Francesca Mannocchi
Medio Oriente, se anche le parole vanno in guerra
La Stampa 16 settembre 2025
Ieri il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha pubblicato sui suoi social un video che mostra una torre bombardata nella Striscia di Gaza, e la didascalia: «la torre del terrore al Ghafri si schianta in mare. Stiamo soffocando i focolai di terrorismo». Il giorno prima aveva pubblicato un video che mostra la distruzione dell’Università Islamica a Gaza City, la cui didascalia recita: eliminare le fonti di incitamento e terrorismo.
L'esercito israeliano si prepara a un’occupazione su vasta scala di Gaza City, intensificando le operazioni nel cuore urbano della Striscia, distruggendo torri residenziali e sedi universitarie che fungevano da rifugio per gli sfollati, emerge con sempre maggiore chiarezza che anche il linguaggio usato dal governo israeliano è un tassello dell’arsenale.
Un linguaggio che non si limita, cioè, ad accompagnare l’avanzata militare ma la precede, ne costruisce la narrazione, ne plasma la legittimità e ne previene il dissenso, un linguaggio che è dispositivo della guerra in grado di tradurre un’invasione annunciata in una misura difensiva, e la distruzione sistematica di un’intera città in un’operazione chirurgica di “sicurezza”. Un linguaggio per cui ogni crimine è nascosto dietro la retorica della guerra al terrore.
Sempre due giorni fa, sempre il ministro della Difesa Katz, pubblicando il video dell’ennesimo palazzo residenziale disintegrato dalle bombe israeliane, aveva scritto: «House of cards. The skyline of Gaza is changing». Il profilo urbano di Gaza, ci dice Katz, sta cambiando. Un messaggio (all’opinione pubblica interna e agli alleati) che va oltre la retorica bellica: Gaza non è più una città, ma un obiettivo da demolire, non più spazio urbano abitato, ma materiale da spianare. Quella che Katz chiama «trasformazione» è in realtà l’annientamento di Gaza City e il cambiamento dello «skyline» è la distruzione della sua identità.
«House of cards. The skyline of Gaza is changing» è una frase che sintetizza la brutalità della strategia militare, un lessico che non è un sottoprodotto della violenza, una sua conseguenza, al contrario è essa stessa azione bellica, non accidentale ma sofisticata, pervasiva. Precede l’attacco, lo legittima e lo spettacolarizza.
Chi controlla le parole, controlla la realtà percepita, lo sa bene Netanyahu come lo sapevano i suoi predecessori. Negli anni, ma con particolare spudoratezza negli ultimi 23 mesi, la politica israeliana - guidata da Benjamin Netanyahu e sostenuta da alcune delle frange più estreme del suo governo - ha operato una sistematica manipolazione linguistica con un obiettivo preciso: piegare il linguaggio per giustificare atti di occupazione, di repressione e sfollamento.
Questo uso strategico della parola, che non è neutro, rappresenta una forma sofisticata di violenza simbolica: serve cioè a ridefinire la realtà in termini accettabili per l'opinione pubblica interna ed esterna, dissimulando la portata morale e giuridica delle azioni compiute e – nel caso dell'offensiva a Gaza – cercando di mascherare i veri obiettivi della guerra, non liberare la Striscia da Hamas, ma occuparla militarmente e sfollare forzatamente i palestinesi che la abitano.
È sullo slittamento tra parole e realtà che si gioca da anni la legittimazione della condotta di Israele, uno slittamento che ha paralizzato la comunità internazionale, incapace troppo a lungo di trovare il coraggio per smascherare un inganno.
Nella narrazione israeliana dominante, da decenni, i territori palestinesi occupati sono territori “contesi”, così da delegittimare lo status giuridico dell’occupazione, le barriere di separazione sono “muri di sicurezza” per i cittadini israeliani, la detenzione senza processo diventa “arresto amministrativo” per rendere l’abuso un tecnicismo, le aggressioni dei coloni diventano incidenti per rimuovere la disparità di potere, celare la violenza unilaterale e creare l’impressione di una simmetria che, però, non esiste. La parola uccidere viene sostituita da “neutralizzare”, per disumanizzare l’avversario e rendere accettabile, persino neutro, l'uso della forza.
Per decenni questa torsione del linguaggio ha reso accettabile l'inaccettabile, trasformando la segregazione, l'annessione, gli abusi e l'uso sproporzionato della forza in necessità. Oggi Netanyahu, che si rivolge a due pubblici diversi - quello interno, sempre più radicalizzato, e quello internazionale, sempre più scettico - modula la sua retorica in modo bifronte.
Parla internamente di «diritto storico» di «conquista biblica» mentre all’esterno, ripete gli slogan della «lotta al terrorismo», della «legittima difesa». Ma entrambi i registri hanno lo stesso obiettivo: normalizzare l’eccezione, rendere dicibile l’indicibile e far apparire inevitabile ciò che è, in realtà, una scelta politica precisa: il controllo permanente di Gaza, la cancellazione della prospettiva di uno Stato palestinese, l’annientamento dell’autodeterminazione.
Le parole definiscono ciò che è normale, ciò che è deviante, ciò che è accettabile, ed è soprattutto in tempi di crisi che il potere accentua il controllo discorsivo, che non si limita a bombardare ma costruisce prima l’idea che ciò che sta bombardando sia il male assoluto. Così e solo così il campo semantico si può restringere (e con lui la morale), chi muore non è più un bambino ma un danno collaterale, chi fugge non più un profugo ma un potenziale scudo umano. Michel Foucault, filosofo della genealogia del sapere e del potere, ci ha insegnato che non c'è verità innocente, che ogni discorso è l’effetto di una relazione di potere, e che ciò che chiamiamo realtà è, spesso, una costruzione linguistica.
Questo vale anche - forse soprattutto - in tempo di guerra. Quando Netanyahu o i portavoce dell’Idf parlano di «zona umanitaria» per riferirsi a un’area bombardata e poi destinata a ricevere migliaia di civili sfollati, stanno manipolando il linguaggio: non è una zona umanitaria, è una zona di deportazione forzata, spesso non sicura.
Quando si parla di «migrazione volontaria» da Gaza, si omette deliberatamente che i civili vengono indotti con la minaccia della morte a lasciare le proprie case. Quando si definisce ogni struttura ospedaliera come «centro operativo terroristico», si disumanizza la funzione medica per legittimare il bombardamento. In questa cornice, Gaza City è stata recentemente descritta come un «rifugio di terroristi». In realtà, è una città con oltre mezzo milione di abitanti, molti dei quali civili, donne, bambini.
Definirla solo come un «nido di Hamas» serve a costruire una narrazione in cui ogni colpo sparato è giustificato. È la teoria foucaultiana del potere: si tratta di produrre una verità, una verità che autorizzi l’abuso, che neutralizzi il dissenso e che, venendo ai nostri giorni, trasformi una campagna militare in una missione moralmente legittima. Il linguaggio del potere agisce così: costruendo categorie morali, creando gerarchie di umanità, e distinguendo tra chi può essere ucciso e chi va protetto. È questo il cuore del potere discorsivo. E non metterlo in discussione significa esserne complici.

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