sabato 13 settembre 2025

Tradurre Salinger

Franco Nasi
Salinger, capriole linguistiche degne dei pescibanana 

il manifesto Alias, 7 settembre 2025

D’improvviso, soprattutto in taxi, al giovane Holden viene in mente una domanda, che si fa ricorrente: dove vanno le anatre del laghetto vicino a Central Park South quando l’acqua gela? Ai taxisti, in genere, la questione sembra stupida e inconcludente. Uno di loro, con un forte accento newyorkese, zittisce Holden: «What’re ya tryna do, bud? Kid me?» (che nella versione di Matteo Colombo (Einaudi 2014) diventa: «Ma che domanda è? Mi prendi in giro, bello?»). Un altro, spazientito, risponde rilanciando: «I pesci. Loro non vanno da nessuna parte. Restano dove sono, i pesci. In quell’accidente di lago», perché «i pesci ci vivono in quel cazzo di lago, è la loro natura, Cristo».

In un saggio illuminante sul tradurre del 1959, intitolato The Added ArtificerL’artefice aggiunto, Renato Poggioli ricordava come l’equivalente letterario della esecuzione musicale sia la traduzione. Una domanda ingenua, sebbene meno bizzarra di quella di Holden, potrebbe essere: perché se esistono uno spartito musicale autografo e un’ottima registrazione della sua più fedele esecuzione, se ne continuano a proporre di nuove? Per tutta risposta, ci si può spazientire come i taxisti newyorkesi, o cercare di mettere in fila una serie di motivi che giustificano l’esistenza di nuove registrazioni: cambiano i tempi, i sistemi di registrazione, le sonorità degli strumenti, l’abilità dei musicisti, la sensibilità interpretativa, e così via. Ci sono poi le esigenze del mercato, la necessità di rilanciare testi che non vendevano più come un tempo. Si tratta, comunque, di tradurre in atto qualcosa che è in potenza nella partitura (o nel testo) far presente qualcosa che è del passato, non certo giustiziare e congelare per sempre.

Storia delle diverse versioni

Torniamo a The Catcher in the Rye di J.D. Salinger: la prima traduzione, firmata da Jacopo Darca (alias Corrado Pavolini) uscì per l’editore Casini nel 1952, un solo anno dopo la prima edizione americana del libro, con il titolo Vita da uomo, senza lasciare un segno così profondo come avvenne con la successiva traduzione di Adriana Motti, che scelse come titolo Il giovane Holden e divenne, per intere generazioni di adolescenti, una sorta di libro identitario. La terza traduzione, affidata a Matteo Colombo era sembrata necessaria perché la lingua marcatamente gergale e giovanilistica di Holden mostrava nella versione, peraltro meritoria di Motti, la sua età, cosa che non si avvertiva così tanto leggendo l’originale inglese. Potrebbe apparire paradossale perché tutte le lingue invecchiano; ma non tutte invecchiano nello stesso modo (e la storia di quella italiana come lingua d’uso, con la codificazione di vari registri, è piuttosto particolare); inoltre non tutte le traduzioni durano, soprattutto quando non sono opere con una forte valenza estetica, capaci di imporsi come modelli linguistici e letterari autonomi.

La traduzione di The Catcher in the Rye aveva senza dubbio bisogno di una rivitalizzazione linguistica, e Colombo è riuscito assai bene nell’impresa di accordarsi al ritmo serrato, spontaneo, fluido del narratore e restituire con coerenza stilistica la grana informale, idiomatica, orale, ma fortemente individuale del diciasettenne Holden. Il compito deve essergli sembrato ancora più difficile quando Einaudi ha deciso di affidargli la nuova traduzione delle altre opere di Salinger fin qui pubblicate dall’editore torinese, cioè tutte quelle uscite in volume negli Stati Uniti e autorizzate dall’autore prima del suo ritiro dalla vita pubblica nell’eremo in New Hempshire. Compito difficile perché le prime versioni uscite a ridosso della pubblicazione americana erano opera di traduttori autorevoli come Carlo Fruttero (Nove racconti, 1962), Romano Carlo Cerrone e Ruggero Bianchi (Franny e Zooey, 1963) e ancora Cerrone per Alzate l’architrave, Carpentieri e Seymour. Introduzione (1965).

Almeno da quanto risulta da un primo confronto fra le diverse versioni, sembra che Colombo, quando non necessario, abbia lodevolmente fatto a meno di produrre quegli inutili salti mortali per trovare sinonimi a tutti i costi diversi da quelli delle traduzioni precedenti. Ma rispetto a Holden, qui il compito era ancora più difficile per la varietà di stili che Salinger utilizza nei diversi racconti, allo scopo di dare un’anima e un corpo singolari a ciascuno dei personaggi, i quali acquistano una loro identità indimenticabile soprattutto attraverso i loro dialoghi o monologhi. I tre libri sono esemplari e innovativi, non soltanto per gli argomenti che affrontano, dalla filosofia orientale alla religione, dalla poesia al trauma post bellico, o per il modo sarcastico e tagliente con cui raccontano l’America consumistica e ipocrita degli anni Quaranta-Cinquanta, ma proprio per il lavoro certosino, maniacale, che Salinger svolge sulla lingua dei suoi personaggi e per l’architettura non lineare, bensì per frammenti, con cui è tratteggiata la saga della numerosa famiglia Glass. Una saga – come nota lo stesso autore in una delle pochissime note paratestuali che accompagnano la pubblicazione della prima edizione americana di Franny and Zooey del 1961 – che costituisce il progetto cardine della sua attività di narratore, i cui esiti sono ancora in gran parte negli archivi che i figli stanno riordinando.

