sabato 6 settembre 2025

Un comunista italiano

 

Dante Conte

Nato a Torino il 13 aprile 1897, deceduto a Torino il 9 marzo 1979, meccanico, dirigente
comunista.

Era stato molto attivo a Torino durante le lotte operaie tra il 1915 e il 1920 e,
particolarmente, durante l’occupazione delle fabbriche.

Diventato comunista alla fondazione del partito, il meccanico dopo l’emanazione delle
“leggi eccezionali”, nel 1926, accentuò la sua attività clandestina sino a che, nel 1928, fu
arrestato e condannato a 6 anni e sei mesi di carcere.

Liberato nel 1932 in seguito alla cosiddetta “amnistia del Decennale”, Dante Conte riprese
subito il suo impegno antifascista clandestino che gli valse, due anni dopo, un nuovo
arresto e un nuovo processo dinnanzi al Tribunale speciale, che questa volta gli comminò
una condanna a 14 anni.

Conte non li scontò tutti, grazie alla caduta di Mussolini e l’8 settembre 1943 era già tra
gli organizzatori della Resistenza in Piemonte e in Liguria, dove divenne comandante
delle SAP e commissario politico delle Brigate d’assalto Garibaldi della piazza di Genova.

Dopo la Liberazione, tornato a Torino, Conte è stato per anni apprezzato dirigente di
quella Federazione del PCI.










Giovanni Destefanis, La memoria corta, Ediesse, Roma 1999

p. 89 Al cinema Alpi era iniziata la serie di film americani, inglesi e francesi di recupero.
Eravamo indietro di cinque anni. Le due sale erano sempre piene di gente in silenzio, e di
fumo. Al cine-teatro Romano lo spettacolo doppio, film e varietà, s'era adeguato ai tempi
nuovi, ma ballerine e "vedettes" erano le stesse. A fine d'ogni quadro - come quando nelle
prime file c'erano i giovani "habitués" repubblichini vocianti - rompendo il ritmo
dell'ultimo "défilé", si chinavano ancora a raccogliere le sigarette lanciate sulle tavole
della passerella, mostrando le natiche e diffondendo il solito cattivo odore di cipria e di
sudore.

Fu parlando del teatro Rossini e dell'opera lirica, del Romano e delle ballerine che
incominciò l'amicizia con Dante Conte, per quanto la differenza di età permetteva
[Giovanni Destefanis era nato nel 1930].
L'avevo conosciuto, funzionario della sezione, in una delle prime riunioni di giovani
operai al circolo Bravin, la ex sede fascista di corso Stupinigi, che ora ospitava i
comunisti, i socialisti e il sindacato della zona Mirafiori. Mi aveva mandato da lui il mio
commissario di reparto: Giovanni Audisio, detto "Bala grosa" (palla grossa); un anziano
operaio addetto alla limatrice, fortemente strabico, magro, con la dentatura interamente
d'acciaio. 

