Dante Conte
Era stato molto attivo a Torino durante le lotte operaie tra il 1915 e il 1920 e,
particolarmente, durante l’occupazione delle fabbriche.
Diventato comunista alla fondazione del partito, il meccanico dopo l’emanazione delle
“leggi eccezionali”, nel 1926, accentuò la sua attività clandestina sino a che, nel 1928, fu
arrestato e condannato a 6 anni e sei mesi di carcere.
Liberato nel 1932 in seguito alla cosiddetta “amnistia del Decennale”, Dante Conte riprese
subito il suo impegno antifascista clandestino che gli valse, due anni dopo, un nuovo
arresto e un nuovo processo dinnanzi al Tribunale speciale, che questa volta gli comminò
una condanna a 14 anni.
Conte non li scontò tutti, grazie alla caduta di Mussolini e l’8 settembre 1943 era già tra
gli organizzatori della Resistenza in Piemonte e in Liguria, dove divenne comandante
delle SAP e commissario politico delle Brigate d’assalto Garibaldi della piazza di Genova.
Dopo la Liberazione, tornato a Torino, Conte è stato per anni apprezzato dirigente di
quella Federazione del PCI.
Giovanni Destefanis, La memoria corta, Ediesse, Roma 1999
p.
89 Al cinema Alpi era iniziata la serie di film americani, inglesi e
francesi di recupero.
Eravamo indietro di cinque anni. Le due
sale erano sempre piene di gente in silenzio, e di
fumo. Al
cine-teatro Romano lo spettacolo doppio, film e varietà, s'era
adeguato ai tempi
nuovi, ma ballerine e "vedettes"
erano le stesse. A fine d'ogni quadro - come quando nelle
prime
file c'erano i giovani "habitués" repubblichini vocianti -
rompendo il ritmo
dell'ultimo "défilé", si
chinavano ancora a raccogliere le sigarette lanciate sulle
tavole
della passerella, mostrando le natiche e diffondendo
il solito cattivo odore di cipria e di
sudore.
Fu
parlando del teatro Rossini e dell'opera lirica, del Romano e delle
ballerine che
incominciò l'amicizia con Dante Conte, per quanto
la differenza di età permetteva
[Giovanni Destefanis era nato
nel 1930].
L'avevo conosciuto, funzionario della sezione, in una
delle prime riunioni di giovani
operai al circolo Bravin,
la ex sede fascista di corso Stupinigi, che ora ospitava i
comunisti,
i socialisti e il sindacato della zona Mirafiori. Mi aveva
mandato da lui il mio
commissario di reparto: Giovanni
Audisio, detto "Bala grosa" (palla grossa); un
anziano
operaio addetto alla limatrice, fortemente
strabico, magro, con la dentatura interamente
d'acciaio.
p.
93 Ero curioso di capire meglio chi erano e cosa facevano i comunisti
e Dante
amava conversare. Dante era vicino alla
cinquantina, roseo e un po' pingue, pacato e
bonario. Amava
la lirica e presiedeva all'attività dei comunisti della zona, con
un
occhio particolare per la Mirafiori e per il Lingotto.
Non aveva niente dell'aspetto e
dell'immagine eroica
del rivoluzionario
di professione. Pareva un tranquillo e realizzato
rappresentante di
commercio, vicino
a ritirarsi.
Dalle
ballerine del Romano era passato a raccontare, a puntate, nei
pomeriggi in cui lo
andavo
a trovare, di come era fuggito in diverse occasioni alle retate nei
teatri, cinema,
stazioni
ferroviarie e case di tolleranza di Torino, Genova e Milano. Ne
parlava al presente,
come
si dovesse ancora verificare e convenisse trasmettere e tenere in
serbo gli
insegnamenti.
Il buon clandestino aveva abiti e portamento di benestante, doveva
essere
solo,
non armato, con documenti falsi ma ineccepibili, una copertura
professionale che
giustificasse
il denaro importante in portafoglio.
Nel
caso di controlli doveva rispondere con calma e sicurezza alle
domande, senza
affrettarsi nad
allontanarsi. Rapido, invece, se era necessario far perdere le
tracce.
