Andrea Binelli
James Joyce, il segreto di una vita nella varietà delle sue voci
il manifesto, 6 settembre 2025
Pare che John Joyce fosse il tipo di padre che scarica le sue frustrazioni sulla famiglia: una notte, mentre passeggiava ubriaco col figlio James, decise che era giunto il momento di impartirgli una lezione e lo fece dondolare a lungo a testa in giù dal Grattan Bridge. Nel mondo alla rovescia in cui piombò per alcuni terribili minuti, il piccolo James vide scorrere la Liffey sopra la propria testa mentre tutto intorno lo avvolgeva impotente e silenziosa la sua Dublino.
A RACCONTARLO è Edna O’Brien in un passo di James Joyce. Una vita (Einaudi, nella felice, anzi, ‘joyosa’ traduzione di Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, pp. 198, euro 19) che non forza l’aneddoto a entrare in alcuna interpretazione, nonostante quei germi così potenti e forieri di sviluppi: la paura, il fiume che molti anni dopo Joyce avrebbe osannato nel Finnegans Wake, la vita in balia di un demiurgo fragile, e l’alcool come capriccio potenzialmente letale. O’Brien preferisce serrare il ritmo del suo racconto e lasciare al lettore l’ago con cui intrecciare i fili di una eventuale coerenza, fornendogli – per parte sua – la ricostruzione narrativa della sua opera attraverso episodi, mappe, dialoghi.
Altrove, invece, la ricerca di un taglio biografico che si limita ai fatti, cede il passo al profilo psicologizzante e sentenzioso, oppure alla ratifica di una esegesi raffinata dell’opera joyciana. Attraverso questa varietà di prospettive e di voci – molto belle le pagine che si fanno specchio empatico dello stile joyciano più «smanceroso carammelloso marmellatoso e mutandinoso» – la scrittrice irlandese assembla un fastoso mosaico di immagini, ipotesi, verdetti, con cui restituisce la fenomenale traiettoria di una «meteora», disegnando la parabola di un «apostolico» dublinese, eccentrico e farfallone, a cui «le parole crepitavano in testa» mentre lo relegavano in una Babele buffa e imperscrutabile.
Infatti, spiega O’Brien in chiusura del suo lavoro, fu proprio sulle parole e su quella «scrittura maiaculata» che Joyce puntò per «stanare il segreto della vita», convinto com’era che la storia degli esseri umani non sia altro se non la storia delle parole con cui vivono e raccontano di sé. Una famiglia benestante, ma in caduta libera per via di vizi personali e scossoni esterni fa da cornice al soggetto di Edna O’Brien, che lo ritrae frenando (neanche troppo) l’indignazione per il narcisismo esagitato del padre e il servilismo beghino e severo della madre.
IL FUOCO SI SPOSTA poi sul bambino prodigio, il cocco di mamma che cresce egoista e finanche spudorato, fino a trasformarsi in un giovane livoroso, arrivista e in guerra con tre istituzioni: la corona inglese, la chiesa cattolica e la legge dei tribunali. Ma arriva presto, per l’aspirante artista, il tempo di lasciare l’Irlanda e di coltivare il proprio «eroismo interiore», poi di mettere su famiglia, o meglio quel caravanserraglio di affetti e sodali che lo sorreggeranno economicamente e non solo fra Trieste, l’Irlanda, Roma, ancora Trieste, quindi Zurigo, Parigi – dove la consacrazione pubblica permetterà a Joyce di allargare la platea dei protettori a una piccola «galassia femminile al suo servizio, la cui missione nella vita era promuovere il (suo) genio» – e infine di nuovo la Svizzera.
CHI LO VISITA negli ultimi anni lo trova debole, parla di lui come di uno «sciamano» al buio: l’ombra di un grande uomo, disse Ejzenštejn quando lo incontrò per discutere la trasposizione di Ulisse sullo schermo.
