sabato 4 ottobre 2025

La logica imperiale di Trump

Mario Del Pero
Il Medio Oriente neocoloniale del piano Trump

Domani, 4 ottobre 2025 

È un piano vago, ambizioso e forse non molto realistico, quello negoziato da Trump e Netanyahu. Che punta non solo a risolvere la questione di Gaza, ma anche a ridisegnare gli interi equilibri mediorientali. Quali sono gli obiettivi del presidente statunitense? Quali le matrici – strategiche, politiche e ideologiche – del progetto annunciato a Washington lunedì scorso? Quali, infine, i suoi limiti evidenti e i suoi potenziali cortocircuiti?

La matrice primaria dell’iniziativa diplomatica statunitense è stata la necessità di rimettere in asse le due direttrici fondamentali della politica meridionale dell’amministrazione Trump: l’alleanza con Israele (o, meglio, quella davvero speciale tra le due destre, americana e israeliana); le relazioni molto strette con parte del mondo arabo, Arabia Saudita su tutti. In un certo senso, l’obiettivo è quello di far ripartire il processo avviato con gli Accordi di Abramo siglati durante il primo mandato di Trump, estendendoli anche a Riad.

Un piano, quello di includere l’Arabia Saudita nella rete di trattati stipulati tra Israele e vari paesi dell’area, perseguito anche dall’amministrazione Biden, ma interrotto dal 7 ottobre e in parte ostacolato dalla distensione tra Arabia e Iran.

L’impressione è che Trump abbia sperato che il fatto compiuto della brutale azione israeliana a Gaza potesse essere accettato dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti in cambio di una rafforzata protezione securitaria statunitense, del trasferimento di tecnologia sensibile e dell’ulteriore sviluppo di affari comuni (pubblici, con gli Stati Uniti, e privati, con alcuni gruppi imprenditoriali vicini al Presidente e con le stesse famiglie di Trump e di Witkoff, l’inviato speciale in Medio Oriente). In fondo erano stati questi i termini degli accordi raggiunti durante il viaggio del presidente nei paesi del Golfo, il maggio scorso.

Quando, ad esempio, gli Usa avevano accettato di vendere agli Emirati sofisticati chip per l’intelligenza artificiale – bloccati fino ad allora per il timore che potessero poi giungere alla Cina – e uno dei fondi gestiti dello sceicco Tanhoun bin Zayed Al Nayhan (consigliere per la sicurezza nazionale del paese) aveva annunciato l’investimento di due miliardi di dollari nella azienda di criptovalute World Financial Liberty, creata da Trump poche settimane prima delle presidenziali del 2024 e oggi gestita dai suoi tre figli e dal figlio di Witkoff.

Questa dimensione patrimonialista della diplomazia statunitense rimane anche nel quadro dell’accordo negoziato da Trump e Netanyahu. Completato, però, da un esplicito impegno dei paesi arabi a partecipare alla forza di stabilizzazione internazionale incaricata di garantire la sicurezza a Gaza e da un loro coinvolgimento nei futuri piani di sviluppo nella striscia (con un riferimento esplicito a Riad, Doha, Dubai o Abu Dhabi, il punto 10 dell’accordo dice che «un piano di sviluppo economico di Trump per ricostruire e rilanciare Gaza sarà elaborato convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle fiorenti città moderne del Medio Oriente»).

L’ideologia e la sostanza della proposta hanno un sapore a dir poco neocoloniale, che ricorda un po’ il sistema di mandati istituito dalla Società delle Nazioni dopo la Prima guerra mondiale per i territori persi dagli imperi sconfitti in Africa, in Medio Oriente e nel Pacifico.

Un’ideologia e un linguaggio, questi, coerenti con i tratti ostentatamente neoimperiali del discorso di politica della seconda amministrazione Trump. Un governo transitorio composto da «palestinesi qualificati ed esperti internazionali», individuati non si capisce bene con quali criteri, dovrà assicurare la gestione ordinaria della Striscia.

Opererà però sotto la supervisione di un “Board of Peace” – letteralmente “un comitato di pace” – presieduto addirittura dallo stesso Trump e che includerà «altri membri e capi di Stato che saranno annunciati, tra cui l'ex primo ministro Tony Blair» (punto 9).

Le contraddizioni, le (deliberate) ambiguità e i potenziali cortocircuiti del piano sono plurimi. Non sappiamo se Hamas e la destra israeliana siano disposti ad accettarlo nella sua interezza. Le sue tante opacità e vaghezza lasciano margini d’interpretazione assai discrezionali. Nulla si dice della Cisgiordania, convitato di pietra dove in parallelo è stata data carta bianca a coloni intenti a promuovere il disegno di una grande Israele.

Qualsiasi coinvolgimento dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è condizionato a un suo non meglio precisato «programma di riforme», e la statualità palestinese ridotta a un miraggio, tanto che Netanyahu ormai la esclude esplicitamente. Anche nel caso Hamas accettasse la resa incondizionata imposta dal piano, l’Idf manterrebbe a lungo una presenza nella Striscia.

Di scommessa, per Trump, in fondo si tratta. Ma una scommessa che poggia su basi concrete: la disperazione della popolazione di Gaza; i successi militari israeliani e il grande indebolimento di Hamas e dei suoi alleati; i summenzionati interessi dei paesi arabi; la debolezza dell’Anp e la fine, ormai, di qualsiasi illusione rispetto alla possibilità che sorga uno Stato palestinese.

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