Christian Raimo
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venerdì 31 ottobre 2025
Quale Pasolini
Se il radicalismo sfocia nell'intolleranza
Guido Vitiello
Il terrorismo intellettuale di Tomaso Montanari
Il Foglio, 30 ottobre 2025
Il terrorismo intellettuale, ossia la tagliola ricattatoria fatta scattare a difesa di un’idea o di un’ideologia, esiste da secoli, forse perfino da prima dei giacobini, ma nell’ultima stagione ha preso una forma che definirei passivo-aggressiva. Funziona così: si erige intorno alla propria posizione una muraglia sdegnosa, proclamando che a cementarla è di volta in volta la scienza, il diritto, la competenza, il consenso unanime di tutti gli studiosi perbene, e da quella cittadella di certezze immaginarie ci si prende il lusso di spregiare tutte le opinioni difformi, di degradare moralmente chi le sostiene, di irridere le orde barbariche dei “negazionisti” (accusa che ormai si porta su tutto). Quando a comportarsi così è un influencer scemo raccatta-like si può soprassedere, un po’ più grave è che se ne compiaccia il rettore di un’università.
Tomaso Montanari – uno che predica la parresìa ma deve averla confusa con la prosopopea – scrive su Instagram che lui non inviterebbe quelli di Sinistra per Israele nella sua università, anzi, che nessuna università dovrebbe invitarli, perché pur criticando Netanyahu (su questo Fiano strappa il diciotto politico) rifiutano di parlare di genocidio “con sommo spregio per i coerenti pronunciamenti della scienza giuridica e di quella storica”. E’ intellettualmente e pedagogicamente avvilente che il rettore di un’università, dunque di uno spazio deputato alla discussione civile e tollerante, diffonda un’immagine così catechistica e rattrappita delle “scienze” dietro cui sceglie di trincerare la sua spocchia. Forse, nelle pause tra un talk-show e l’altro, potrebbe trovare il tempo di leggere (nemmeno tutto: bastano i capitoli dall’11 al 13) un libricino appena pubblicato da Laterza, Caos. La giustizia internazionale sotto attacco, di Marcello Flores ed Emanuela Fronza, che sono appunto uno storico e una giurista. Dopo questa infarinatura, potrà continuare tranquillamente a chiamarlo genocidio, ma con tutte le cautele che si addicono a uno studioso. Magari potrà perfino invitare Emanuele Fiano a discuterne con lui.
Voltaire
Trattato sulla tolleranza (1763)
Prefazione di Palmiro Togliatti (1949)
Lo scritto di Voltaire sulla tolleranza, che per la prima volta [1949] viene presentato al pubblico italiano in edizione popolare, è senza dubbio tra le opere più singolari del grande scrittore francese, ed è tra quelle che più contribuirono, in Francia e in Europa, a procurargli quella larga fama di combattente contro le ingiustizie e le infamie del fanatismo clericale, che superò anche la fama sua di filosofo e letterato. Le circostanze che dettero origine allo scritto non occorre rievocarle qui: si legga il primo capitolo, che ne dà una esposizione drammatica e concisa. Una esplosione di fanatismo religioso, poi uno di quei processi che disonorano giudici e giustizia, e ancora oggi e troppo di frequente offendono gli animi onesti: la passione umana e il genio politico e letterario di Voltaire seppero, mossi da questi fatti, suscitare attorno ad essi una commozione così profonda e generale da costringere le autorità della Francia feudale a un intervento riparatore. Il Trattato ci si presenta quindi come un piccolo capolavoro di polemica civile e politica, prima che storica e filosofica, dove tutta l'argomentazione è subordinata allo scopo di allargare il fronte dell'attacco e rendere questo più efficace. Ciò dà un valore particolare e quasi una giustificazione persino ad alcune posizioni oggi per noi non ammissibili, come l'accettazione di alcune misure di discriminazione politica a danno dei non cattolici in uno Stato dove la religione cattolica sia dominante. È vero che la cosa è coerente con la concezione