Fra i personaggi che ruotano intorno a Joyce, a risaltare meglio nel libro di O’Brien non è la figura dell’amata Nora, moglie «di un uomo di cui poteva mandare in estasi il corpo senza saperne leggere la mente», e nemmeno quella emblematica di Stanislaus, fratello sottomesso e adorante, bensì quella della figlia Lucia, cui è dedicato il capitolo più struggente che descrive l’ostinazione del padre nel negare la follia di lei. E derubricare a creatività gli scatti di rabbia, le violenze perpetrate sulla madre, la distruzione del mobilio, le fughe con uomini sconosciuti fra un’overdose e una sbronza molesta. Ogni avventura era seguita da silenzi di settimane, forse significativi dell’intensità tragica con cui Lucia reagiva ai suoi vissuti emotivi.
Joyce fece di tutto per non permettere che la figlia finisse in un istituto, e si arrese a questo destino solo alla fine dei suoi giorni.
Dopo decenni di scrittura consacrati alla rappresentazione della pazzia, viverne la presenza «nella stanza accanto» si rivelava essere – com’è ovvio – non altrettanto sostenibile. Difficile prescindere – anche quando O’Brien attacca Beckett secondo il quale l’uso delle lettere private sarebbe illegittimo – dal paragone dell’autrice con il soggetto della sua ricerca, stante anche il fatto che O’Brien ridefinì – a suo tempo – le categorie del canone irlandese, misurandosi e venendo giudicata in relazione a Joyce.
A questa tensione sembrano potersi agganciare sia il disagio verso il giovane rancoroso «dall’egocentrismo frastornante», sia la benevolenza dell’autrice verso l’«inquietante tenerezza» di Gente di Dublino, sia la considerazione verso la «reale solitudine emotiva» di Joyce, sia – infine – l’incanto ammaliante che esercitano su di O’Brien tanto l’Ulisse quanto il Finnegans Wake: «Devono per forza essere dei mostri gli scrittori?» Si chiede O’Brien: «Credo di sì», questa la risposta.
E IN COMBUTTA col Joyce più irritante e provocatore ridicolizza chi scrive ai giornali per lamentarsi della ritualità comica e grandiosa del Bloomsday. Sono giusto dei malcontenti, commenta O’Brien, e non si rendono conto di quanto sia joyciano quel loro gesto di affidare una lettera sprezzante a un quotidiano.
È questo seducente gioco di rifrazioni a rendere preziosa la biografia di James Joyce vista da Edna O’Brien, ad esempio laddove proietta sul suo autore l’idea per cui violenza e desiderio sarebbero il respiro della letteratura, oppure osserva che nelle sue opere «le donne, malgrado la loro condizione di vittime, assurgono a una superiorità morale».
La scrittrice irlandese contesta poi a Kate Millet l’idea che Joyce avrebbe coltivato il culto ingenuo della donna primitiva; anzi – osserva O’Brien – i suoi ritratti di donne sessualmente primitive, oltre alla loro nitidezza, tradiscono un’indulgenza che non accordò mai agli uomini e sono abbozzati con una «preveggenza come mai si era vista prima».
Paolo Bertinetti
Coscienza ed erranza. C'è tutto il Novecento in un giorno di giugno
La Stampa, 25 giugno 2025
Il Joyce di Edna O’Brien, brillantemente tradotto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, non è soltanto un’affascinante biografia di Joyce: è il romanzo della vita di Joyce, raccontato da una grande scrittrice, anche lei irlandese, ma venuta dal mondo rurale dell’Irlanda, mentre lui era cresciuto nella realtà urbana di Dublino, la città, disse Joyce, che se fosse andata distrutta in un qualche cataclisma avrebbe potuto essere ricostruita fedelmente in base a ciò che lui ne aveva scritto in Ulisse. Entrambi irlandesi, entrambi fuggiti in volontario esilio dall’Irlanda, bigotta e soffocante, entrambi accusati di oscenità per i loro scritti – così come lo fu, in misura minore, Samuel Beckett, il più autorevole di tutti gli ammiratori di Joyce, lo scrittore che, secondo lui, per la lingua inglese aveva la stessa importanza fondante che Dante aveva avuto per la lingua italiana.
