lunedì 13 ottobre 2025

La pace incompiuta


Shlomo Ben-Ami
Una pace in Medio Oriente? Solo senza Netanyahu e le colonie

Domani, 13 ottobre 2025

C’è una certa ironia nel fatto che il leader israeliano che ha aperto il vaso di Pandora a Gaza sia il figlio di un acclamato storico. Certo, Benzion Netanyahu era una specie di fatalista anticonformista. Suo figlio, invece, ha mostrato scarso interesse nel comprendere la storia, ma solo nell’usarla per i suoi interessi.

Benjamin Netanyahu ha paragonato i negoziati dell’ex presidente Usa Barack Obama nel 2015 per limitare il programma nucleare iraniano, all’acquiescenza di Neville Chamberlain nei confronti della Germania nazista nel 1938. Netanyahu è arrivato persino a scagionare Hitler per aver avuto l’idea di sterminare gli ebrei d’Europa, incolpando invece il leader palestinese Hajj Amin al-Husseini di aver messo l’idea nella mente di Hitler.

Il premier israeliano non è il primo leader mondiale a dimostrare i pericoli dell’ignoranza storica. Al contrario, l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger era un abile praticante di quella che il politologo Graham Allison e lo storico Niall Ferguson chiamano «storia applicata». Da realista incallito, Kissinger si preoccupò della situazione dei palestinesi solo nella misura in cui essa aveva il potenziale di destabilizzare il Medio Oriente.

Ciò permise a Kissinger di trarre una lezione storica: nessun attore è destinato a rimanere avversario per sempre. La chiave sta nel garantire che le guerre non superino la loro utilità, che per Kissinger significava la loro capacità di creare opportunità diplomatiche e consentire il riequilibrio geopolitico.

Negli anni Settanta, gli Stati Uniti furono costretti ad accettare la sconfitta militare in Vietnam. Oggi, mezzo secolo dopo, possono rivendicare la vittoria diplomatica ed economica. Il Vietnam è praticamente un alleato degli Stati Uniti e la Cina, che un tempo aiutava il Vietnam del Nord nella lotta contro «l’imperialismo americano», è vista come una minaccia dal Vietnam.

Sconfitte narrative

Una vittoria totale è un’illusione, perché, come spiega Wolfgang Schivelbusch nel suo libro The Culture of Defeat: On National Trauma, Mourning, and Recovery, i «perdenti» non accettano mai la narrazione della sconfitta. Al contrario, riscrivono la loro storia, generando “miti” che glorificano il loro passato e giustificano le loro perdite.

Nelle guerre le valutazioni morali del conflitto possono essere importanti per l’esito quanto le bombe. Gli Usa hanno perso la guerra del Vietnam nei campus universitari americani e nel tribunale dell’opinione pubblica occidentale prima di cedere sul campo di battaglia.

Israele sta commettendo lo stesso errore. Ha cercato di schiacciare Hamas, conquistando il territorio, distruggendo case e ospedali e impedendo l’accesso agli aiuti umanitari. Ma, dopo due anni, il potere militare di Hamas, sebbene molto diminuito, non è stato eliminato. Netanyahu avrebbe dovuto saperlo. Non fu solo l’inverno russo a condannare l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, ma anche la capacità di Stalin di inviare in battaglia una riserva apparentemente infinita di truppe.

Netanyahu sembra non aver capito che le guerre moderne si combattono su più fronti, compresi i forum pubblici globali e il vortice caotico dei social media. E le perdite di Israele in queste arene sono state decisive: Hamas è diventato un emblema di resistenza eroica.

Gli israeliani erano soliti vantarsi che le loro guerre sarebbero state studiate nelle accademie militari. Ma qualsiasi esame dell’attuale guerra a Gaza cercherà di capire piuttosto come Hamas abbia trascinato Israele nella guerra più lunga della sua storia. Come ha fatto a infliggere pesanti perdite e ingenti costi economici al paese, a garantire il rilascio di prigionieri palestinesi di alto livello, a spaccare la società israeliana, a distruggere la sua reputazione internazionale e a interrompere la normalizzazione dei suoi legami con l’Arabia Saudita?

La risposta potrebbe risiedere in parte nello status di Hamas come attore non statale. La sovranità ha dei limiti. Anche un regime radicale come quello iraniano deve esercitare una certa moderazione, perché ha bisogno di un’economia funzionante e di un certo livello di legittimità internazionale per rimanere al potere. In Libano, Hezbollah è soggetto a molte delle stesse limitazioni. Israele è riuscito a eliminare la sua leadership e a distruggere gran parte del suo arsenale, ma lo ha sconfitto in parte perché Hezbollah è anche un partito politico libanese. Non poteva permettersi di esporre il Libano a continui attacchi aerei israeliani.