politica moderata dell'autore ed è inoltre giustificata, ai suoi occhi, dall'esempio dell'Inghilterra dove tale discriminazione, in paese protestante, esisteva a danno dei cattolici. Nel contesto di questo scritto, però, l'impressione che queste posizioni non conseguentemente liberali suscitano nell'attento lettore è piuttosto quella di concessioni astute fatte con spirito molto realistico (od opportunistico, se così si vuole) agli avversari e anche agli amici non troppo convinti, allo scopo di ottenere la necessaria larga adesione delle sfere dirigenti intellettuali alla tesi essenziale della necessità che nella società civile prevalga un clima di tolleranza religiosa, e sia negata alle gerarchie ecclesiastiche la facoltà di avvelenare, turbare, lacerare l'umanità con le loro vacue controversie, con le condanne ridicole, con le persecuzioni insensate. La battaglia per la tolleranza, infatti, che alcuni anni or sono poteva sembrare a tutti superata per sempre, ma che recenti episodi e il risorgere di una baldanza clericale al servizio di una estrema resistenza e reazione capitalistica rendono invece ancora una volta attuale, non fu facile a vincersi. Il merito del razionalismo settecentesco e in particolare degli illuministi francesi sta nell'averla condotta con la più grande decisione, senza esitare di fronte ai colossi dell'autorità e della tradizione, di fronte ai poteri minacciosi di una gerarchia che si affermava spirituale e di un governo che si proclamava ed era assoluto, con fiducia illimitata nella propria forza intellettuale e morale, il che vuol dire, in sostanza, con illimitata fiducia nelle facoltà della ragione umana. La portata della battaglia per la tolleranza superò perciò largamente la semplice rivendicazione e attuazione di un nuovo e più moderno regime nelle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, per cui gli "altri culti" dovevano alla fine riconoscersi "tollerati": fu una grande vittoria del razionalismo moderno contro l'oscurantismo della Controriforma, il punto culminante di uno svolgimento di pensiero partito dal Rinascimento, sostenuto dalle rinnovate ricerche scientifiche, dalla demolizione del metodo della filosofia scolastica, dal trionfo dei princìpi del libero esame e del materialismo. Non si poteva infatti sostenere contro il fanatismo religioso la tesi della tolleranza, se non respingendo le basi dottrinali del sistema di pensiero su cui quel fanatismo poggiava, e se oggi sentiamo che la battaglia dell'illuminismo contro il fanatismo religioso può ridiventare attuale, ciò è anche in legame con la degenerazione filosofica e culturale per cui i "superatori" del razionalismo hanno contribuito a restaurare le vecchie correnti oscurantistiche e clericali. E qui assume il necessario rilievo il problema del metodo di quel ragionare che fu proprio del razionalismo settecentesco. È stato a lungo ed è tuttora di moda, sembra, irridere ad esso, come a cosa ingenua, superficiale, astratta, lontana da quel senso della storia che sarebbe il tratto nuovo, caratteristico, del pensiero moderno più progredito. Che Voltaire e gli altri della sua statura fossero ingenui, è difficile crederlo. Sapevano con chi avevano a che fare, sapevano quello che volevano: la loro polemica è quindi sempre concretamente diretta contro un nemico presente; il loro ragionare e lo stesso stile loro è continua schermaglia, dove il sottinteso, l'ironia, il sarcasmo hanno una ben precisa funzione, non tanto dimostrativa, quanto distruttiva. Sapevano, soprattutto, che era loro compito liberare da un pesante giogo intellettuale milioni di uomini. Perciò erano chiari, limpidi, efficaci. In seguito e purtroppo, il campo è stato di nuovo invaso da gente diversa, di cui si può ripetere ciò che Cartesio diceva degli scolastici, "che possono parlare di ogni cosa con tanto ardire come se la conoscessero, e sostenere tutto ciò che dicono contro i più sottili e i più