O’Brien dedica buona parte del suo libro a infanzia, adolescenza e prima giovinezza di Joyce. Ne sottolinea gli interessi culturali manifestati sin da fanciullo e l’ambiente famigliare pesante, con una madre religiosissima, vittima di diciassette gravidanze, e un padre violento e temuto, che una volta cercò di strangolarla; ma Joyce «lo stese con un pugno e lo tenne fermo, mentre la madre scappava a casa dei vicini». Con il passare degli anni i Joyce, sempre più poveri (alla fine la dieta consisteva in tè e pane fritto), cambiarono spesso abitazione, andando a vivere in alloggi sempre più piccoli e malsani in diversi quartieri di Dublino, cosa che, suggerisce O’ Brien, gli fece conoscere così bene la città che avrebbe poi immortalato nelle sue opere.
Rispetto alle biografie canoniche, O’Brien dà molta più importanza alle figure della madre e di Nora, la donna della sua vita. La madre lo adorava, mentre lui, come risulta dalle lettere che si scambiarono, aveva un atteggiamento egoista, arrogante, a volte quasi sprezzante nei confronti di lei. Le lettere della madre, un flusso di parole quasi senza punteggiatura, costituiscono l’ispirazione stilistica, dice O’Brien, per il famosissimo ultimo capitolo di Ulisse, il “flusso di coscienza” di Molly – fermo restando che è da Nora che scaturisce «non poco della libido di Molly».
Nora, una cameriera che veniva da Galway, la cittadina dell’estremo ovest dell’Irlanda, è l’altra figura di donna a cui O’Brien giustamente dedica ampio spazio nel suo romanzo biografico. Così come lo dedica a Sylvia Beach, l’americana che gli fece pubblicare Ulisse, e a Miss Weaver, la sua mecenate, che «diede fondo al suo capitale» per poter mantenere Joyce e la sua famiglia. Il rapporto di Joyce con le donne, con le prostitute, con le sue studentesse, con le signorine e signore con cui entrò in rapporto (c’è quasi da stupirsi che Joyce non sia stato messo all’indice in nome del politicamente corretto) sono, per usare l’espressione usata da T. S. Eliot a proposito del drammaturgo Thomas Middleton, “fotografate” da O’Brien: nessuna accusa, nessuna assoluzione. Per la supposta oscenità dei suoi lavori Joyce fu messo sotto accusa da giudici e letterati (e infine assolto). Che dire della supposta oscenità dei suoi comportamenti privati? Per quanto riguarda il suo rapporto con Nora, dice O’Brien, il potere di lei su di lui «era fuori discussione e quello che aveva sulla sfera sessuale era sopraffino».
Le esperienze di vita londinese sono puntualmente messe in rapporto con molti degli episodi che compaiono nelle pagine del Ritratto dell’artista da giovane e di Ulisse, di cui O’Brien fornisce una sorta di riassunto più illuminante di quello offerto in molte dotte letture del romanzo. E questo vale anche per come presenta Finnegans Wake, La veglia di Finnegan, il libro a cui Joyce lavorò per quasi vent’anni, dal 1923 al 1938, portando agli estremi la sua totalizzante sperimentazione linguistica. Ovviamente è centrale l’attenzione per Ulisse, il libro che forse ha il più basso numero di lettori rispetto al numero di copie vendute; e che ha il giovane artista Stephen Dedalus come figura centrale della sua prima parte, la “Telemachia” (la seconda è intitolata “Odissea”, la terza “Nostos”). Il rifiuto di Joyce delle forme narrative tradizionali lo indusse a cercare (e a trovare) nello schema omerico la griglia entro la quale organizzare la sua sperimentazione linguistica e le tecniche narrative che caratterizzano il romanzo. Stephen corrisponde al figlio Telemaco del poema omerico, mentre il padre, il moderno Ulisse, compare più tardi sotto le spoglie di Leopold Bloom, piccolo “ebreo errante”, marito di Molly, cantante lirica e moglie infedele, a differenza dell’eroicamente fedele Penelope. La scelta di Joyce di avere come protagonista nella Dublino cattolica e protestante il figlio di un ebreo ungherese emigrato in Irlanda è in piena sintonia con il fatto che, secondo lui, Ulisse era «l’epopea di due razze (Israele-Irlanda)»; questo perché, dice O’Brien, Joyce si era immedesimato «con la condizione degli ebrei, “la prima razza che aveva errato per tutta la terra”, fratelli nelle disgrazie di Joyce l’errante».
