Brunella Giovara
La lezione inascoltata della disfatta di Caporetto: "oggi l'orrore è lo stesso"
la Repubblica, 28 settembre 2025
Ci sono sprazzi di sangue, ma sono le bacche del frassino, qui sulla strada che sale al monte Kolovrat. E poi la strada finisce, si cammina in mezzo ai cespugli sullo sterrato militare che porta in cresta, e arriva quindi il paesaggio incredibile. Il luogo del disastro italiano, in un silenzio totale, neanche un uccello che voli su questi camminamenti ancora perfetti, i bunker e i passaggi coperti dalle vecchie assi. Sotto c’è Caporetto. Kobarid, perché oggi è Slovenia. Un posto tranquillo, che è stato l’inizio della fine di una guerra tremenda, e perciò ha un senso visitare anche i posti inquietanti che sono le trincee, i cippi coperti di muschio, gli ossari.
I segni della disfatta italiana, poi diventata proverbio. Un esercito in rotta, che in tre giorni di battaglia perse 40mila uomini tra morti e feriti, 260mila prigionieri, 350mila soldati sbandati, e 500mila civili costretti alla fuga, vecchi donne e bambini profughi del Friuli e del Veneto, un popolo in marcia per la vita, mentre qualcuno scriveva su un muro la frase famosa: «O il Piave, o tutti accoppati». Cento e più anni fa — era il 24 ottobre 1917 — cominciò quella fuga a mostruoso dietrofront, e mai come in questi tempi di nuove guerre conviene tornare sull’enorme museo all’aperto, anzi il cimitero all’aperto che è stato il fronte dell’Isonzo, camminando su uno dei trenta itinerari di questa Walk of Peace, organizzata da Italia e Slovenia, con epicentro Caporetto.
Il sacrario di Redipuglia (Gorizia)
Trenta sentieri di pace, da fare comodi con la famiglia, o con zaino e scarponi, con diverse difficoltà anche alpinistiche, perché si combatteva in montagna più che in pianura. Da Log Pod Mangartom fino a Trieste, lungo 500 chilometri di cammino. Pellegrinaggio, quasi. Storico, volendo anche spirituale, non fosse che per le migliaia di sepolture poi raccolte e riordinate nei monumenti come il sacrario di Redipuglia, quei 22 gradoni che salgono verso il cielo (con l’iscrizione ossessiva e maiuscola: Presente, Presente, Presente…), nell’architettura trionfale degli architetti fascisti. Un trionfo della morte, fatto di 40mila soldati caduti, e con nome e cognome, e 60mila mai riconosciuti, ignoti per sempre. Inaugurato da Mussolini nel 1938, nei giorni in cui aveva annunciato le leggi razziali, e non lontano da qui. A Trieste.
E tornando sul monte Kolovrat, qui passeggiava tutto contento un uomo che sarebbe diventato famoso come la “Volpe del deserto”, allora tenente dell’esercito tedesco Erwin Rommel, al comando delle sue truppe di montagna, espugnò in souplesse il Matajur, e da lì in avanti, proseguì per 150 chilometri fino al Piave. Stupisce, in quel silenzio che sempre si sente nei teatri di guerre passate, tra i sassi bianchi e vecchi chiodi, pezzi di filo spinato, e ancora si raccolgono bossoli, stupisce l’impressionante somiglianza con il paesaggio delle guerre attuali. Il fronte del Donbass, dove si combatte un’uguale guerra di trincea, con i rispettivi scavi a dieci metri di distanza, russi e ucraini che si sentono parlare e anche sospirare, è successo qualcosa del genere a Bakhmut, e anche a Chasiv Yar.
L’orrore è sempre quello, non è cambiato niente a parte la nuova arma dei droni, e lo racconta il curatore del Museo di Caporetto, Jaka Fili, che ha solo 35 anni ma sa tutto: «Non c’erano anestetici, i chirurghi operavano i pazienti svegli, persino al cervello». Aggiunge che la maggioranza moriva sotto i ferri, talvolta stordita dall’alcol, o per setticemie inevitabili, e quindi morivano quasi tutti. I sopravvissuti, deformi, i volti stravolti dalle mancanze, no naso, no bocca, no occhi... «spesso si suicidavano, era impossibile vivere in queste condizioni». Mostra i mezzi medievali con cui si cercavano di uccidere i nemici: una gigantesca trappola da orso, usata per gli umani. I pugnali, le mazze per finire con un colpo alla testa. Emerge il ricordo di film famosi, “Uomini e no”, con i disgraziati mandati all’assalto con le assurde corazze Farina. Il generale in visita alla trincea, che il cecchino austriaco non riesce a uccidere (la sua truppa sarebbe solo contenta). E “La Grande Guerra” dei soldati stracciati e sempre affamati, i cialtroni Sordi e Gassman sperduti da qualche parte su questo fronte, infine fucilati.
Fili mostra una foto del 1915, un gruppo di soldati sul Monte Nero, già malridotti. Altre immagini, soldati arrabbiati, foto clandestine «perché nelle foto ufficiali i soldati dovevano sempre sorridere». Ma era così dura, sopravvivere su questi monti, nella neve alta tre metri, con il rancio freddo delle casse di cottura che qui sono esposte, che robe miserabili. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, scriveva Giuseppe Ungaretti, che nel 1966 venne portato sul Monte San Michele, e non lo riconobbe: «Adesso è verde…». Allora era pelato, morto, finito, e così è rimasto per anni, poi gli alberi hanno cominciato a ricoprire i crateri e le fosse, e adesso è tornato pelato, disboscato per bene, e così si è tornati al panorama autentico del 1917. Lo stesso potrebbe succedere altrove, nei luoghi famosi delle battaglie, ma altrove è già tutto com’era allora, al tempo della dodicesima battaglia dell’Isonzo, quella fatale. La grotta Pecinka, prima in mani austroungariche, poi italiane. Un posto sicuro per dormire, forse il posto più sicuro del Carso. Il parco della Pace di Sabotino, l’Ossario tedesco di Tolmin, la ferrovia Feldban, a scartamento ridotto, tra gli abeti che sono ricresciuti.
«Il fuoco sia sterminatore!», «Noi contrattaccheremo!». Davanti a 600 persone (i posti gratuiti sono andati via, online, in meno di un minuto), lo storico star Alessandro Barbero legge i dispacci dei generali degeneri, i documenti che ha trovato e studiato per scrivere il libro “Caporetto” del 2017. Legge anche lo scritto di Gadda, ufficiale degli alpini, che li definisce «asini, buoi grassi, non guerrieri». In che modo si sia riuscita a vincere questa guerra, lo storico sottolinea che «fu vinta a sorpresa», e poi «tutti bruciavano vite a ritmo impressionante». Migliaia di cadaveri, per lo più a pezzi, e quindi ancora talvolta emergono tibie e teste di femori, i giovani recuperanti che ancora battono questi posti trovando elmetti, giberne, bottoni, bossoli, talvolta si rigirano tra le mani un osso annerito da cento e passa anni, e lo postano su Instagram, o su Tik Tok.



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