abili, senza che vi sia il mezzo di convincerli; simili in ciò a un cieco che, per battersi senza svantaggio contro un veggente, lo facesse scendere nel fondo di qualche cantina molto scura". Si sentono in Voltaire, senza dubbio, le lacune dell'indagine erudita del tempo suo, ma tra il suo robusto giudicare dei fatti storici secondo buon senso e ragione, e le ipocrite e contorte giustificazioni di qualsiasi obbrobrio in nome della idealità del reale, la nostra scelta non è dubbia. Per lo meno la critica volteriana fu principio ed anima di un'azione grandiosa, mossa dal proposito di trasformare il mondo, e a qualche cosa nuova ha pur messo capo! Tra il razionalismo illuministico e il marxismo la differenza è senza dubbio grande. La nostra concezione del mondo e della storia non fa luogo soltanto a quelle istanze razionali da cui mosse il materialismo settecentesco. La nostra dottrina è del tutto nuova, perché trova nella realtà stessa e nel suo sviluppo la ragione e la molla del rinnovamento del mondo. Ma in coloro che, come gli illuministi, animati dalla fiducia più grande nell'uomo e nelle sue facoltà, impiegarono le armi del loro sapere per aprire un'èra di rinnovamento dell'umanità, non possiamo non riconoscere dei precursori. Il bagno razionalistico era indispensabile per aprire al pensiero e all'azione degli uomini le strade di un'èra nuova. La cosa è tanto vera ed evidente che quelle correnti culturali le quali credettero di poter superare o respingere il razionalismo illuministico senza essersi immerse in esso sino ad appropriarsi tutto quello che ebbe e realizzò di positivo e progressivo nella distruzione del passato oscurantistico e clericale, hanno finito per metter capo ancora una volta a questo passato, o per aprire la strada alla sua resurrezione. Per questo crediamo che soprattutto in Italia un "ritorno al razionalismo" sia cosa da augurarsi, se non altro nel senso di rinnovata conoscenza diretta dei principali testi e momenti di una grande battaglia culturale e filosofica progressiva, e non ci dispiace dare a questo ritorno, nei limiti di una iniziativa editoriale, il nostro contributo.
Palmiro Togliatti luglio 1949
Il preside rinsavito
Chiara Comai
“L’immagine dello studente in manette è una ferita”, la retromarcia del preside dell’Einstein
La Stampa, 30 ottobre 2025
E così la scuola ha fatto retromarcia. Nel pomeriggio di ieri il dirigente Marco Chiauzza ha diffuso una circolare in cui chiede alle forze dell’ordine di «chiarire le circostanze di quanto accaduto», esprimendo «profonda preoccupazione».
Studenti barricano la scuola contro le violenze
Con un lucchetto nero per chiudere il cancello e i banchi accatastati che fanno muro, più di 200 ragazzi e ragazze dell’istituto superiore Einstein si sono barricati nella sede di via Bologna lasciando fuori il dirigente e gli insegnanti. Lo hanno fatto come «strumento per arrivare a una risposta più decisa da parte del preside, che nega le violenze e volta la testa» dopo le tensioni che si sono verificate lunedì mattina, quando all’ingresso dell’istituto alcuni allievi mentre cercavano di ostacolare un volantinaggio di Gioventù nazionale si sono scontrati con la polizia. Uno di loro, di 16 anni, è stato portato via in manette e questa immagine ha fatto il giro del web suscitando l’indignazione anche dei genitori della scuola, che hanno scritto alla dirigenza in più di un centinaio.
La nuova circolare: svolta del preside
La risposta arriva. Nel comunicato firmato dal dirigente e da tutti i professori, si legge: «La visione di un nostro studente minorenne ammanettato e portato via davanti ai compagni rappresenta per tutta la comunità scolastica una ferita profonda. Qualunque siano le circostanze che hanno portato a quel momento, nessuna azione educativa o di ordine pubblico può giustificare un’immagine tanto dolorosa, consumata davanti a chi ogni giorno vive la scuola come spazio di crescita e libertà».
