Nadia Terranova
Quando capisci che l'ostacolo non era Berta
La Stampa Tuttolibri, 5 settembre 2025
Jane Eyre di Charlotte Brontë è uno dei miei libri preferiti. L’ho letto almeno tre volte: da ragazzina, quando mi ha fatto scoprire un mestiere, l’istitutrice, che ho subito messo nella lista di quelli che avrei voluto fare da grande; da adulta, quando intorno ai trent’anni, satura di una pur molto amata Jane Austen, avevo invece bisogno di un romanzo scritto da una donna in cui si tenesse conto dell’amore sensuale (senza che si prendesse tutta la scena, come in Cime tempestose); e poi la terza volta, quando ho riletto Jane Eyre attraverso un altro libro, Il grande mare dei Sargassi di Jean Rhys, e ho scoperto un’altra faccia della storia.
Iniziamo dalla trama, da quelle seicento pagine da cui è difficile staccarsi, anche per i lettori più renitenti; la prima rivoluzione di Jane Eyre consiste infatti nell’utilizzo orgoglioso e lineare di una prima persona femminile che evolve a contatto con le asperità. Qui la tessitura di fatti e pensieri raggiunge un equilibrio miracoloso, privo degli eccessi dell’intimismo da un lato e del cronachismo dall’altro: Jane è esposta fin dall’infanzia al massacro del mondo, quello del collegio prima, del lavoro dopo - la società non è strutturata per le bambine e le ragazze, le ostacola e le disorienta, ferisce i loro pensieri di libertà. Jane, però, non si dà mai per vinta, mentre esperisce la solitudine e l’ineluttabilità della morte, prima quella dei genitori e poi quella della sua amica. Nonostante le tragedie - decessi, malattie, abbandoni - Charlotte Brontë si tiene ben lontana dal melò: i sentimenti sono in azione, Jane non è passiva o rassegnata, ma nemmeno stolidamente eroica, la sua personalità spicca rispetto alla massa di eroine ottocentesche, l’introspezione di cui è capace la rende moderna, l’amore che la anima non la divora (per i libri, per un uomo), il suo profilo è una miscela riuscita di controllo e passione. Vive i tormenti senza negarli ma nemmeno amplificarli: così il romanzo è una storia di difficoltà, ma non un dramma.
Jane Eyre è viva, e resiste a ogni rilettura: la sua storia è una di quelle che ho più consigliato senza mai, neppure una volta, che mi fosse restituito un malcontento. «In questi otto anni», scrive Jane a proposito di un tempo difficile, «la mia vita fu sempre uguale, non infelice, tuttavia, perché non rimasi mai inattiva». Righe che mi sono appuntata nell’edizione nella quale ho riletto Jane Eyre da adulta, in un momento di paralisi: funzionano come una scintilla, perché il fuoco del romanzo è imprigionato in una prosa eccellente e rigorosa, nella finzione autobiografica di un’auto-narratrice che sa mettere ordine nella memoria e lasciar emergere ciò che vale.
Con l’amore per Rochester, il femminile di Jane si sdoppia, anzi si triplica attraverso le donne-ostacolo: Blanche, che Rochester frequenta per fare ingelosire Jane, e poi soprattutto Bertha, la moglie segreta, la pazza reclusa in un’ala misteriosa della casa. Grazie a lei arriva la terza e più interessante lettura della Jane Eyre di Charlotte Brontë, quella fatta da un’altra scrittrice, a distanza di cent’anni.
Jean Rhys, britannica di origine caraibica, organizza una decostruzione del ruolo-funzione di Bertha: quello di semplice ostacolo. Chi legge Jane Eyre viene indotto ad amare e soffrire assieme a Jane, a sperare con lei nella liberazione, e tira un sospiro di sollievo quando Bertha muore nell’incendio da lei stessa provocato, come se il destino delle pazze non possa essere altro che levarsi di torno, sgomberare il campo dalla propria difformità: levare il fastidio di esistere. Bertha è solo un nomignolo, un accidente, il problema e la spina nel fianco rispetto alla felicità che Jane Eyre meriterebbe - ma cosa accadrebbe a tutto il romanzo di Charlotte Brontë se scoprissimo la sua identità, se vivessimo la sua vita, se arrivassimo al giorno dell’incendio con il suo sguardo e le sue esperienze?
Jean Rhys, senza mai nominare Rochester, racconta nel Grande mare dei Sargassi la storia di Antoinette Cosway, ereditiera creola in perenne bilico tra un’infanzia giamaicana (infelice, non meno di quella di Jane Eyre) e il matrimonio con un uomo che, sotto i panni del gentiluomo borghese, ha un cuore infimo: la fa dichiarare pazza e aggiunge un altro tassello al defraudamento della sua identità. Più che essere la risposta femminista a Jane Eyre, come è stato grossolanamente definito, Il grande mare dei Sargassi raccoglie e amplifica la questione femminile trasferendola su un piano politico più strutturato (nel frattempo è trascorso un secolo di lotte), per mostrare come lo svelamento dell’identità delle donne sia un gesto in continua rimodulazione.
Per complessità linguistica, per il modo in cui raccontano le relazioni e gli equilibri di potere e di valore fra le persone, e soprattutto per come rifuggono dall’epica del riscatto, sia Jane Eyre sia Il grande mare dei Sargassi si pongono come libri sulle ferite, sulla vita come forma di lesione - in cui la questione di genere è un’aggravante. Ci mostrano la letteratura come arcipelago di isole in dialogo e ci dicono, almeno a me hanno detto, che la rilettura di un romanzo può avvenire attraverso un altro romanzo, in questo caso in maniera esplicita, inaspettata e sfidante: non per smettere di amarlo, ma per tornare all’amore in un’ottica che contempli il conflitto.

Nessun commento:
Posta un commento