libri che ho segnalato, forse I Giacobini e il Giacobinismo è quello più tecnico e anche il più politico. Il libro è lo studio più approfondito sulle differenti correnti dell’ideologia giacobina.
Chi si aspetta un libro sugli anni 1789-1794 si troverà spiazzato dalla prefazione del libro: solo una delle tre parti, infatti, è dedicata a quello che Vovelle chiama “giacobinismo storico”, indossolubilmente legato agli eventi della Rivoluzione Francese, mentre le altre due sono dedicate al giacobinismo “trans-storico”, cioè a come gli ideali teorizzati da Robespierre e dagli altri teorici giacobini siano sopravvissuti alla fine della rivoluzione e, attraverso trasformazioni e rinnovamenti nel linguaggio, siano diventati parte del dibattito storico-politico novecentesco e contemporaneo (a tal proposito basti ricordare che sull concetto giacobino di vertu si è imperniata la campagna elettorale di Mélenchon). Scritto con il consueto stile accessibile anche ai non specialisti, il libro è anche una riflessione sulle radici della sinistra europea, sul rapporto tra marxismo e giacobinismo e su quanto sia necessario, oggi più che mai, lo studio e la comprensione dei processi rivoluzionari perché, dice Vovelle, “Quan’danche non restasse altro di quest’eredità che la memoria di una volontà collettiva di cambiare il mondo e di unire a questo scopo le volontà individuali in un gigantesco sforzo di generosità, di proselitismo e di azione concertata, il giacobinismo […]lascia ancora il ricordo di un’esperienza esaltante. E ci sorprendiamo a sperare che, sul banco su cui Jaurès sognava, attraverso il tempo, di andare a sedersi accanto a Robespierre al club dei giacobini, ci sia ancora un posticino per noi.”

martedì 23 ottobre 2018

Aris Accornero sulla cogestione


 
 
Aris Accornero, Perché non ce l’hanno fatta? Riflettendo sugli operai come classe, Quaderni di sociologia, 17/1998

Questa riflessione non può concludersi senza un cenno alla prospettiva di assimilazione degli operai all’imprenditore attraverso forme di comproprietà e di corresponsabilità che mettessero ambedue le classi in condizioni di dirigere insieme l’azienda e, per questa strada, di gestire insieme la comunità o la società. Qualcosa è stato attuato, e la forma forse più nota è il sistema tedesco della co-determinazione (Mitbestimmung), introdotta per legge nell’industria siderurgica tedesca del secondo dopoguerra proprio per bilanciare un potere di classe che aveva fomentato il bellicismo. Un’altra forma, più diffusa ma con minore impatto, è stata in vari paesi la distribuzione di azioni gratuite da parte di grandi impreseconcession agreement che aveva salvato l’azienda).
. Questa partnership fondata su un titolo di proprietà ha manifestato un limite già presente fin dall’Ottocento: la dimensione esclusivamente aziendale; né le leggi hanno premiato una rappresentanza «di classe» del lavoro nel capitale anche dove i lavoratori hanno scambiato le proprie spettanze con azioni della compagnia, come nel caso della United Airlines e dell’Alitalia in crisi. Poche imprese sono del resto disposte a far entrare i sindacalisti nei consigli di amministrazione, mentre i sindacati cercano di scansare rischi e responsabilità accettando soltanto di entrare in organi di sorveglianza. (Clamoroso fu il caso Crysler: il leader della Uaw uscì traumatizzato e il sindacato deluso dall’organo dov’era stato portato dal
Quel che va rilevato è l’inconsistenza degli approcci ispirati anni addietro a un progresso tecnologico che pareva alle soglie della fatidica automazione, e alle conseguenti aspettative sull’operaio-tecnico, la cui «frazione più avanzata» S. Mallet credette di vedere in azione alla Caltex dove i sindacalisti studiavano i bilanci come «azionisti coscienziosi», e alla Thomson-Houston, dove la nuova classe operaia gli appariva «idonea alla gestione» perché uno degli interpellati gli aveva detto: «Io me ne frego delle storie di paga, qui è la tecnica che mi interessa». Sta di fatto che in tutti questi anni una domanda di cogestione non è salita dal mondo del lavoro, nonostante le dotazioni culturali offerte agli operai da intellettuali e politici che credevano nella prospettiva integrazionista. Anche se questa è tornata da poco in auge, in termini teorici con la «economia della partecipazione» e con la «fine della società dei salariati», e in termini pratici con i fondi di investimento dei lavoratori (qui in Italia tramite la previdenza integrativa con fondi attinti dal trattamento di fine rapporto), non pare che gli operai ne siano finora usciti con il profilo di una ruling class, nemmeno in termini di gestione tecnico-produttiva, neppure con la Mitbestimmung nelle imprese tedesche, e tanto meno con la collaborazione aziendale nelle giapponesi, dove il clima è di deferenza più che di parità. Può essere che il quadro di partecipazione e di commitment contestuale al superamento del modello taylor-fordiano schiuda qualche spiraglio: se son rose fioriranno. Ma per adesso, il bilancio resta quello tratteggiato più sopra.