Una postura molto diversa dalla precedente circolare, firmata solo dal preside, dove si sottolineava un’«escalation di toni da entrambe le parti», che le forze dell’ordine «sono intervenute dopo le tensioni» da parte dei ragazzi e che «la mancata presa di posizione della scuola» era una scelta per «evitare di fomentare lo scontro ideologico».
La protesta continua fino a venerdì
Dopo queste modifiche, gli occupanti dicono di essere soddisfatti. Ma che resteranno in occupazione fino a venerdì. La volontà è di solidarizzare con il compagno ammanettato e di protestare contro «l’iniziativa muscolare» delle forze dell’ordine, definita «un’azione squadrista degna di un regime».
Starebbero organizzando, spiegano, laboratori e dibattiti anche con associazioni esterne: «Abbiamo contattato alcuni di Professori per la pace e l’Anpi». Oggi ospiteranno anche il deputato alla Camera Marco Grimaldi di Sinistra italiana, che ha presentato un’interrogazione parlamentare sui fatti di lunedì. Dal primo piano svetta lo striscione «Einstein antifa». Dagli occupanti arriva una risposta anche alla vicepresidente regionale Elena Chiorino, che li accusa di essere una «minoranza». «Non lo siamo – dicono – Abbiamo fatto un sondaggio sulla bacheca del liceo, a cui hanno risposto 822 alunni su 1.450. L’80% era favorevole all’occupazione».
Accuse di molestie e smentita di FdI
C’è un ulteriore elemento che si aggiunge alle tensioni. Due ragazze giovanissime dicono di aver subito delle “molestie da parte di chi volantinava”. «Quando sono cominciate le tensioni mi è stato offerto un volantino che ho rifiutato – racconta una delle due – e nel dire di no sono stata presa per il petto e spinta al muro, e mentre mi picchiavano mi hanno palpeggiata. Ci siamo rivolte a un legale e faremo denuncia». Il consigliere comunale di FdI di Settimo Torinese Francesco d’Ambrosio, presente quella mattina a volantinare, smentisce: «Sono accuse infamanti inventate».
Dialogo con i bambini: diritti e resistenza
Davanti al cancello si ferma una classe delle elementari dell’istituto comprensivo Regio Parco. I ragazzi dell’Einstein spiegano ai bambini cosa stanno facendo e perché. La maestra Valeria Valeri spiega ai suoi alunni: «Quando sarete grandi, se i vostri diritti non vengono rispettati potrete occupare anche voi la scuola».
giovedì 30 ottobre 2025
Il coraggio dell'utopia. Karl Mannheim
Stuart Jeffreys, Grand Hotel Abisso. Biografia avventurosa della Scuola di Francoforte, Traduzione dall'inglese di Bruno Amato, EDT, Torino 2023
[Karl] Mannheim (1893-1947) era caratterialmente diverso dall'angelo di Benjamin: si voltava e osava guardare nel futuro, e immaginava che questo avrebbe contenuto un'utopia. Il potere di cambiare le condizioni presenti immaginando utopie era per lui la forza trainante della storia e qualcosa di essenziale per il benessere della società.
Questo, in un certo senso, non era molto ebraico. Il marxismo, filosofia politica ideata da un ebreo, è notoriamente poco capace di immaginare il futuro comunista per il quale il proletariato si sta apparentemente battendo. Forse questa carenza in fatto di immaginazione ha origini antiche. "È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro", scriveva Benjamin poche pagine dopo la descrizione dell'angelo. "La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall'incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini". Il marxismo di Benjamin diede una nuova svolta ai tradizionali rituali ebraici del lutto e del ricordo di sofferenze ancestrali. Questo però non era l'unico aspetto rilevante del suo marxismo: "Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia".