Dante
non era un oratore. Usava parlare lento e piano e intercalare la
conversazione con
affettuosi
"mè fiol2 (figlio mio), lungo l'articolazione di ragionamenti
di buon senso, con
secchi
"Bernard!" per punteggiare conclusioni importanti. A volte,
soprappensiero,
attaccava
un brano d'opera, una romanza, con bella voce tenorile.
Arrestato
e condannato dal tribunale speciale nel 1934, con un gruppo di
comunisti di cui
facevano
parte Luigi Capriolo e Leopoldo "Leo" Lanfranco, era uscito
dal carcere dieci
anni dopo,
"mè fiol", nel '42. Membro del comitato che agiva nel nord
Italia - con lui ne
facevano parte
Giorgio Caretto, Egisto Cappellini, Nella Marcellino, Rina Picolato,
Angelo Loris - diretto
da Umberto Massola, aveva ripreso l'attività di organizzatore
clandestino per il Piemonte
fino alla liberazione.
Dante
evitava di parlare di politica in senso astratto e generale. Non
esprimeva quel
concitato
interesse per gli avvenimenti politici, sociali o parlamentari del
giorno, che
infervoravano
febbrilmente buona parte degli attivisti e funzionari che andavo
conoscendo,
alcuni
dei quali cercavano o intravedevano possibili segnali rivoluzionari
in eventi
quotidiani
sovente enfatizzati dagli eccessi di agitazione politica de "L'Unità"
e "L'Avanti".
Si
informava piuttosto di fatti spiccioli: degli umori sul salario,
delle trasformazioni del
lavoro
in corso, di come veniva accettata la introduzione di misure di
controllo della
produzione
e della disciplina. Era già in atto la schermaglia contro la
decisione
dell'azienda di
ripristinare l'obbligo di timbrare la cartolina oraria a inizio e
fine turno.
La
pratica, abolita di fatto negli ultimi mesi di guerra, era
ricominciata: sotto la pressione
della
direzione, avevano ceduto prima i capi squadra e gli impiegati, poi
qualche operaio.
Scivolava
sovente e volentieri nei racconti del carcere. Da come vi tornava
pareva segnato;
legato
al passato che gli aveva sottratto il meglio di anni preziosi.
Si
era difeso - raccontava - leggendo, cantando le romanze dei
melodrammi preferiti,
facendo
un po' di moto in cella e all'aria aperta, cercando di non
ossessionarsi per la
mortificante
e penosa ossessione sessuale che, "mè fiol", tormentava i
prigionieri.
Durante
gli interrogatori, e dopo il processo e la condanna, nelle proteste
interne al regime
carcerario
o nei trasferimenti, andavano evitati atteggiamenti di ribellione
nervosismi o
tentazioni
di aperta provocazione. Potevano portare in cella di isolamento; in
qualche caso,
a
subire violenze fisiche.
Dante
aveva sperimentato situazioni del genere e adeguato i comportamenti
in modo da
allontanarne
l'eventualità, pur sapendosi in grado di reggere senza uscirne
sconvolto o
nevrotizzato.
Perché, "mè fiol", sotto la violenza c'era stato chi
aveva ceduto, chi era sceso
a
compromessi deteriori e, peggio, a confessioni o delazioni,
rimanendone spezzato,
escluso con
disprezzo e senza rimedio dalla comunità carceraria.
Se
non si sopportavano violenze fisiche, si era più esposti,
vulnerabili alle sole minacce.
Questi
aspetti cruenti della lotta politica e della sopraffazione dei
vincenti, raccontati da
un testimone
diretto, mi impressionavano e suggestionavano. Non era lo sgomento
paralizzante delle
fotografie che rivelavano l'orrore, quasi inconcepibile dei campi di
sterminio nazisti. Lì
ciò che era stato fatto all'uomo e dell'uomo era senza limiti e
senza
speranza.
Il
fatto che Dante fosse uscito integro anche se stanco e distaccato,
pur evocando oscure
paure,
disponeva difese possibili - era possibile resistere alle violenze
fisiche? -.
Riemergevano
più comprensibili angosce infantili, trasmesse da racconti uditi e
vissuti
come remoti
e impersonali, confusamente avvertiti come pericoli per i miei cari e
rimossi: l'olio di
ricino
e le bastonature delle spedizioni punitive degli squadristi,
l'umiliazione della dignità
della
persona, l'obbligo di iscriversi al partito fascista, il carcere,
l'esilio, l’assassinio
politico.


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