sabato 13 ottobre 2018

Elogio del bar Pietro

Luca Iaccarino, Al bar Pietro lo spirito è quello della vecchia piola, la Repubblica, 13 ottobre 2018
Diciamocelo: questa è una rubrica avventurosa, quasi salgariana. A seconda della porta che varco può succedere di tutto: ci può essere un cuoco gentile o un pirata brutale, una sala garbata o una caverna muffita, piatti squisiti o ranci rancidi. È il fantastico mondo del pop, bellezza, che può essere sublime o letale (quasi in senso letterale). Così in tanti anni ho recensito locali che mi sono piaciuti, altri che mi hanno lasciato perplesso, alcuni che ho adorato, talaltri che hanno persino tentato di farmi fuori. E poi ci sono quelli – pochi – che mi hanno fatto battere il cuore: le vere piole. Piole, taverne, trattoriacce ce n’è più poche ma qualcuna resiste: perlinato e bottiglie di amari, atmosfera anni ‘70 e clientela popolare, piatti franchi e Barbera sfuso. E questo è ciò che ritrovo – venerdì scorso in compagnia dell’amico Andrea – al Bar Pietro di via San Domenico. Che spleen il Bar Pietro. Compie 50 anni ora, ché fu fondato nel ’68 ed era ritrovo del circolo dei sardi democratici intitolato a Antonio Gramsci. Il signor Pietro – che ancora è qui a sovrintendere – lo rilevò a fine Settanta e da qualche anno è in mano alla veneziana Giovanna coadiuvata da Filippo. Durante la settimana propone tavola fredda di temperamento – i “panini della piola” con frittata, carpione, milanese –, aperitivi con lo spritz fatto come si deve, ma il venerdì si cucina, e soprattutto pesce.
Dunque ci accomodiamo a un tavolino delle due salette del bar e principiamo con quattro “mezze uova farcite” perfette da antipastino (con pomodoro, cipolla e cappero: €1 cad). Poi le cose si fanno serie: linguine alla marinara di gran gusto (6), insalata di polpo con sedano e patate come si deve (7), alici fritte non male (e a che prezzo: 4,50). Non aspettatevi grande gastronomia, neh: cose semplici, buone, fatte con cura a prezzi popolari. Con rammarico saltiamo la frittata cipolla e zucchine (4,50) e i tortelloni burro e salvia (€5) ma tra vini, Punt e Mes e compagnia siamo veramente allo stremo (con un conto da 40 euro tondi in due).
Alticci, ci mettiamo a chiacchierare con osti e avventori: è venerdì e lo spirito della piola è anche – soprattutto – questo, trovare qualcuno con cui far flanella. E il mio cuore batte forte per la flanella.
Bar Pietro – Piola sardo-veneziana Via San Domenico 34 - Torino Tel. 011.5213522 Chiuso il lunedì

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lunedì 8 ottobre 2018

La bellezza delle donne nel Valais

 

Rousseau, La Nouvelle Héloïse, 1761, I, lettre 23


... Un autre usage qui ne me gênait guère moins, c’était de voir, même chez des magistrats, la femme et les filles de la maison, debout derrière ma chaise, servir à table comme des domestiques. La galanterie française se serait d’autant plus tourmentée à réparer cette incongruité, qu’avec la figure des Valaisanes, des servantes mêmes rendraient leurs services embarrassants. Vous pouvez m’en croire, elles sont jolies puisqu’elles m’ont paru l’être: des yeux accoutumés à vous voir sont difficiles en beauté [occhi avvezzi a vedervi non sono di facile contentatura in fatto di bellezza].
Pour moi, qui respecte encore plus les usages des pays où je vis que ceux de la galanterie, je recevais leur service en silence avec autant de gravité que don Quichotte chez la duchesse. J’opposais quelquefois en souriant les grandes barbes et l’air grossier des convives au teint éblouissant de ces jeunes beautés timides, qu’un mot faisait rougir, et ne rendait que plus agréables. Mais je fus un peu choqué de l’énorme ampleur de leur gorge, qui n’a dans sa blancheur éblouissante qu’un des avantages du modèle que j’osais lui comparer; modèle unique et voilé, dont les contours furtivement observés me peignent ceux de cette coupe célèbre à qui le plus beau sein du monde servit de moule.