Per Mannheim, il compito dell'intellettuale era proiettare in quel tempo omogeneo e vuoto una speranza ispiratrice, immaginare l'utopia e quindi fare un passo verso la sua realizzazione. La Scuola di Francoforte, in netto contrasto, disprezzava quel ruolo e durante gli anni Trenta e Quaranta si ritrasse da ogni idea che potesse avere avuto in precedenza sul trasformare la società.
Luigi Anepeta
https://www.nilalienum.it/Sezioni/Bibliografia/Sociologia/MannheimIdeologiaUtopia.html
Nella misura in cui la concezione totale dell'ideologia rivela che un intero gruppo sociale e i suoi singoli membri leggono la realtà in una maniera, almeno parzialmente, poco fedele allo stato di cose esistente, minimizzando, mettendo tra parentesi o rimuovendo i fatti che contrastano con una determinata visione del mondo, essa "solleva un problema che è stato sinora adombrato, ma che adesso acquista un più ampio significato. Il problema, vogliamo dire, di come sia sorta la "falsa coscienza", di come sia nato un pensiero capace di falsare quanto viene a cadere sotto il suo dominio" (p. 78). La genesi di un'ideologia è sempre da ricondursi al tentativo di conservare uno status quo: "il conoscere è ideologico, quando non riesce a rendersi conto dei nuovi elementi insiti nella situazione o quando tenta di passare loro sopra considerandoli in termini ormai del tutto inadeguati" (p. 103).
La funzione dell'utopia è proprio quella di portare alla luce questi nuovi elementi e di valorizzarli in massimo grado: "una mentalità si dice utopica quando è in contraddizione con la realtà presente" (p. 211). Non ogni stato della coscienza che trascende la realtà immediata si può considerare però, secondo Mannheim, utopico: "Utopici possono invero considerarsi soltanto quegli orientamenti che, quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a rompere l'ordine prevalente" (p. 211). "Noi consideriamo utopie tutte le idee (e non soltanto, quindi, la proiezione dei desideri) trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell'ordine storico-sociale esistente" (p. 225).
L'utopia è dunque una potenzialità evolutiva implicita in ogni sistema sociale. A tale potenzialità si può dare un significato univocamente rivoluzionario: "Da questo punto di vista, ogni evento storico si presenta come una continua liberazione dall'ordine esistente per mezzo dell'utopia, che da esso ha origine. Solo nell'utopia e nella rivoluzione si dà una vita autentica, mentre l'ordine istituzionale non rappresenta altro che il cattivo residuo delle rivoluzioni e delle utopie in fase di declino. Così il cammino della storia conduce da una "topia" (o realtà esistente) ad un'utopia e quindi ad una successiva "topia", ecc." (p. 217). Si tratta però di null'altro che di una nuova ideologia, il cui merito "consiste, tuttavia, nel fatto che, in opposizione all'idea conservatrice di un ordine stabilito, essa impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta, concependola invece come una delle possibili "topie", da cui scaturiranno quegli elementi utopici che a loro volta porranno in crisi lo stato attuale" (p. 217). Ciò porta a intravedere il significato "dialettico" del rapporto tra utopia e ordine esistente:" Ogni epoca produce (nei gruppi sociali diversamente situati) quelle idee e quei valori in cui si condensano, per così dire, le tendenze non ancora realizzate e soddisfatte, che rappresentano I bisogni di ciascuna età. Codesti elementi intellettuali costituiscono allora il materiale esplosivo per far saltare in aria l'ordinamento esistente. La realtà presente dà origine alle utopie che, a loro volta, ne rompono I confini per lasciarla libera di svilupparsi nella direzione dell'ordine successivo" (p. 218).