Hamas, al contrario, è libero dai vincoli della statualità. I pianificatori del massacro del 7 ottobre sapevano sicuramente che Israele avrebbe risposto in modo spietato e che i civili palestinesi sarebbero stati coinvolti nel fuoco incrociato. Ma sapevano anche che i loro combattenti sarebbero rimasti nei tunnel e che ogni sofferenza civile causata da Israele avrebbe aiutato la loro causa, facendo sì che il mondo si rivoltasse contro l’odiato occupante.

Anche se Hamas sarà alla fine sconfitto, il colpo inferto a Israele equivale a una vittoria psicologica che rimarrà impressa nella memoria del popolo palestinese per molto tempo. Finché Israele insisterà nel mantenere l’occupazione delle terre palestinesi, sarà costretto a vivere di spada tratta. Le cicatrici etiche lasciate su Israele dall’aver condotto attacchi massicci e di dimensioni bibliche a Gaza impiegheranno anni o decenni per sbiadire.

Ma le persone che hanno sopportato l’Olocausto potrebbero davvero commettere un genocidio? Con tutti i suoi orrori, Gaza non è Auschwitz. Nessuna delle guerre di Israele – nemmeno quella a Gaza, che è indubbiamente segnata da crimini di guerra e contro l’umanità – è paragonabile allo sterminio industrializzato degli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale.

Ma la moderna definizione legale di genocidio non si concentra sul numero di vittime o sui metodi utilizzati, ma sul fatto che l’autore abbia dimostrato l’intento di distruggere un gruppo nazionale o etnico. A Srebrenica sono stati uccisi “solo” 8.000 civili bosniaci musulmani, eppure il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia lo ha definito un genocidio. Anche nel caso in cui Israele eviterà una condanna per genocidio presso la Corte internazionale di giustizia dell'Aia, lo stigma rimarrà.

L’ultima potenza coloniale

Per gli osservatori occidentali, il conflitto non è un problema lontano. Non è solo un’altra lotta religiosa o etnica in Medio Oriente. Oggi, Israele è l’ultima potenza “bianca” che governa su un popolo sottomesso, erodendo i suoi diritti e impadronendosi della sua terra, e la Palestina è l’ultima nazione che lotta per l’indipendenza dal suo occupante.

Ma la Palestina non è una colonia d’oltremare. La sua vicinanza geografica – la patria storica confinante con lo stato madre – solleva rischi pratici e alimenta il suprematismo ebraico e il fascismo teocratico israeliano.

Gli imperi terrestri, come quelli costruiti da Cina, Germania e Russia, sono stati spesso caratterizzati da una tirannia in patria e da un senso di superiorità razziale, alimentato dalla paura della rivolta dei sudditi e dell’invasione dei rivali. Anche se gli imperi marittimi, come quelli britannico e francese, hanno compiuto violenze contro le comunità colonizzate, ciò non è stato accompagnato dall’emergere di regimi in patria.

Una lezione fondamentale è che porre fine all’occupazione delle terre palestinesi sarà impossibile, a meno che il governo autoritario di Israele non venga rimosso. La guerra di Gaza è servita come paravento dietro il quale la Cisgiordania è stata trasformata nel selvaggio Oriente, un luogo dove i coloni violenti hanno sradicato ed espulso i palestinesi dai loro campi e dalle loro case con la connivenza del governo.

Un nuovo Medio Oriente

Le guerre producono spesso conseguenze indesiderate. Quando Israele ha lanciato la sua controffensiva a Gaza, non ha previsto il drammatico cambiamento della regione. L’Idf è riuscito a spezzare il “cerchio di fuoco” guidato dall'Iran. Ora Israele e gli Stati Uniti devono scegliere: spingere Teheran verso una riconciliazione tattica con l’Occidente o spingere il regime ad accelerare il suo programma nucleare.

Israele non aveva previsto che la distruzione delle capacità militari di Hezbollah avrebbe creato le condizioni perché il Libano disarmasse il gruppo e reclamasse la propria sovranità come stato. Né ha previsto la caduta del regime della famiglia Assad in Siria. E non si aspettava che Hamas, nemico ideologico della soluzione dei due stati, riportasse tale soluzione in cima all’agenda. Se Israele continuerà a rifiutare una soluzione politica, i palestinesi continueranno a usare ogni leva per far deragliare il sogno di pace regionale di Israele. Un Medio Oriente più stabile e pacifico è possibile. Ma non può essere costruito senza un governo israeliano che riconosca quando la guerra ha superato la sua utilità.

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