Marcello Sorgi
Il mio terzo grado a Camilleri
la Stampa, 5 settembre 2025
Sembra ancora di vederlo, e di sentirlo con la sua famosissima voce roca, Andrea, circondato dalle sue donne - la moglie Rosetta, le figlie, le nipoti ancora bambine che sgattaiolavano carponi tra i suoi piedi - l’estate che quasi per gioco registrammo la sua autobiografia sotto forma di intervista. Adesso molti degli episodi svelati per la prima volta sono diventati epici, come voleva lui, perché Andrea era il primo a sapere che esisteva un’epica camilleriana.
Ci eravamo incontrati la prima volta, nel luglio ’98, Camilleri era già Camilleri, il caso letterario del momento, l’inventore del commissario Montalbano, le cui avventure vendevano in pochi giorni centinaia di migliaia di copie. Era venuto al Tg1, dove lavoravo, a presentare un nuovo libro. Una giovane redattrice col pallino della letteratura, Monica Maggioni, che nel frattempo ha fatto molta strada, mi propose di incontrare «il Queneau italiano»; e io, incuriosito da questo Queneau siciliano, mi ritrovai con lui a cena, l’indomani. Restammo seduti fin verso le tre di notte, ora in cui il nostro ospite, una vita in teatro, mostrava di aver raggiunto il climax ideale. Chiacchierammo di tv, cinema, letteratura, ovviamente dei suoi libri, di Sicilia, Pirandello, di Sciascia che non amava particolarmente. E a un certo punto anche di Elvira Sellerio, l’editrice che lo aveva lanciato e il giorno dopo, quando le confessai curiosità per il personaggio, capì subito.
Così mi ritrovai incaricato di scrivere un libro sulla sua vita. La casa in cui viveva allora a Roma, nel quartiere Prati, era cadente, ma fascinosa. Divani lisi, uno scorcio di cucina anni Cinquanta, lavatoi porcellanati, un frigo d’epoca rumoroso come un motore diesel, da cui Andrea, con aria soddisfatta, alle nove del mattino tirò fuori la prima di due mezze birre, chiarendo che per motivi di salute, dopo anni e anni, aveva dovuto smettere di bere, rinunciando al whisky; quel litro mattutino di schiuma di luppolo rappresentava il compromesso con il medico curante. Parlava come scriveva, col gusto della messa in scena tipico dei registi. Avvolti come lui nel fumo delle sue sigarette, i suoi episodi, i suoi personaggi sembravano prendere forma tra le volute azzurrine che sempre lo circondavano. Adorava raccontare: se ci fosse già stata quell’applicazione dei telefonini che trasforma in testo il parlato, il libro se lo sarebbe trovato scritto da solo.
Cominciò rievocando con rassegnazione siciliana la rovina della sua famiglia di ex-imprenditori dello zolfo, e descrivendo il padre, in una casa vuota e priva dell’antica servitù, che non accettava l’idea di non aver più un cameriere. Se gli veniva sete, si rivolgeva alla moglie: «Comanda che qualcuno porti del vino». La moglie andava a versarne un bicchiere e glielo metteva tra le mani. Ricco da ragazzo, era diventato povero così. Veniva da un ambiente di destra, conservatore, fascista, ma studiando Majakovskij, il suo primo amore teatrale, s’era scoperto di sinistra.
In pieno fascismo era andato a Firenze a ritirare un premio di poesia. Ma entrando nella sala - dove accanto a Pavolini, il gerarca che seguirà Mussolini fino all’ultimo, sedeva Kalterbrunner, il nazista che morirà impiccato a Norimberga - aveva visto la bandiera con la croce uncinata campeggiare su una parete, e alzandosi in piedi, aveva cominciato a urlare: «Togliete quella bandiera!». I fascisti lo portarono a forza in una stanza e lo massacrarono di botte. Se non ci fosse stato un prefetto siciliano che lo aveva fatto sparire, non sarebbe più tornato.
Il suo maestro di regia era stato Orazio Costa, ma era riuscito a farsi espellere dall’Accademia di Arte Drammatica, riaperta da Silvio D’Amico dopo la guerra, per una sventatezza giovanile. Negli Anni Cinquanta vigeva una rigida separazione tra ragazzi e ragazze, e quando la sua classe era stata mandata in Toscana per provare uno spettacolo, i maschi dovevano dormire in un convento di frati e le femmine in uno di suore. Andrea, appena fidanzato con una giovane attrice, non reggeva all’idea di passare la notte senza di lei. S’era fatto consegnare dall’amata la chiave del convento, e tutte le sere la raggiungeva, per sparire in silenzio, dopo, nella notte. Ma una volta, malauguratamente, i due presero sonno abbracciati. Al mattino, Camilleri fu scoperto dalla madre superiora che lo denunciò, facendogli perdere il posto all’Accademia, non la passione per il teatro.