Barry Lyndon ritorna
Davide Coppo
David Szalay ha riscritto Barry Lyndon per il mondo contemporaneo, ed è perfetto
Rivista Studio, 28 ottobre 2025
Da quando abbiamo, con molte ritrosie, iniziato ad accettare che la violenza degli uomini non è frutto di un lampo di isolata pazzia ma, spesso, un distillato di cultura patriarcale, si sono moltiplicate le iniziative di analisi e autoanalisi maschile. Gruppi di autocoscienza, libri, incontri pubblici. Naturalmente, anche tutto il contrario: i rancorosi e arrabbiati timorosi di perdere privilegio o chissà quale aura, che agitano la bandiera della persecuzione di genere e dello slogan “non tutti gli uomini sono così”. A ragionare cosa sono gli uomini del Ventunesimo secolo e come si sviluppa la loro mascolinità lo scrittore David Szalay ha dedicato più o meno tutta la carriera, finora abbastanza giovane e decisamente brillante, inserendo questo filo rosso in una produzione alta e letteraria ma anche fortunata commercialmente, che ha toccato ora il suo punto più alto: con l’uscita di Nella carne, finalista al Booker Prize 2025 e uscito in Italia, per Adelphi, nell’ottobre di quest’anno.
Nella carne è la storia di un uomo che attraversa poco più di mezzo secolo, dagli anni Settanta a oggi, una storia densa di avvenimenti che lo toccano e lo indirizzano: la Guerra Fredda, la caduta del Muro, la guerra in Kuwait, l’Unione Europea e il primo grande allargamento a Est nel 2004, e poi naturalmente il Covid e il conseguente lockdown. Ma è soprattutto la storia di un uomo che nasce umile, tra gli sconfitti in partenza, in uno dei posti più poveri dell’Europa di quel momento – l’Ungheria degli anni finali dell’occupazione sovietica – e che diventa ricco, ricchissimo, per circostanze date dal caso, dall’occasione e dal cinismo che lui sa sfruttare perfettamente. È una riscrittura esplicita, aggiornata al mondo globale, del Barry Lyndon di Stanley Kubrick (non quello di Thackeray, che è diverso). Questo è uno spoiler, se vogliamo usare queste categorie (e non vogliamo), ma è anche il cuore di tutto il romanzo, se volete avere delle istruzioni su quello che vi troverete in mano una volta acquistato Nella carne: la parabola dell’ascesa e dell’inevitabile caduta di un uomo che riesce, nel giro di pochi mesi, a scalare tutte le tappe dell’ascensore sociale, senza riuscire ad aggrapparsi a niente prima di scivolare nel vuoto.
Il giovane Victor Serge
Jean Birnbaum
Le Monde, 30 ottobre 2025
Nel 1917, il giovane rivoluzionario dal portamento aristocratico, gli occhi scuri e le labbra serrate inviò una lettera in forma di riassunto. Dalla Barcellona anarcosindacalista, mentre i suoi compagni erano nuovamente tentati dalla violenza, scrisse a un amico: "Sono disgustato nel vedere le nostre idee, così belle, così ricche, finire nel fango e nel sangue, in un vile spreco di energie giovanili".
All'epoca, l'uomo che scrisse queste parole era noto principalmente negli ambienti libertari, dove gli articoli che firmava con lo pseudonimo "Le Rétif" erano apprezzati. Non era ancora il celebre Victor Serge (1890-1947), il dissidente sovietico liberato da Stalin grazie a una mobilitazione internazionale orchestrata da scrittori di fama come André Malraux, André Gide e Romain Rolland; non era ancora l'eroe solitario che i comunisti parigini avrebbero etichettato come "traditore" e "fascista" per aver osato parlare di ciò che aveva vissuto in URSS ; non aveva ancora pubblicato *S'il est minuit dans le siècle * (1939), il suo grande romanzo sulla tirannia sovietica.
