Francesca Mannocchi
La soluzione dei due Stati è al capolinea
La Stampa, 15 settembre 2025
Venerdì l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato a larga maggioranza l’approvazione di una dichiarazione che delinea «passi tangibili, vincolanti e irreversibili» verso una soluzione a due Stati tra israeliani e palestinesi. Una dichiarazione – 142 voti a favore, 10 contrari e 12 astenuti – che precede di pochi giorni l’incontro dei leader mondiali del 22 settembre a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui Gran Bretagna, Francia, Canada, Australia e Belgio dovrebbero riconoscere formalmente uno Stato palestinese. Nelle stesse ore in cui alle Nazioni Unite si votava una risoluzione per riaffermare l’urgenza della soluzione a due Stati, Benjamin Netanyahu dichiarava pubblicamente, da Ma’ale Adumim, che «non ci sarà mai nessuno Stato palestinese», aggiungendo «questo posto è nostro».
Netanyahu, a Ma’ale Adumim, ha anche ironizzato su chi continua a definire «territori occupati» le aree di Giudea e Samaria, dichiarando provocatoriamente che «sono occupati, ma da Giosuè bin Nun», evocando la conquista biblica. Bezalel Smotrich lo ascoltava sorridendo, entusiasta.
Netanyahu ha scelto il cuore simbolico e geografico di una delle colonie più strategiche della Cisgiordania, Ma’ale Adumim, per dichiarare apertamente ciò che da tempo è nei fatti. E non era solo: ha voluto al suo fianco Smotrich, leader dell’estrema destra religiosa e ministro con delega alle colonie. La loro presenza congiunta non è stata solo un’ostentazione ideologica, ma un atto politico preciso: mostrare l’accelerazione dell’annessione della Cisgiordania, consolidando una realtà che rende impossibile qualsiasi forma di sovranità palestinese.
I processi di espansione degli insediamenti stanno accelerando rapidamente: dopo 35 anni di rinvii, il governo ha recentemente approvato la costruzione di 3.400 nuove unità abitative nell’area E1, ma già se ne annunciano 3.527. Questo avviene nonostante la condanna internazionale: solo un giorno dopo, 21 Paesi – tra cui, Francia, Giappone e Australia – hanno firmato una dichiarazione congiunta contro la decisione israeliana. Per anni, i governi israeliani avevano sospeso i progetti di costruzione nell’area E1 per le pressioni internazionali, ma oggi, Netanyahu e i suoi alleati di governo stanno trasformando una minaccia in realtà.
Ma’ale Adumim è l’emblema fisico, cartografico, di ciò che nega in concreto la possibilità stessa di uno Stato palestinese: la frammentazione del territorio, la continuità spezzata, la sovranità resa impossibile, è la dimostrazione ennesima che il cortocircuito tra ciò che si afferma nei consessi internazionali e ciò che si realizza sul terreno sia diventato strutturale.
La firma dell’accordo per avviare la costruzione di migliaia di nuove unità abitative nell’area E1 – da decenni considerata una «linea rossa» persino da alleati occidentali di Israele – è un colpo deliberato al cuore della soluzione a due Stati, perché urbanizzare l’area E1 significa separare fisicamente Gerusalemme Est da Betlemme e Ramallah, spezzando ogni continuità territoriale e vanificando la possibilità di uno Stato palestinese indipendente e vitale. Quelle di Netanyahu, dunque, non sono solo dichiarazioni politiche: sono dichiarazioni d’intenti che si oppongono frontalmente al linguaggio ufficiale della diplomazia internazionale.
La fotografia che tutto questo ci consegna è che mentre le diplomazie votano “dichiarazioni di intenti” e “condanne”, i bulldozer avanzano. Mentre si invocano soluzioni negoziate, si stabiliscono “fatti compiuti” che svuotano di senso quelle stesse soluzioni. Il paradosso è che la soluzione a due Stati, lungi dall’essere un progetto radicale, è ormai diventata uno slogan ripetuto quasi meccanicamente, più per inibire un pensiero politico alternativo che per proporre una visione realistica. Netanyahu lo sa.
E lo dice apertamente: «Non ci sarà nessuno Stato palestinese. Questo posto è nostro». E lo dice mentre il mondo finge di continuare a credere nella soluzione a due Stati. E allora viene da chiedersi: a cosa serve il linguaggio della diplomazia se non ha più corrispondenza con la realtà? E se la realtà viene manipolata con tale spregiudicatezza, chi ha il coraggio di chiamarla per nome? Quando oggi le istituzioni europee e il Consiglio di Sicurezza riaffermano il proprio sostegno alla «soluzione a due Stati», lo fanno più per mascherare un fallimento che per indicare un orizzonte concreto. È una dichiarazione fatta di parole che hanno perso ogni forza prescrittiva, trasformandosi in un atto simbolico, quasi liturgico.
Si proclama ciò che non si è mai davvero voluto o saputo realizzare. Peggio: si continua a sostenere, di fatto, le condizioni che rendono quella stessa soluzione impraticabile, perché non basta affermare un principio se non si è disposti ad agire sulle sue conseguenze. Dire di volere due Stati mentre si finanzia il governo che espande gli insediamenti illegali; mentre si accettano, senza sanzioni, le dichiarazioni di chi nega esplicitamente il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese – come Netanyahu a Ma’ale Adumim – è non solo una contraddizione, è una complicità silenziosa.
La storia recente è costellata di esempi di questa incoerenza. Da anni, le istituzioni europee definiscono gli insediamenti israeliani in Cisgiordania «illegali secondo il diritto internazionale» e «ostacoli alla pace»; tuttavia, a queste parole, non sono mai seguite sanzioni, né conseguenze politiche o commerciali verso Israele. Anzi, l’Unione europea ha mantenuto – e in alcuni casi rafforzato – l’accordo di associazione con Israele, garantendo privilegi economici e scambi tecnologici, senza condizionarli al rispetto dei principi del diritto internazionale.
La filosofia politica ci insegna che il linguaggio politico è performativo solo quando è legato all’azione. Senza atti conseguenti, le parole diventano strumenti di oblio, non di trasformazione, perciò dire «due Stati» è diventato un modo per non dire: per non affrontare la realtà attuale di apartheid, per non intervenire su quella realtà che si è lasciata consolidare giorno dopo giorno. Questa è la vera crisi della soluzione a due Stati: non solo l’impossibilità concreta di realizzarla, ma il suo svuotamento semantico.
Due Stati oggi è diventata una formula vuota, pronunciata da chi non crede più alla sua possibilità ma non vuole assumersi la responsabilità di dichiararne il fallimento, è una posizione difensiva, non propositiva; e spesso è funzionale a evitare di prendere misure contro chi quella soluzione la sabota ogni giorno con politiche di annessione, segregazione e sfollamento forzato.
Il sostegno a quella che fu una proposta di giustizia oggi rischia di diventare un alibi dell’inerzia. Se l’Europa vuole ancora credere in quel modello, ha il dovere non solo di dirlo, ma di agire: riconoscendo la responsabilità di chi lo ostacola, sanzionando le violazioni del diritto internazionale, smettendo di separare la diplomazia dalla coerenza morale. Altrimenti, la “soluzione a due Stati” rimarrà non un progetto, ma una frase vuota, ripetuta per lavarsi la coscienza.

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