Simonetta Sciandivasci
Aldrovandi, un'ingiustizia irreparabile
La Stampa, 24 settembre 2025
Federico Aldrovandi è un nome che manca. Dagli striscioni che chiedono giustizia per Giulio Regeni, quelli gialli grandi e giusti sulle facciate di certi municipi; nelle domande sul perché il senso dello Stato è così eroso in questo Paese; dai dibattiti sugli abusi di potere; dalle considerazioni sulle conseguenze della retorica accanita sulla sicurezza; dalla toponomastica (solo a Milano c’è una piazzetta in un giardino pubblico che gli è intestata con una targa su cui si legge: “Ragazzo. 1987-2005”). Manca dalle istituzioni, e dalla loro coscienza. Altrove, invece, la memoria di Federico Aldrovandi è viva, combattiva, reclamata. Gli amici e i tifosi della Spal, la squadra della sua Ferrara, lo ricordano ogni anno; nelle manifestazioni che chiedono giustizia (tutte?) c’è quasi sempre qualcuno che dice «Federico vive»; suo padre e sua madre non hanno mai smesso di lavorare affinché all’opinione pubblica fosse chiaro che il caso Aldrovandi ha a che fare con quella tumefazione di cui si parla quando si parla di violenza in carcere e di cariche della polizia contro i manifestanti, di Stefano Cucchi e Riccardo Rasman, di scuola Diaz e Ramy Elgaml.
«Purtroppo, non vedo un cambiamento. Anzi, le cose stanno peggiorando: ci sono leggi più restrittive, nulla che possa prevenire, se non l’informazione, ma non vedo qualcosa che lo Stato possa avere fatto per impedire che accadano tragedie come questa», ha detto Patrizia Moretti, la madre di Federico, a un convegno organizzato a Ferrara in memoria di suo figlio, qualche giorno fa. La ricordiamo tutti con sempre tra le mani l’immagine di suo figlio morto, la testa su una pozza di sangue, quella che Carlo Giovanardi riuscì a dire che era un cuscino. Lei è e sempre sarà “la madre di Aldrovandi”, il ragazzo che all’alba del 25 settembre 2015, vent’anni fa esatti, è stato picchiato da 4 agenti della polizia tanto da rompergli un manganello addosso e fargli esplodere il cuore. Aveva 18 anni e due mesi, l’esame della patente da dare, una famiglia pazza di lui, una grande passione per il clarinetto e il karate.
È morto per ipossia seguita da ischemia cardiaca e c’è voluto del tempo per accertarlo e contrastare così la versione fatta circolare immediatamente, che lo voleva un facinoroso violento vittima di un mix di alcol e droghe: in un’interrogazione parlamentare, Giovanardi disse che era «un eroinomane». È stato trovato che Federico aveva nel sangue un quantitativo di alcol così basso che avrebbe superato qualsiasi test. I 4 agenti che lo hanno ammazzato sono stati condannati a 3 anni e sei mesi per omicidio colposo. Sono usciti dopo 6 mesi e sono tornati in caserma. «Evidentemente la polizia non li riteneva indegni di tornare a lavorare», ha detto Patrizia Moretti in un’intervista, qualche giorno fa. Uno di quegli agenti, Paolo Forlani, nel 2012, quando la Cassazione li condannò con sentenza definitiva, la definì «falsa ipocrita faccia da culo» sulla pagina Facebook “Prima Difesa Due”, un gruppo aperto che, nelle intenzioni della presidente Simona Cenni, doveva “tutelare gratuitamente per cause di servizio tutti gli appartenenti alle Forze dell’Ordine e Forze Armate”.
In tutti questi anni, suo figlio è diventato un simbolo e lei non è parsa mai sola. La sua battaglia e quella del marito Lino hanno confinato e ridotto, nel nostro sguardo su di loro, la considerazione del dolore con cui convivono, e li ha ipostatizzati. Finora, più che raccontare cos’è stato della loro vita, hanno combattuto. La loro voce sull’altra parte, sul vuoto, sul male che gli si è conficcato dentro per sempre, l’ha raccolta Michele Dalai, in un libro che esce ora per Aliberti, si chiama Aldro, e la storia di Federico la racconta da tutti i punti di vista: quello di due dei 4 assassini e in particolare di uno di loro, un ragazzo scisso in due parti, del quale Dalai riporta l’idea di mondo, le giustificazioni, l’autodifesa balorda; quello del suo migliore amico e della ragazza che gli piaceva; quello della Chiesa da dove si è visto tutto; delle ipotesi fantasmatiche che a un certo punto sono state avanzate, del fratello Stefano, e infine della madre e del padre. Ciascuno di loro ha una lettera per lui.
Dalai non ha inventato: ha raccolto testimonianze tra i suoi amici e tra le persone che c’erano, mentre le parti di Lino e Patrizia Moretti le hanno scritte loro. Lino scrive a un certo punto: «C’è un mondo in cui saremo sempre, in cui sapremo e continueremo a parlarci. C’è un mondo in cui mi chiederai come si smonta una bici, quali stivali tengono meglio l’acqua, come chiedere un mutuo». Moretti scrive a un certo punto: «Dirò spesso che sei morto in guerra, ma una guerra dietro l’angolo di casa, quella tra la forza bruta e la compassione. Conosco la guerra, me l’hanno raccontata. Quella dei miei genitori, di mia nonna e della sua figlia persa, degli aerei e del rumore. Il rumore e la paura. Tu ora sei in silenzio, per terra. Come un bambino inerme. E passeranno vent’anni e ancora io penserò che sia caduto in una trappola».
Federico Aldrovandi è stato ammazzato senza motivo. Ed entrare nella strada in cui è successo, nelle vite di chi gli stava intorno, in una provincia placida e perfino noiosa, è importante perché è importante in sé, vista la storia, visti i fatti, visti i non detti, visto l’epilogo, visto che «le cose stanno peggiorando», ma è importante anche perché tra tutte le cose che veniamo addestrati a temere, non c’è la sicurezza, e il modo in cui l’ossessione per la sicurezza ci mette in pericolo perché ci rende giustizieri, violenti, diffidenti, meschini, allertati, preventivamente arrabbiati. Dalai lo mostra con precisione, in questo libro vibrante, e pieno di tenerezza, lucidità, orrore sconvolgente e nessun rancore: è un libro pieno di assenza di rancore.
Una società è civile quando sa avere paura senza provare rancore. Questo Paese, però, conosce troppe verità parziali e ingiustizie assolute per non provare rancore, e troppe volte chi doveva difendere ha aggredito: nessun politico sembra averne contezza, eppure qua sta uno dei tarli della partecipazione.
https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/aldrovandi-per-sempre-perche-e-un-simbolo-della-giustizia-possibile-af042xlp

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