p. 93 Ero curioso di capire meglio chi erano e cosa facevano i comunisti e Dante
amava conversare. Dante era vicino alla cinquantina, roseo e un po' pingue, pacato e
bonario. Amava la lirica e presiedeva all'attività dei comunisti della zona, con un
occhio particolare per la Mirafiori e per il Lingotto. Non aveva niente dell'aspetto e
dell'immagine eroica del 
rivoluzionario di professione. Pareva un tranquillo e realizzato
rappresentante di commercio, 
vicino a ritirarsi.
Dalle ballerine del Romano era passato a raccontare, a puntate, nei pomeriggi in cui lo
andavo a trovare, di come era fuggito in diverse occasioni alle retate nei teatri, cinema, 
stazioni ferroviarie e case di tolleranza di Torino, Genova e Milano. Ne parlava al presente, 
come si dovesse ancora verificare e convenisse trasmettere e tenere in serbo gli
insegnamenti. Il buon clandestino aveva abiti e portamento di benestante, doveva essere
solo, non armato, con documenti falsi ma ineccepibili, una copertura professionale che 
giustificasse il denaro importante in portafoglio.
Nel caso di controlli doveva rispondere con calma e sicurezza alle domande, senza
affrettarsi n
ad allontanarsi. Rapido, invece, se era necessario far perdere le tracce.
Dante non era un oratore. Usava parlare lento e piano e intercalare la conversazione con 
affettuosi "mè fiol2 (figlio mio), lungo l'articolazione di ragionamenti di buon senso, con
secchi "Bernard!" per punteggiare conclusioni importanti. A volte, soprappensiero,
attaccava un brano d'opera, una romanza, con bella voce tenorile. 
Arrestato e condannato dal tribunale speciale nel 1934, con un gruppo di comunisti di cui 
facevano parte Luigi Capriolo e Leopoldo "Leo" Lanfranco, era uscito dal carcere dieci
anni 
dopo, "mè fiol", nel '42. Membro del comitato che agiva nel nord Italia - con lui ne
facevano 
parte Giorgio Caretto, Egisto Cappellini, Nella Marcellino, Rina Picolato,
Angelo Loris - 
diretto da Umberto Massola, aveva ripreso l'attività di organizzatore
clandestino per il 
Piemonte fino alla liberazione. 
Dante evitava di parlare di politica in senso astratto e generale. Non esprimeva quel
concitato interesse per gli avvenimenti politici, sociali o parlamentari del giorno, che 
infervoravano febbrilmente buona parte degli attivisti e funzionari che andavo conoscendo,
alcuni dei quali cercavano o intravedevano possibili segnali rivoluzionari in eventi
quotidiani sovente enfatizzati dagli eccessi di agitazione politica de "L'Unità" e "L'Avanti".
Si informava piuttosto di fatti spiccioli: degli umori sul salario, delle trasformazioni del 
lavoro in corso, di come veniva accettata la introduzione di misure di controllo della 
produzione e della disciplina. Era già in atto la schermaglia contro la decisione
dell'azienda 
di ripristinare l'obbligo di timbrare la cartolina oraria a inizio e fine turno.
La pratica, abolita di fatto negli ultimi mesi di guerra, era ricominciata: sotto la pressione
della direzione, avevano ceduto prima i capi squadra e gli impiegati, poi qualche operaio. 
Scivolava sovente e volentieri nei racconti del carcere. Da come vi tornava pareva segnato;
legato al passato che gli aveva sottratto il meglio di anni preziosi. 
Si era difeso - raccontava - leggendo, cantando le romanze dei melodrammi preferiti,
facendo un po' di moto in cella e all'aria aperta, cercando di non ossessionarsi per la 
mortificante e penosa ossessione sessuale che, "mè fiol", tormentava i prigionieri.
Durante gli interrogatori, e dopo il processo e la condanna, nelle proteste interne al regime
carcerario o nei trasferimenti, andavano evitati atteggiamenti di ribellione nervosismi o 
tentazioni di aperta provocazione. Potevano portare in cella di isolamento; in qualche caso,
a subire violenze fisiche. 
Dante aveva sperimentato situazioni del genere e adeguato i comportamenti in modo da 
allontanarne l'eventualità, pur sapendosi in grado di reggere senza uscirne sconvolto o 
nevrotizzato. Perché, "mè fiol", sotto la violenza c'era stato chi aveva ceduto, chi era sceso
a compromessi deteriori e, peggio, a confessioni o delazioni, rimanendone spezzato,
escluso 
con disprezzo e senza rimedio dalla comunità carceraria. 
Se non si sopportavano violenze fisiche, si era più esposti, vulnerabili alle sole minacce.
Questi aspetti cruenti della lotta politica e della sopraffazione dei vincenti, raccontati da
un 
testimone diretto, mi impressionavano e suggestionavano. Non era lo sgomento
paralizzante 
delle fotografie che rivelavano l'orrore, quasi inconcepibile dei campi di
sterminio nazisti. 
Lì ciò che era stato fatto all'uomo e dell'uomo era senza limiti e senza
speranza.

Il fatto che Dante fosse uscito integro anche se stanco e distaccato, pur evocando oscure
paure, disponeva difese possibili - era possibile resistere alle violenze fisiche? -.
Riemergevano più comprensibili angosce infantili, trasmesse da racconti uditi e vissuti
come 
remoti e impersonali, confusamente avvertiti come pericoli per i miei cari e rimossi: l'olio di
ricino e le bastonature delle spedizioni punitive degli squadristi, l'umiliazione della dignità 
della persona, l'obbligo di iscriversi al partito fascista, il carcere, l'esilio, l’assassinio
politico.






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