Leggendo insieme le traduzioni di questi tre ultimi libri, l’impressione è di entrare in una galleria di ritratti indimenticabili, restituiti direttamente attraverso il modo di parlare dei personaggi. Così è per il linguaggio tagliente e secco della più giovane della famiglia Glass, Franny, insofferente nei confronti dell’ipocrisia e della falsità dei suoi amici pseudo intellettuali. E per la piccola Sybil Carpeneter, in quel capolavoro in forma di racconto che è Un giorno perfetto per i pescibanana. Sybil entra in scena con un gioco di parole sul nome di quello che sarà il tragico protagonista del racconto, il più vecchio dei fratelli Glass, Seymour Glass, nome che lei ripete di continuo come «see more glass» (qualcosa del tipo «guarda più vetro!» giocando con una nonsensica omofonia ed esasperando la madre: è una pennellata di colore che delinea un personaggio necessario per entrare nell’inquietante mondo simbolico dei pescibanana, forse inventato da Seymour – hanno osservato alcuni critici – per dare conto a sé stesso e alla bambina del trauma della guerra come «eccesso di esperienze» che portano alla morte.

Più croci che delizie

Un terzo membro della famiglia Glass, fratello di Seymour, è presentato indirettamente nel secondo dei Nove Racconti dal titolo, come il precedente, piuttosto criptico: Uncle Wiggily in Connecticut. Morto durante il servizio militare in Giappone nel 1945, il personaggio di nome Walt viene evocato nel dialogo fra due signore ex compagne di stanza al college che, molto borghesemente, trascorrono il pomeriggio di un giorno feriale a ricordare le loro esperienze passate. Eloise, infelicemente sposata con un uomo noioso dedito completamente al lavoro e con una figlia che sembra infastidirla, ricorda all’amica quanto invece Walt fosse arguto e capace di farla ridere. Il personaggio è descritto unicamente attraverso un paio di giochi di parole, fulminanti per il lettore inglese, ma più croce che delizia per i traduttori. Così racconta Eloise: «Once,… I fell down. I used to wait for him at the bus stop… We started to run for it, and I fell and twisted my ankle. He said, “Poor Uncle Wiggily”. He meant my ankle. Poor old Uncle Wiggily, he called it… God, he was nice». Dunque: nel rincorrere l’autobus la ragazza cade e prende una storta alla caviglia (ankle). Walt immediatamente si rivolge alla caviglia e la chiama «Poor Uncle Wiggily», associando in prima battuta ankle con uncle (zio), e poi uncle con Wiggily, che era il protagonista di una serie di libri per bambini e di un gioco di società molto noto nell’America di quegli anni, dove un coniglio era afflitto da reumatismi, da lì wiggily, da to wiggle, ondeggiare, ancheggiare.

Le strade che il povero traduttore può imboccare per cercare di risolvere il calembour sono sostanzialmente due: o abdica, mettendo una nota, come fece a suo tempo Fruttero, che peraltro spiega chi è Uncle Wiggily, ma non dice nulla del gioco fra ankle e uncle; oppure cerca di mettersi in gioco. Colombo lo fa spesso e in modo apprezzabile. Nel caso della bambina see more glass, diventa il «Signor Gas»; per Walt, il passo citato diventa: «Una volta … sono caduta. Lo spettavo sempre alla fermata dell’autobus… e una volta è arrivato tardi, giusto mentre l’autobus ripartiva. Ci siamo messi a correre, e io sono caduta prendendo una storta. Lui mi fa: “Povero zio Stortino”. Intendeva il mio piede. Zio Stortino l’ha chiamato… Dio, quant’era simpatico». Certo, rimane fuori il riferimento culturale al coniglio, e il gioco uncle ankle, ma le coperte in dotazione dei traduttori sono sempre un po’ corte, e qualche caviglia rimane inevitabilmente fuori.

Parla il suo alter-ego
Stile completamente diverso quello di Buddy Glass, secondogenito della famiglia, scrittore e alter ego di Salinger, che nella prima parte di Seymour an Introduction sembra improvvisare, come un poeta della beat generation, con un incedere rapsodico e digressivo, una sintassi complessa da equilibrista sul filo, un lessico dettato da libere associazioni che ricorda i riff psichedelici di Kerouac. Qui Salinger mostra tutta la sua bravura di virtuoso della lingua, ossessionato dalle sfumature del linguaggio dei suoi personaggi, e piuttosto indifferente alla storia in senso stretto, come Buddy Glass/Salinger dichiara «Credo di essere sostanzialmente ciò che quasi sempre sono stato: un narratore, ma con pressanti esigenze personali. Voglio presentare, voglio descrivere, voglio distribuire ricordi, amuleti, voglio aprire il portafoglio e far girare fotografie, voglio seguire il mio istinto. Con questo stato d’animo, neppure oso avvicinarmi alla forma racconto, che gli scrittori grassocci e partecipi come me se li mangia in un boccone».

Compito davvero difficile quello affrontato qui da Colombo, che in Seymour ha cercato di essere il più vicino possibile alla ricerca di Salinger, e con rispetto e lealtà ha mantenuto fede al suo compito principale, ovvero cercare di trovare l’ideale accordo tonale che renda giustizia di una melodia scritta in un altro tempo. Grazie al suo lavoro, ora il lettore italiano ha un cofanetto con quattro sinfonie di Salinger dirette da uno stesso interprete, che come tutti i bravi direttori, si è avvalso della collaborazione delle maestranze che ruotavano intorno alla nuova edizione, facendo tesoro delle prove di chi lo ha preceduto.

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