Dopo i primi tre capitoli del romanzo Stephen esce di scena e lascia il posto (con l’inizio della seconda parte, “Odissea”) alla figura di Leopold Bloom, il padre, che lasciata a casa la moglie ancora addormentata, impiega la sua giornata di lavoro e di svaghi per le strade, gli uffici e i bordelli di Dublino fino a quando, giunta la sera, si ritrova con Stephen, ubriaco, e lo invita a casa sua. Qui incomincia la terza parte, “Nostos”, il ritorno. Ma poi Stephen se ne va e Bloom, coricatosi a letto, fa l’inventario dei corteggiatori che la moglie Molly ha avuto (i Proci), le bacia entrambi «i meloni del sedere», svegliandola, e le racconta la sua giornata. Dopo di che si addormenta. Dopo questo episodio, il romanzo si conclude con quello intitolato “Penelope”, affidato allo stream of consciousness di Molly, il vertice dell’invenzione linguistica joyciana. Invenzione linguistica e al tempo stesso innovazione tecnica e soluzione narrativa rivoluzionaria, con quel fiume di parole reso attraverso otto lunghissime frasi senza punteggiatura per un totale di circa quaranta pagine. Il mescolarsi dei pensieri, dei ricordi, dei desideri, delle immagini che affollano la mente di Molly danno vita a quel flusso di coscienza che costituisce uno dei più rivoluzionari segni distintivi della scrittura modernista. E che rappresenta il vertice della dirompente invenzione linguistica joyciana, caratterizzata da quei giochi di parole, acrobazie verbali, echi letterari, prestiti da altre lingue, accostamenti imprevedibili, che percorrono come fuochi d’artificio le pagine del romanzo.
A differenza degli anni trascorsi da Ulisse per i mari e le terre più lontane, le “avventure” di Bloom occupano un solo giorno, quello del 16 giugno 1904. Un giorno qualunque, ma importante per la storia personale di Joyce: è quello in cui ebbe il primo contatto fisico con Nora (che lo masturbò), la ragazza che aveva conosciuto pochi giorni prima e con cui visse per tutto il resto della sua vita. Il 16 giugno, Bloomsday, il giorno di Bloom, è diventato il giorno in cui gli ammiratori di Joyce rendono omaggio al piccolo “ebreo errante” e al suo creatore nelle forme più diverse: ad esempio, per chi è a Dublino, percorrendo l’itinerario compiuto da Bloom nella sua giornata, oppure, sia nella capitale irlandese che altrove (Asti compresa), proponendo la lettura, a turno, delle pagine dell’intero romanzo, inscenando gli episodi che meglio si prestano a una loro drammatizzazione, organizzando conferenze e dibattiti. Da trent’anni a Dublino viene organizzato un Bloomsday Festival, che però dura un’intera settimana, quella al cui interno cade il 16 giugno. In questo caso prevale l’Ufficio per il Turismo, ma altrove non così, da più di cento anni. Lo sappiamo da una lettera che Joyce scrisse a Miss Weaver il 27 giugno del 1924: c’è stato un gruppo di persone, le disse, che hanno celebrato quello che chiamano Bloom’s Day (non è un refuso: Joyce scrisse proprio così).
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