Roberto Zanini
Trumplandia contro Nazioni Unite
il manifesto, 24 settembre 2025
C’è un uomo solo al comando, la sua cravatta è rossa, il suo nome è Donald Trump. Lui ha ragione su tutto, conclude guerre in modo seriale, riordina i commerci mondiali e quindi l’umana convivenza, combatte le truffe globali come il cambiamento climatico e lotta per l’anima delle nazioni contro immigrati che ne corrompono lo spirito.
In soli 57 minuti, il presidente degli Stati Uniti cancella gli ultimi dieci o venti anni di multilateralismo politico globale e impartisce una dura lezione al mondo dalla massima tribuna politica possibile, quella dell’Assemblea generale delle Nazioni unite.
È quella tribuna, quel podio nella grande sala affollata di presidenti mondiali, che realizza lo scarto tra ciò che era e ciò che è. Non è la solita accozzaglia di trumpate, perché questa volta Trump non si esprime sul suo social Truth, non parla al network amico Fox, nemmeno dallo Studio ovale che si è conquistato facendo assaltare Campidogli e vincendo elezioni, in questo ordine. Ieri ha parlato al pianeta intero, dal pulpito costruito per riordinare il mondo che era il sogno di Roosevelt e che oggi scivola sempre più rapido verso una marginalità a cui molti altri presidenti americani hanno contribuito, bombardando qua e là. Ma oggi la sfida è su una scala è maggiore, il progetto è totale, non serve bombardare qualcun altro e neanche far rotolare teste, è sufficiente renderle inutili: se nessuno interviene con forza per indicare una direzione diversa e meno elementare di “qui comando io”, da ieri l’Onu è una rovina politica fumante, un ostaggio del paese con più pil, più armi e più gas e petrolio di tutti – il contrario di ciò in cui volle credere un mondo offeso nel 1945.
Il podio all’Assemblea generale delle Nazioni unite è, o dovrebbe essere, il più importante microfono della politica globale. Trump lo ha usato per ripetere un dettaglio dopo l’altro la sua versione del mondo. Non ha detto una sola parola davvero nuova, ha recitato il suo repertorio imbottito di falsità, giusto con qualche enfasi maggiore della sua media pure molto elevata (il cambiamento climatico «la più grande truffa del mondo», per dirne una). Ma lo ha recitato tutto, tutto insieme, all’Onu.
Lo detesta da quando gli negò l’appalto per la ristrutturazione del Palazzo di Vetro, un affare da 500 milioni di dollari «e gli avrei messo i pavimenti di marmo», invece le scale mobili non funzionano e il gobbo elettronico neanche, quindi l’Onu è una manica di pelandroni inefficienti e parolai. Davvero basta per spazzare via ottant’anni di faticosa ricerca di equilibri comuni? Perché la soluzione che Trump prospetta non sono gli Stati Uniti d’America e la loro nuova età dell’oro. La sua soluzione è Trumplandia, una molto specifica e terrificante accezione di quel paese e della sua storia: un pianeta di frontiere sbarrate e tariffe doganali brandite come armi, di armi e di diritto messianico ad usarle, di idrocarburi che scorrono sulla Terra come latte e miele, di diritti riconosciuti o negati con molte differenze di sesso, razza, religione e censo, tutto in nome di una costante emergenza nazionale. Lo stato d’eccezione di Carl Schmitt ma con un sovrano permanente. E se non fate come dico io, go to hell.

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