È stato drammaturgo, regista, uomo di fiction, si direbbe oggi: curava gli sceneggiati in bianco e nero della vecchia tv monocanale (suoi, tra gli altri, i Maigret con Gino Cervi). Ma soprattutto, essenzialmente, è stato un “precario Rai”: nel senso che è riuscito ad andare in pensione senza mai aver ottenuto un contratto a tempo indeterminato. La ragione di questa incertezza elevata a regola di vita, oltre agli imperscrutabili criteri di selezione della Rai, era dovuta al fatto che Camilleri da giovane si sentiva, era già, pur non riuscendo a diventare realmente, lo scrittore che poi è stato da anziano. Il primo romanzo, scritto nel ’68, dovette aspettare undici anni per vederselo pubblicare dalla piccola casa editrice Lalli, in cambio di una citazione nei titoli di coda della trascrizione televisiva che intanto ne aveva ricavato.
Quello successivo, Un filo di fumo, lo aveva sottoposto al giudizio di Sciascia, che sbrigativamente lo scartò a causa del dialetto in cui in parte era scritto. Andrea obiettò che anche Pirandello a volte innovava il linguaggio. E Sciascia, categorico, e ignaro che la lingua di Montalbano sarebbe diventata la ragione del suo successo: «Pirandello in dialetto non scriveva!».
Il libro fu pubblicato da Garzanti, che impose come condizione un glossario in calce per la traduzione dei termini più oscuri. Ma questa del rapporto con Sciascia - e non solo con lui, anche con gli altri due grandi siciliani, Consolo e Bufalino, che mai vollero riconoscerlo come uno di loro - è materia che meriterebbe un approfondimento. «In fondo non ebbi mai dimestichezza con lui». Li divideva la questione dell’impegno politico, per cui un giorno Consolo lo attaccò personalmente in un’intervista. Andrea gli replicò citando Sartre: «Uno scrittore s’impegna nell’atto stesso di scrivere». Risposta pacata, fredda, siciliana: e non perché Camilleri non fosse impegnato, anzi, è stato il testimone scomodo del ventennio berlusconiano e inorridito di quel che è venuto dopo, fino a Salvini. Ma perché aveva il suo modo, ironico, paradossale, di prendere contatto con la realtà, si trattasse del delitto di Cogne o della guerra contro Saddam Hussein. Un modo documentato, approfondito, basato su dati di fatto - un certificato, un decreto, un volantino, come emergono dai suoi libri - e sull’indagine razionale, che dal fatto specifico si allarga, rivelando la ragnatela nascosta del potere. E a ogni buon conto: «Ogni tanto mi indigno... mi è successo qualche volta con Berlusconi», disse a un certo punto del nostro dialogo. Lo storico Giovanni De Luna ha scritto che «per contrastare le grida scomposte e gli schiamazzi che per vent’anni hanno riempito di umori tanto bellicosi quanto effimeri lo spazio della politica italiana, Camilleri ha scelto un altro tono, meno sopra le righe, che somiglia al “preferirei di no” dei dodici professori universitari (su 1200) che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo». Insomma se a un certo punto - e siamo già a metà degli Ottanta, Camilleri ha sessant’anni - non avesse incontrato la Sellerio, la sua sarebbe rimasta la storia dolorosa di un autore alla vana ricerca di un editore disposto a credere in lui, e non a sperimentarlo come un principiante.
Diversi dagli spettatori di teatro, silenziosi fino alla fine dello spettacolo, i lettori entrati nella sua vita a milioni con lettere, e-mail, messaggi, e faticosissimi incontri in cui si mettevano in fila per stringergli la mano, interessandosi della vita privata di Montalbano e della fidanzata Livia e criticando la tendenza del commissario a interessarsi di altre donne, a un certo punto lo hanno spaventato. La vita pubblica degli scrittori moderni, anche per uno come lui che non s’è mai preso fino in fondo sul serio, è molto faticosa. Da Maurizio Costanzo in poi, Camilleri finché ha potuto ha frequentato i talk-show. Una cosa impensabile per Pasolini e Moravia. «Magari non così spesso - osservava - almeno per Moravia e Sciascia. Per Sciascia credo dipendesse da com’era fatto. In fondo lui aveva imparato a parlare verso i quarant’anni. Prima, bofonchiava, o si esprimeva al meglio con i suoi famosi silenzi. E il silenzio, si sa, è la cosa più difficile da mettere in onda».
Dopo un’intera estate di incontri tra Roma e il Monte Amiata, dove Camilleri passava l’estate a scrivere nella sua casa di campagna, fui chiamato a Torino a dirigere La Stampa. Gli telefonai per annunciarglielo: «Sei il primo a saperlo, mi hai portato fortuna!». Ma reagì male: «Finìu u’ libbru!». Invece il libro uscì: ci fu un’ultima discussione sul titolo, La testa ci fa dire, che a lui piacque, e su cui invece Elvira aveva qualche dubbio, ma poi si lasciò convincere. In una caldissima serata di inizio agosto, andammo insieme a presentarlo a Porto Empedocle, tra i paesani che gli facevano festa e si mettevano in fila per salutarlo.
Sembrava un cantastorie, Andrea, «come quelli che vedevo ragazzino in Sicilia: quando smettevano di cantare, giravano con la coppola per chiedere un compenso. E se il cappello si riempiva, vuol dire che erano stati bravi».

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