Eppure, a 27 anni, Serge era già un attivista veterano. Aveva vissuto le più alte speranze e i peggiori tradimenti. Aveva trascorso cinque anni in prigione. E il doppio negli ambienti anarchici. Questo periodo libertario fu decisivo per il destino di Victor Serge, una delle figure di spicco della sinistra antitotalitaria del XX secolo ? Se il rivoluzionario evitò sempre la folla e non rinunciò mai a servire la verità, lo dovette forse al suo impegno in questa corrente nota come "anarchismo individualista"? Questa, in ogni caso, è l'idea difesa da Claudio Albertani in * Il giovane Victor Serge *.
Effervescenza intellettuale
A sostegno di questa tesi, l'autore si concentra sul giovane Victor Serge. Figlio di esuli antizaristi, nacque a Bruxelles in una famiglia povera dove le conversazioni ruotavano attorno a processi e impiccagioni. Invece di fiabe, i suoi genitori gli raccontavano storie di prigionieri politici... Da bambino, si abituò alla fame. A 13 anni visse da solo e presto intraprese diversi lavori saltuari: apprendista fotografo, tecnico del gas, disegnatore presso uno studio di architettura. Ogni giorno, si accontentava di una libbra di pane e qualche pera, più un bicchiere di latte che la sua padrona di casa gli vendeva a credito. Ma la sua privazione materiale era compensata dal suo fermento intellettuale. Dopo aver letto i testi del teorico anarchico Pëtr Kropotkin (1842-1921), in particolare il suo opuscolo intitolato Ai giovani (1880), l'adolescente prese una decisione: avrebbe trascorso la vita studiando senza studiare.
Con altri ribelli incontrati per strada, lesse Zola, imparò a boxare e frequentò una comune anarchica chiamata "L'Esperienza", situata alla periferia della capitale belga. I suoi membri organizzavano conferenze sul libero amore, coltivavano ortaggi, pubblicavano un giornale e producevano una serie di oggetti in ceramica, tra cui piatti decorati con slogan libertari. Non rimandare la felicità, vivere subito "la vita insolente, la vita anarchica" : questo era il desiderio di questi individualisti che diffidavano dei movimenti collettivi, dell'"insurrezionalismo" e di qualsiasi rivoluzione sociale: chiunque volesse cambiare il mondo doveva stravolgere la propria esistenza! "La vita, tutta la vita, è nel presente; aspettare è perderla; aspettare il domani per essere liberi, per godere dell'esistenza, per sentirsi vivi?". "Non giochiamo più a questo gioco ", scrisse Victor Serge sul quotidiano L'Anarchie nel 1911. Aveva 21 anni e ora viveva a Parigi.
Ma questo piccolo mondo era allora diviso, in particolare sulla questione dell'"illegalismo". Contro coloro che promuovevano rapine e omicidi, Serge sosteneva che non si può costruire un sistema politico sull'odio, così come non si può costruire una società giusta con la dinamite, guadagnandosi l'etichetta di "venduto". Ma quando la famigerata "Banda Bonnot" iniziò il suo massacro, si sentì in dovere di proclamare la sua solidarietà con uomini che conosceva bene. Arrestato dalla polizia, fu interrogato a lungo: "Uomo di intelligenza superiore, sebbene effeminato di natura, possiede un carattere energico ", annotava un rapporto di polizia. Accusato di essere l'ideologo della banda, Le Rétif fu condannato e trascorse cinque anni dietro le sbarre: "Colpendo lui, il mio amante e il mio compagno d'armi, avevano ucciso la mia giovinezza e il mio amore ", scrisse la sua compagna, la straordinaria Rirette Maîtrejean (1887-1968), celebrata qui in pagine commoventi. Da questa esperienza Serge trasse ispirazione per * Les Hommes dans la prison * (1930), un bel romanzo che Libertalia sta ripubblicando (314 pagine, 10 euro) insieme alla biografia di Claudio Albertani, che dovrebbe comprendere altri due volumi.
Una tesi affascinante e discutibile
Giornalista e storico residente in Messico, è egli stesso un attivista libertario. Si potrebbe essere irritati da certi pregiudizi o scorciatoie argomentative, o persino sorpresi dall'apparente indulgenza dell'autore verso la violenza "politica". Ma questa dichiarata sensibilità anarchica gli permette di perpetuare il meglio di ciò che la letteratura del movimento operaio ha prodotto, con quel mix di rigore, irriverenza e umorismo che conferisce al testo le intonazioni esilaranti, e quasi il pizzetto, caratteristici dei socialisti di un tempo. Questo mix è appropriato per descrivere l'ambiente libertario alla vigilia della Grande Guerra, dove si mescolavano rivoluzionari esperti, disertori in fuga, tipografi creativi, avventurieri eccentrici, artisti nudisti e, naturalmente, informatori della polizia.
La tesi del libro rimane, al tempo stesso seducente e discutibile. Victor Serge, autore di un romanzo intitolato *Naissance de notre force* (1931), trovò la propria forza durante quegli anni anarchici? Sebbene tendesse a minimizzarne l'importanza alla fine della sua vita, fu forse la lotta libertaria a renderlo l'anticonformista che era destinato a essere? Dopo aver terminato * Le Jeune Victor Serge *, si ha l'impressione che se scelse l'anarchismo individualista, fu perché possedeva già una sua concezione unica della coscienza umana, della sua comune mediocrità e delle sue miracolose esplosioni di energia. In prigione, ricordava, c'erano "uomini comuni e uomini straordinari, che portavano dentro di sé una scintilla divina ". Per un anarchico, questo è un modo originale di descrivere la forza interiore, il potere della ribellione, in breve, la libertà. E, per Victor Serge in particolare, un modo di affermare che ogni dissenso è una ribellione spirituale.
« Le Jeune Victor Serge. Rébellion et anarchie, 1890-1919 » (Rebelion y anarquia. El joven Victor Serge), de Claudio Albertani, traduit de l’espagnol par Christian Dubucq, Libertalia, 460 p., 14 €.
Estratti
Victor e Rirette diventarono amici e si frequentarono sempre più spesso. La mattina andavano in biblioteca o passeggiavano nei Giardini del Lussemburgo; la sera passeggiavano lungo le rive gauche e poi si recavano nella stanza di Rirette in Rue de Seine. Fu probabilmente Rirette a incoraggiarlo ad abbracciare le idee di Stirner [Max Stirner, autore de L'Unico e la sua proprietà nel 1844 ] e Nietzsche, sebbene probabilmente le conoscesse già. La domenica visitavano un museo per godersi il fascino della pittura e, quando avevano un po' di soldi, si concedevano una gita sul fiume in battello. Poi scendevano alla fermata del parco di Saint-Cloud, dove trascorrevano ore a leggere o recensire le traduzioni degli scrittori Michail Artsybachev, Konstantin Balmont e Dimitri Merezhkovsky che Victor stava curando per l'editore Povolozky.
Il giovane Victor Serge, pagina 184
“La fine spettacolare di Bonnot e dei suoi amici contribuì al loro status leggendario (…). L’indignazione pubblica che circondò il caso fu tale da suscitare la curiosità del [criminologo] Émile Michon, che ottenne il permesso di visitare i prigionieri per comprenderne il carattere e far luce sulle ragioni del loro comportamento apparentemente incomprensibile. Pur confermando ancora una volta la versione ufficiale secondo cui l’anarchismo era una sorta di malattia mentale contagiosa, il celebre scienziato si rifiutò di ripetere che i banditi erano mostri assetati di sangue. Al contrario, riconobbe che non corrispondevano allo stereotipo del criminale feroce creato dalla stampa e che dimostravano una grande umanità. Lo scienziato fu particolarmente colpito dalla forza di carattere di questi giovani.” (…) Il criminologo è pieno di elogi per Le Rétif [Victor Serge] : “Uomo di squisita cortesia e grande dolcezza (…), possiede un’altra qualità che manca completamente alla maggior parte dei suoi coimputati: ha tatto.”
Il giovane Victor Serge, pagine 239-250





